Il senso delle veglie e delle vigilia: preghiera, insonnia o sorveglianza

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col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Durante il Medioevo, un giovane che, dai quattordici ai ventun anni, si era preparato come scudiero, sottoponendosi a continue prove e addestramenti militari, e il cui desiderio fosse quello di diventare cavaliere doveva affrontare una complessa e fascinosa veglia notturna, la cosiddetta veglia d’armi. Si trattava di una sorta di ascesi iniziatica, caratterizzata dal digiuno e, soprattutto, dalla preghiera, che l’aspirante cavaliere poteva recitare solo dopo aver fatto un bagno purificatore e avere indossato una tunica di lino bianca che ne indicava la purezza. La mattina successiva, il postulante indossava un abito color porpora, si recava in chiesa e, dopo la messa cantata, si presentava presso l’altare, dove il sacerdote benediceva la spada. Con la spada al collo e le mani giunte, il giovane s’inginocchiava davanti al proprio patrono, che gli assestava un colpo di spada a lama aperta  sulla guancia o sulla nuca: una vera prova di forza, questa, di fronte alla quale il postulante doveva cercare di rimanere saldo. In seguito al giuramento, il signore gli accordava il titolo di cavaliere. Alcuni suoi pari, a questo punto, gli si avvicinavano e completavano la vestizione, dotandolo di speroni, scudo, corazza, bracciali, manopole e cingendolo della spada. La cerimonia, che prendeva il nome di adoubement, era chiusa, in genere, da un torneo, una giostra, una parata d’armi e un banchetto. Dalla summenzionata veglia d’armi, ovverosia da questa pratica rituale e, in particolare, dal colore della veste cerimoniale, ha assunto un sostanzioso valore d’uso l’espressione “passare la notte in bianco”, che, naturalmente, oggi, impieghiamo per lamentare i disagi d’una notte in cui non siamo riusciti a dormire. Da una forma d’elevazione a una sgradita perdita: questo genere di veglia e la sua bianchezza hanno subito, nei secoli, com’è evidente, una radicale metamorfosi di significato.

Di là dal coinvolgente aneddoto, che la trasposizione cinematografica ha spesso affidato alla fantasia, nel corso di questo studio, scopriremo agevolmente che veglia ha almeno tre significati fondamentali, che, di fatto, appartengono pure a vigilia: condizione di chi rinuncia al sonno per un qualsivoglia motivo; sorveglianza notturna; preghiera notturna a carattere liturgico [GDLI].  Nel Vangelo di Marco, per esempio, troviamo una sorta di istituto linguistico della cristianità, cioè uno di quegl’insegnamenti del Maestro trasformatosi presto in una lezione di culto per i fedeli:

βλέπετε, ἀγρυπνεῖτε, οὐκ οἴδατε γὰρ πότε ὁ καιρός ἐστιν: Blèpete, aghrypnèite, ouk òidate gar pòte ho kairòs estin [State in guardia, vegliate, non sapete quand’è il tempo giusto (Mc 13, 33)].

I due imperativi con cui si apre la pericope, βλέπετε (blèpete, state in guardia) e ἀγρυπνεῖτε (aghrypnèite, vegliate), costituiscono indubbiamente il nucleo sia dell’esortazione cristica sia della tradizione cultuale. In particolare, ἀγρυπνεῖτε può essere ritenuto, tra i tanti dello stesso genere, il punto di riferimento comportamentale e spirituale del buon cattolico, accolto e interpretato con estrema devozione dai monaci e dagli asceti del IV secolo, passato in modo graduale all’ufficio della vigilia, specie se teniamo in considerazione la notte della celebrazione della Natività. Tuttavia, la madre di tutte le veglie, come la definì Agostino d’Ippona, Doctor Gratiae, resta la Veglia della Notte Santa, cioè quella della Santa Pasqua, il cuore dell’anno liturgico in cui si rivivono la passione e la resurrezione di Cristo.

Quanto ergo alacrius in hac vigilia, velut matre omnium sanctarum vigiliarum, vigilare debemus [Dunque, quanto più ardentemente in questa veglia, in quanto madre di tutte le veglie sante, dobbiamo vegliare (AGOSTINO, Sermo CCXIX, In vigiliis Paschae, in Cursus Patrologiae latinae, vol. 38, Sancti Aurelii Augustini hipponensis episcopi Opera omnia, a cura di J. P. Migne, tomus V, 1841, J. P. Migne, Parigi, col. 1088)].

