Un difetto al piede all’origine del peccato

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Col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Nel primo capitolo del vangelo di Matteo, immediatamente dopo la ricca descrizione della genealogia davidica, il narratore, senza preamboli né espedienti letterari, che d’altronde non appartengono al registro linguistico dei sinottici, c’informa che Giuseppe stava per licenziare in segreto Maria a causa della gravidanza, quando intervenne un angelo del Signore e gli ingiunse di prenderla in sposa. “(…) Quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” [20-21]. Il frammento su cui concentriamo i nostri sforzi ermeneutici è il seguente:

(…) καλέσεις τὸ ὄνομα αὐτοῦ Ἰησοῦν, αὐτὸς γὰρ σώσει τὸν λαὸν αὐτοῦ ἀπὸ τῶν ἁμαρτιῶν αὐτῶν: kalèseis to ònoma autoù Iesoùn, autòs gar sòsei ton laòn autoù apò ton hamartiòn autòn [Lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il proprio popolo dai propri peccati (21)].

Gli atti linguistici del messaggero divino sono chiaramente caratterizzati da perentorietà. L’annunciazione non potrebbe esplicarsi in altra formula. Tuttavia, il testo, che, da principio, sembra molto semplice, a ben vedere, è costruito su segni e intrecci semantici e simbolico-semiotici molto complessi. Con una traduzione letterale e, ovviamente, inadeguata, ma utile per il momento, potremmo rendere la prima parte del frammento, καλέσεις τὸ ὄνομα αὐτοῦ Ἰησοῦν, con “chiamerai il nome di lui Gesù”. Gesù, infatti, è all’accusativo, essendo concordato con ὄνομα, oggetto del verbo καλέω (kalèo), ovverosia della solenne e irrevocabile ingiunzione. Ἰησοῦς (Iesoùs), com’è ormai noto, significa “Dio salva”. Ne consegue che Gesù è Dio e che l’incarnazione è direttamente legata alla salvezza; il verbo – di qui, si potrebbe già rinviare al vangelo di Giovanni – è il postulato della salvezza, sostanza del riscatto del popolo di lui. Non bisogna mai trascurare il concetto di appartenenza del popolo, che il redattore evangelico, con estrema precisione, mette in evidenza attraverso il ricorso al genitivo del pronome αὐτοῦ (autoù), giacché la salvezza è l’espressione d’un’antica e rinnovata alleanza proprio tra Dio e il suo popolo. Nella seconda parte del frammento, il valore del postulato e quello simbolico-semiotico del nome giungono a compimento. La prima testimonianza lessicale è costituita da σώσει (sòsei), futuro di σῴζω (sòzo), salverà, libererà o, addirittura, renderà sano. La seconda, invece, dipende dall’azione di riscatto, che è necessaria e inevitabile perché il λαός θεοῦ (laòs theoù, popolo di Dio) è nel peccato. Il termine greco-matteano per peccato è ἁμαρτία (hamartìa), che nel testo troviamo al genitivo plurale ἁμαρτιῶν (hamartiòn).

Nel capitolo 8 della Genesi [21], si legge che “il cuore dell’uomo concepisce disegni malvagi fin dall’adolescenza”, cosicché siamo indotti a credere che non ci sia opportunità di purificazione, ma, nei Salmi, sembra, diversamente, che ci si possa appropriare d’un’esortazione salvifica, per quanto questa non sia di semplice fruizione: “Allontanati dal male e fa’ il bene; / dimorerai nel paese per sempre” [37,27]. Per la cultura mosaica, chi commette un peccato, in sostanza, compie un preciso atto in violazione dei comandamenti e, soprattutto, dell’alleanza, quella tra Dio e i Figli d’Israele, in funzione della quale il proponimento rabbinico si fonda su una vera e propria ortoprassi. A tal proposito, non possiamo aggiungere altro perché ci allontaneremmo molto dal lavoro lessicografico su peccato e sulla sua radice. Al contrario, è doveroso approfondire la concezione cristiana, pur restando nei limiti del nostro campo d’indagine, dalla quale concezione noi abbiamo ereditato il significato di peccato come stato, condizione, offesa a Dio e trasgressione delle sue leggi. In realtà, scopriremo presto che l’etimo di peccato indica anzitutto una condizione fisica, qualcosa che, dunque, in origine non aveva alcun legame con le leggi divine.