Naturalmente, le testimonianze letterarie circa i rituali di veglia, nell’antichità, sono numerosissime e il nostro obiettivo non è affatto quello di tentare una ricostruzione storico-antropologica del fenomeno cultuale. Aggiungiamo solo che, nel mondo romano, in origine, col termine vigilia si indicavano i sacrifici notturni che le donne compivano nel tempio di Cerere, dove esse vegliavano tutta la notte. Tali sacrifici erano noti come mysteria o initia. Cicerone, nelle Verrine, parla di un sacrario in Sicilia:

Sacrarium Cereris est apud Catinensis eadem religione qua Romae, qua in ceteris locis, qua prope in toto orbe terrarum. In eo sacrario intimo signum fuit Cereris perantiquum, quod viri non modo cuius modi esset sed ne esse quidem sciebant; aditus enim in id sacrarium non est viris; sacra per mulieres ac virgines confici solent [A Catania si trova un santuario di Cerere che ha moltissimi devoti, come del resto quello di Roma e quelli di tutti gli altri luoghi sparsi in quasi tutto il mondo. Nella parte più riposta di quel tempio c’era una statua di Cerere, antichissima, di cui gli uomini ignoravano oltre che la forma addirittura l’esistenza: ché gli uomini non vi hanno accesso e a celebrare i sacri riti sono normalmente donne (scil. maritate) e ragazze (scil nubili) (CICERONE, Verrine, IV, 45,49, in Le orazioni, vol. I, a cura di G. Bellardi, 2002, UTET, Torino, pp. 1090-1091)].

In sostanza, si trattava degli orgia, momenti di abbandono ed estasi, un vero e proprio rito di invasamento, facilitato, forse, da allucinogeni o bevande alcoliche. Il culto di Cerere, dea arcaica della vegetazione e delle messi, è antichissimo. La prima attestazione dell’esistenza della dea Cerere è un’iscrizione su un’urna falisca risalente al 600 a.C. circa, nella quale compare il nome della dea associato col farro. Il più antico culto romano della dea Cerere è documentato in Sicilia e, precisamente, nella città di Etna-Inessa, l’odierna Motta Santa Anastasia. Dell’importanza di tale culto per i Romani ci dà testimonianza ancora Cicerone, che, pur confondendo Etna-Inessa con Enna, riferisce:

Vetus est haec opinio, iudices, quae constat ex antiquissimis Graecorum litteris ac monumentis, insulam Siciliam totam esse Cereri et Liberae consecratam (…) Mira quedam tota Sicilia privatim ac publice religio est Cereris Hennensis. Etenim multa saepe prodigia vim eius numenque declararunt [È antica tradizione, signori giudici, fondata documenti scritti e altre testimonianze greche, che l’isola di Sicilia sia tutta quanta consacrata a Cerere e a Libera (…) In tutta la Sicilia è veramente straordinario il culto, sia privato che pubblico, tributato a Cerere di Enna; in realtà molti miracoli rivelano spesso la sua potenza soprannaturale (CICERONE, Verrine, IV, 48-49, 106-107, in Le orazioni, vol. I, a cura di G. Bellardi, 2002, UTET, Torino, pp.  1096-1097 e 1098-1099)].

Dal lavoro che abbiamo svolto finora emerge sicuramente un dato, benché il modo in cui possiamo rilevarlo, al momento, sia superficiale e, di conseguenza, non del tutto preciso: i significati di veglia e vigilia, tutto sommato, sembrano appartenere alla stessa dimensione semantica; anzi, possiamo pure dire che, in parte, la sovrapposizione semantica è tale da indurci a parlare di sinonimia. In parte, questa conclusione non è affatto sbagliata, ma, con un esame più approfondito, è possibile cogliere delle differenze d’uso che non si possono di certo trascurare. Prima di procedere oltre, però, è quanto mai utile dedicarsi alla radice indoeuropea da cui si sono formati i termini in questione, una radice la cui resa potrebbe, in qualche modo, deludere il lettore, almeno di primo acchito. La radice *weg-, infatti, ha il significato di fresco, forte, non quello di stare svegli o qualcosa di simile. Il legame che, in via preliminare, possiamo ipotizzare è dato, molto probabilmente, dal vigore necessario ad affrontare ciò che una notte di preghiera, di guardia o di insonnia comporta. Non a caso, vigore è un sostantivo che si origina da questa stessa radice e di cui, più avanti, forniremo le opportune testimonianze letterarie. Qui, invece, nel fare l’analisi dovuta e promessa, diciamo che il più importante tra gli esiti latini è, inequivocabilmente, il verbo vĭgēre, dal quale, in vario modo, sono nate successivamente tutte le voci da noi trattate. Con la traduzione di vĭgēre, di fatto, possiamo cominciare a superare l’iniziale diffidenza verso la semantica della radice: avere vigore, eccellere, vivere ci riportano alla condizione psicofisica che un postulante o un insonne deve possedere per resistere alla propria ‘prova’. Cicerone, nelle Tusculanae, parlando dell’animosità che è necessaria per portare a compimento grandi progetti, narra che Demostene era solito trascorrere le notti vegliando.