Secondo il Catechismo della Chiesa cattolica, “il peccato è una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni” [sez. I, cap. I, art. 8, II, 1849]. I sostantivi ragione, verità, coscienza e trasgressione sono retti, come si può facilmente notare, dalla preposizione “contro”, ma l’intera costruzione sintagmatica dipende da “mancanza”, non altrimenti che se si configurasse una sorta di vuoto della personalità, un non esserci per aver tradito qualcosa, l’essere in uno stato di privazione. Se, in effetti, facciamo una semplice ricerca del termine “mancanza” sui vocabolari, troviamo molte definizioni che, rispetto a quelle che abbiamo appena indicate, paiono sinonimiche; la qual cosa ci fa intuire e pensare che, molto probabilmente, nei secoli, la comunità dei parlanti abbia acquisito una sorta di archetipo linguistico. Il sostantivo “peccato”, in altri termini, sembra esprimere una condizione più ontologica e metafisica che pratica. Infatti, secondo la dottrina del peccato originale, elaborata dal Concilio di Trento in poi, la colpa adamitica si trasmette di generazione in generazione e, sebbene al neonato, col battesimo, sia concessa la remissione, la colpa, in quanto inclinazione o statuto ontologico, non è affatto cancellata.

Alla donna disse: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”. All’uomo disse: “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!” [Gen 3, 16-19].

Il sacrificio di Cristo, del nuovo Adamo, serve a sancire il valore della nuova alleanza, che si compie con la sua morte e la sua resurrezione: per ottenere il perdono dei peccati bisognerà rispettare i suoi comandamenti. “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi” [Lc 22,20] afferma Cristo durante l’universalmente nota ultima cena. Nel nome della Persona Christi e del suo sacrificio, s’imporrà successivamente il precetto paolino: Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita” [Rom 5, 18]. Nel solo capitolo 5 della Lettera ai Romani, fatto di poche righe, l’apostolo ricorre con insistenza al termine “peccato” (ἁμαρτία, hamartìa): ne rileviamo nove occorrenze, unitamente alle tre occorrenze di “peccatori” (ἁμαρτωλαί, hamartolài) e alle sei occorrenze di “morte” (θάνατος, thànatos), cui il peccato è associato. Di qua dalle interpretazioni personali del fenomeno religioso e spirituale, non si può fare a meno di coglierne la portata sociolinguistica, vale a dire l’impatto sul modo di raccontare l’essere e la sua condizione, specie se si considera l’amplissima fruizione del Nuovo Testamento, anche in forma d’apprendimento indiretto.

Se a questo aggiungiamo che Agostino d’Ippona, Padre e Dottore della Chiesa, oltre che Santo, nel De civitate Dei, ha istituzionalizzato, per così dire, il concetto di peccato originale, fissandolo nella proposizione comparativa proporzionale latina “quanto magis (…) tanto maiore (…)” e qualificando il genere umano come massa dannata, allora si può acquisire la consapevolezza sia dello sviluppo del processo di significazione sia della creazione di un perimetro semantico invalicabile.

Sed poena aeterna ideo dura et iniusta sensibus videtur humanis, quia in hac infirmitate moribundorum sensuum deest ille sensus altissimae purissimaeque sapientiae, quo sentiri possit quantum nefas in illa prima praevaricatione commissum sit. Quanto enim magis homo fruebatur Deo, tanto maiore impietate dereliquit Deum et factus est malo dignus aeterno, qui hoc in se peremit bonum, quod esse posset aeternum. Hinc est universa generis humani massa damnata; quoniam, qui hoc primus admisit, cum ea quae in illo fuerat radicata sua stirpe punitus est, ut nullus ab hoc iusto debitoque supplicio nisi misericordi et indebita gratia liberetur [In realtà la pena eterna sembra dura e ingiusta alla sensibilità dell’uomo, poiché in questa debolezza propria dei sensi, che sono destinati a morire, manca il senso dell’altissima e purissima sapienza, secondo la quale si può percepire la nefandezza di quel primo peccato. Quanto più, infatti, l’uomo godeva di Dio, tanto maggiore fu l’empietà con cui lo ha abbandonato; ha meritato così il male eterno colui che distrusse in sé stesso quel bene che poteva essere eterno. Da qui tutto quanto il genere umano divenne una massa dannata, poiché il primo uomo che si rese colpevole fu punito in tutta la sua discendenza che scaturiva da lui. In tal modo nessuno può essere liberato da questo castigo giusto e meritato, se non per la grazia misericordiosa e immeritata (S. AGOSTINO, De civitate Dei, XXI, 12, a cura di L. Alici, La città di Dio, 2001, Bompiani, Milano, p. 1085, testo latino a cura di B. Dombart, 1877, Teubner, Lipsia, p. 514)].

 A dispetto dell’evidente e schiacciante indottrinamento operato dagli istitutori e dai teologi del cristianesimo, le cui teorie, a tratti, si sono rivelate pure piuttosto feconde e affascinanti, il termine peccato, come abbiamo anticipato, ha, per così dire, un’origine ‘fisica’. Il virgolettato, in realtà, potrebbe essere un po’ limitante, in relazione al fatto che, in effetti, non c’è peccato senza un difetto originario che riguardi il piede. A questo modo, il registro linguistico sembra farsi ironico, cosicché è nostro dovere fare le opportune precisazioni. Anzitutto, l’antecedente latino di peccato è peccātŭ(m), che si traduce facilmente con sbaglio, errore, colpa. Insomma, l’omografia tra i termini, pur se parziale, dovrebbe essere d’aiuto anche a chi non ha mai studiato il latino. Peccātŭm, a propria volta, deriva da peccāre, sbagliare, commettere una mancanza, fare un passo falso e, di conseguenza, cadere in fallo. Con le ultime due definizioni, fare un passo falso e cadere in fallo, si può già intuire il senso del nucleo semantico cui abbiamo fatto chiari cenni. Nocentini e Parenti [2010], infatti, nel proprio dizionario etimologico, documentano, in quanto a peccato, che “si suppone alla sua base un aggettivo *peccus, col piede difettoso (< *ped-cus) < pes, piede (…) Il suffisso -cus, in latino, è proprio degli aggettivi che si riferiscono a difetti fisici”. Ciò è reso possibile dalla presenza della radice indoeuropea *ped- / pod-, che significa, per l’appunto, piede e da cui si sono formate sia la voce greca πούς (poùs) sia quella latina pēs, entrambe coll’inequivocabile significato di piede.

Leggendo e rileggendo i testi dei classici latini, infatti, non facciamo alcuna fatica ad accertarci rapidamente della funzione d’uso del verbo peccāre.

Est mihi purgatam crebro qui personet aurem: “Solve senescentem mature sanus equum, ne peccet ad extremum ridendus et ilia ducat”. [E per me c’è una voce, che spesso risuona nel nitido orecchio: “Abbi giudizio! Stacca a tempo il cavallo che diventa vecchio acciocché alla fine non inciampi e non faccia il fiato grosso, fra le risa del pubblico” (ORAZIO, Epistole, I, I, 7-9, in Opere, a cura di T. Colamarino e D. Bo, UTET, Torino, pp. 362 e 390)].

Nella ricostruzione etimologico-terminologica che stiamo facendo, il ‘peccatore’, dunque, era colui che, avendo un difetto al piede, tendeva a poggiarlo male e rischiava continuamente di cadere. Molto probabilmente, in una fase successiva, il difetto scomparve per slittamento dall’azione del peccāre, restando unicamente il cadere in fallo come ampia metonimia, e, da ultimo, com’è noto, lo stesso cadere in fallo divenne addirittura oggetto di ‘sublimazione semantica’ e, per giunta, nell’accezione negativa. Di fatto, le società antiche non conoscevano affatto il concetto di peccato, laddove, invece, possedevano fermamente quello di vizio. Non a caso, Pietro Abelardo, precursore della Scolastica, s’impegna a far notare la distinzione tra vizio e peccato: il vizio rimanda all’idea di qualcosa che si configura come inclinazione naturale e pressoché inevitabile, mentre il peccato implica l’idea della volontarietà dell’azione.

Non itaque concupiscere mulierem, sed concupiscentiae consentire peccatum est; nec voluntas concubitus, sed voluntatis consensus damnabilis est [Quindi non è peccato desiderare una donna, ma acconsentire alla concupiscenza; né è condannabile la volontà di convivenza, ma il consenso volontario (PIETRO ABELARDO, Ethica seu Liber dictus Scito te ipsum, III, trad. nostra, in Opera omnia, tomus unicus, apud Patrologiae cursus completus, series latina, tomus CLXXVIII, a cura di J. P. Migne, 1855, J. P. Migne, Lutetia Parisiorum, col. 639)].

Fu Evagrio Pontico (345-399), un eremita del IV secolo che visse appartato nel deserto egiziano, a porre per primo le basi del sistema dei vizi capitali, seguito, poi, dal proprio discepolo Giovanni Cassiano (360-435). Essi distinsero, originariamente, otto peccati capitali, che, in seguito, Gregorio Magno (540-604) ridusse a sette: superbia, avarizia, ira, gola, lussuria, invidia, tristezza. Successivamente, si fisserà in modo definitivo l’accidia e la tristezza sarà compresa in essa, contro gli originari gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria e superbia. La codificazione di Gregorio Magno si affermò soprattutto dopo il Concilio Laterano IV del 1215, quando fu imposto ai fedeli l’obbligo della confessione annuale e giustificato il numero sette dei vizi capitali, sulla scorta del modello delle Sette Virtù principali, dei Sette Doni dello Spirito Santo, delle Sette richieste del Padre Nostro, delle Sette Beatitudini.

Ὀκτώ εἰσι πάντες οἱ γενικώτατοι λογισμοὶ, ἐν οἷς περιέχεται πᾶς λογισμός. Πρῶτος ὁ τῆς γαστριμαργίας, καὶ μετ’αὐτὸν ὁ τῆς πορνείας· τρίτος τῆς φιλαργυρίας; τέταρτος ὁ τῆς λύπης· πέμπτος ὁ τῆς ὀργὴς; ἕκτος ὁ τῆς ἀκηδίας· ἕβδομος ὁ τῆς κενοδοξίας; ὄγδος ὁ τῆς ὑπερηφανίας: Oktò eisi pàntes hoi ghenikòtatoi loghismòì, en hois perièchetai pas loghismòs. Pròtos ho tes gastrimarghìas, kai met’autòn ho tes pornèias; trìtos tes philargyrìas; tètartos ho tes lýpes; pèmptos ho tes orghès; hèktos ho tes akedìas; hèbdomos ho tes kenodoxìas; ògdos ho tes hyperephanìas [Otto sono tutti i principali desideri peccaminosi, nei quali è contenuto ogni desiderio peccaminoso. Il primo è la gola, il secondo la libidine, il terzo l’avarizia, il quarto la tristezza, il quinto l’ira, il sesto l’accidia, il settimo la vanagloria, l’ottavo la superbia (SS. PATRUM AEGYPTIORUM, Opera omnia, trad. nostra, tomus unicus, apud Patrologiae cursus completus, series graeca, vol. 40, a cura di J. P. Migne, 1858, J. P. Migne, Lutetia Parisiorum, col. 1272)].

Radix quippe cuncti mali superbia est, de qua, Scriptura attestante, dicitur: initium omnis peccati est superbia [Eccl. X, 15]. Primae autem eius soboles, septem nimirum principalia vitia, de hac virulenta radice proferuntur, scilicet inanis gloria, invidia, ira, tristitia, avaritia, ventris ingluvies, luxuria [Senza dubbio la radice di ogni male è la superbia, di cui, come testimonia la Scrittura, è detto: Il principio di ogni peccato è la superbia [Eccl. X, 15]. E i suoi primi germogli, appunto i sette vizi principali, sono prodotti da questa radice virulenta, cioè vanagloria, invidia, ira, tristezza, avarizia, gola, lussuria (SANCTI GREGORII PAPAEI, Moralia, XXXI, XLV, 87, trad. nostra, Opera omnia, tomus secundus, apud Patrologiae cursus completus, series latina, tomus LXXVI, a cura di J. P. Migne, 1878, J. P. Migne, Lutetia Parisiorum, col. 621)].

Una concezione della colpa che può aiutarci a stimare le differenze concettuali è quella della civiltà greca, in cui l’errore per eccellenza era indubbiamente generato dalla ὕβρις (hỳbris), eccesso, insolenza, arroganza dei pensieri, dissolutezza et similia. La ὕβρις scatenava la reazione divina sotto forma di giustizia, che colpiva i colpevoli anche nella loro discendenza. Questo sostantivo può essere tradotto anche con oltraggio, offesa; il che ci riconduce alla rielaborazione che se n’è fatta a opera dei redattori del Catechismo della Chiesa cattolica di cui abbiamo riportato il frammento. A causa della colpa di ὕβρις, spesso, l’individuo poteva sentire il bisogno di una catarsi, cioè di una purificazione al fine di liberarsi, attraverso l’espiazione, dall’agitazione procurata dai cattivi demoni.

A proposito della cultura greca, va ricordato che la zoppia, nella storia, anche se per poco, era considerata una sorta di privilegio. Il difetto fisico, in altri termini, era espressione d’un legame con l’aldilà. Basta pensare alla zoppia del divino Efesto, deforme fin dalla nascita, per farsene un’idea. Apollodoro ne indica così le cause:

Ἥρα δὲ χωρὶς εὐνῆς ἐγέννησεν Ἥφαιστον· ὡς δὲ Ὅμηρος λέγει, καὶ τοῦτον ἐκ Διὸς ἐγέννησε. ῥίπτει δὲ αὐτὸν ἐξ οὐρανοῦ Ζεὺς Ἥρᾳ δεθείσῃ βοηθοῦντα· ταύτην γὰρ ἐκρέμασε Ζεὺς ἐξ Ὀλύμπου χειμῶνα ἐπιπέμψασαν Ἡρακλεῖ, ὅτε Τροίαν ἑλὼν ἔπλει. πεσόντα δ’ Ἥφαιστον ἐν Λήμνῳ καὶ πηρωθέντα τὰς βάσεις διέσωσε Θέτις: Hèra de chorìs eunès eghènnesen Hèphaiston; hos de Hòmeros lèghei, kai toùton ek Diòs eghènnese. Rìptei de autòn ex ouranoù Zeus Hèra dethèise boetoùnta; tàuten gar ekrèmase Zeus ex Olýmpou cheimòna epipèmpsasan Heraklèi, hòte Tròian helòn èplei. Pesònta d’Hèphaiston en Lèmno kai perothènta tas bàseis dièsose Thètis [Era generò Efesto senza accoppiarsi; secondo Omero invece anche lui nacque da Zeus. Quando E festo cerca di aiutare Era messa in catene, Zeus lo scaglia giù dal cielo. Zeus, infatti, aveva appeso la dea all’Olimpo quando lei aveva suscitato una tempesta contro Eracle, che tornava per mare dopo aver conquistato Troia. Efesto cadde a Lemno e si azzoppò le gambe. Teti lo salvò (APOLLODORO, Biblioteca, I, 3, 5, in I miti greci, a cura di P. Scarpi, trad. it. di M. G. Ciani, 1996, Fondazione L. Valla, Mondadori, Milano, pp. 14-17)].

Le testimonianze letterarie sulla relazione dialettico-diacronica tra peccato-difetto e peccato-offesa-colpa sono talmente numerose da rendere difficile la scelta. Per esempio, anche se appare quasi inopportuno trascurare il lavoro poetico di Dante, che dedica molto spazio ai peccatori nella Divina Commedia, e così pure la disputa teologica nata in seno alla Riforma e alla Controriforma, purtroppo, siamo costretti a limitare le note extra ordinem per non allontanarci troppo dall’obiettivo lessicografico. Restano da chiarire, infatti, ancora alcuni elementi della famiglia semantica trattata. Come sappiamo, il piede è anche un’unità di misura, qualcosa che già gli autori latini attestavano.

Qui semel aspexit, quantum dimissa petitis praestent, mature redeat repetatque relicta. Metiri se quemque suo modulo ac pede verum est [Chi ha provato solo una volta quanto sia superiore ciò che si lascia di ciò che si chiede, torni prontamente indietro e riprenda la via abbandonata (lett. le cose abbandonate). È vero che ognuno misura secondo la propria unità di misura e il proprio piede [ORAZIO, Epistole, I, VII, 96-98, trad. nostra, in Opere, a cura di T. Colamarino e D. Bo, 2013, UTET, Torino, pp 373-400)].

In questo senso, si può immaginare che il peccato sia anche la misura dell’errore dell’uomo verso Dio. L’ipotesi che facciamo ci sembra più che fondata perché gli stessi redattori del Catechismo della Chiesa cattolica propongono una severa classificazione dei peccati, che non è affatto limitata alla distinzione tra peccato mortale e peccato veniale, come comunemente si pensa [“Si possono anche suddividere a seconda che riguardino Dio, il prossimo o sé stessi; si possono distinguere in peccati spirituali e carnali, o ancora in peccati di pensiero, di parola, di azione e di omissione” (sez. I, cap. I, art. 8, III, 1853)].

Il veicolo linguistico indoeuropeo della colpa ci conduce a un’altra scoperta, cioè a un altro fenomeno etimologico che il parlante comune di rado può concepire e ammettere. Per descriverlo ricorriamo alla definizione del GDLI: “Che è macchiato di vizi, difetti, colpe o peccati più gravi”. La definizione in questione riguarda l’aggettivo peggiore, che è, sì, il grado comparativo di cattivo, come c’insegnano fin dai primi anni di scuola, ma è anzitutto colui che, per metafora, è caduto e s’è reso colpevole. La forma latina è pēior, comparativo di mălus. Come scrivono Ernout e Meillet [2001], in indoeuropeo, i nomi intensivi in *-yes- indicano ciò che esercita con forza l’azione indicata dal verbo. La forma *pedyos su cui è costruito peior, pertanto, designerebbe ciò che specificamente fa cadere, ciò che cade. Ne consegue che il peggiore è colui che ha messo il piede in fallo. Insomma, il peggiore è un peccatore.

Omo in sua passione / membrar lo scampo come sia presto / che mal per mal no alega, ché magiore / aluma foco e ardore, / e per sovrabondanza trasnatura / senno e misura, – reo face pegiore [CHIARO DAVANZATI, Rime, CCLXXXV, 7-12, in Le antiche rime volgari secondo la lezione del Cod. Vaticano 3793, a cura di G. D’Ancona e D. Comparetti, vol. III, 1884, Romagnoli, Bologna, p. 261].

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