Noctu ambulabat in publico Themistocles, quod somnum capere non posset […] Cui non sunt auditae Demosthenis vigiliae? Qui dolere se aiebat, si quando opificum antelucana victus esset industria [Temistocle girava di notte per le strade della città perché non riusciva a prendere sonno […] E delle veglie di Demostene chi non ha sentito parlare? Gli sarebbe dispiaciuto, diceva, se gli artigiani qualche volta fossero stati più mattinieri di lui (CICERONE, Le Tusculane, IV, XIX, 44, a cura di A. Di Virginio, 1962, Mondadori, Milano, pp. 326-327)].

Tra i significati di vĭgēre, infatti, troviamo anche quello di eccellere, trovarsi all’apice del successo, non altrimenti che se il superamento della ‘prova’ fosse ampiamente ricompensato o, comunque, riconosciuto. Sallustio riferisce del discorso motivazionale di Catilina rivolto ai congiurati, esortati ad agire in nome di un’impresa nobile e valorosa: il colpo di stato.

Victoria in manu nobis est: viget aetas, animus valet [Abbiamo in mano la vittoria: è vigorosa la (nostra) età, l’animo è forte (SALLUSTIO, Bellum Catilinae, 21, trad. nostra, in La congiura di Catilina La guerra giugurtina Orazioni e Lettere, a cura di G. Lipparini, 1957, Zanichelli, Bologna, pp. 22 e 24)].

Nell’ottica etimologica e filologica, che ci è propria, bisogna considerare che il sostantivo latino vĭgĭlĭa, che si rende con vigilanza, guardia, attenzione e, per l’appunto, veglia sacra, deriva dall’aggettivo vĭgĭl, sveglio, pronto, il quale, a propria volta, deriva dal suesposto vĭgēre. Ernout e Meillet scrivono [2001] che un singolare neutro vigilium attestato in Varrone lascia presupporre un vecchio collettivo plurale vigilia. Presso i Romani, la notte durava dal tramonto del sole allo spuntare delle prime luci. Le dodici ore da loro stimate si dividevano in quattro parti, ciascuna di tre ore, dette prima, secunda, tertia e quarta vigilia, secondo il ritmo di avvicendamento delle sentinelle.

Itaque ab iis qui principes in ea civitate erant praecipitur et negotium datur quaestoribus et aedilibus, ut noctu vigilias agerent ad aedis sacras [Di conseguenza le supreme autorità cittadine danno con un preciso ordine l’incarico ai questori e agli edili di disporre dei servizi di vigilanza notturna nei pressi dei templi (CICERONE, Verrine, IV, 43, 93, in Le orazioni, vol. I, a cura di G. Bellardi, 2002, UTET, Torino, pp. 1084-1085)].

Quando si arriva al latino tardo, per la cui analisi ci serviamo di Du Cange [1887], vigilia e veglia hanno ormai acquisito e consolidato la propria significazione prevalente, vale a dire quella di ‘ufficio religioso notturno’. Il sostantivo italiano vigilia è l’esito dotto del latino vĭgĭlĭa, laddove veglia n’è l’esito popolare; la qual cosa ci aiuta a comprendere la sovrapposizione e la parziale sinonimia cui abbiamo fatto cenno in precedenza.

Vigilias, quae singulis hebdomadibus a vespera illucescente sabbato celebrantur, idcirco seniores hyemali tempore, quo noctes sunt longiores, usque ad quartum gallorum cantum per monasteria moderantur, ut post excubias totius noctis, reliquis duabus ferme horis reficientes corpora sua nequaquam per totum diei spatium somni torpore marcescant [Quindi, le veglie, che si celebrano ogni settimana dalla sera del sabato (che inizia), nella stagione invernale, in cui le notti sono più lunghe, i più anziani le limitano ai monasteri fino al quarto canto del gallo, in modo che, dopo aver passato la notte vegliando, ristorando i loro corpi nelle restanti due ore, in nessun modo s’infiacchiscano nel torpore del sonno per tutta la durata del giorno (CASSIANO, De institutis coenobiorum, III, VIII, in Patrologiae cursus completus Series prima, tomus XLIX, a cura di J. P. Migne, 1846, Migne, Parigi, coll. 140-141)].

Come abbiamo osservato in precedenza, veglia ha almeno tre significati fondamentali che appartengono pure a vigilia. Pertanto, può essere molto proficuo agli effetti della ridefinizione del nostro insieme semantico procedere per moduli di comparazione: le occorrenze seguenti, pertanto, riguardano proprio il significato comune a entrambi i termini.

  1. Condizione di chi rinuncia al sonno per un qualsivoglia motivo.

Nel caso del frammento di Gregorio Magno, la forma vegghia ci rimanda al popolare toscano, con cui, di fatto, il termine è entrato nell’uso romanzo. Nel caso del Purgatorio, invece, Dante è in compagnia di Virgilio e di Matelda. I versi sono l’incipit dell’invocazione alle Muse mediante cui il poeta chiede di essere assistito nel cantare la mirabile visione della processione allegorica che gli si manifesta e che simboleggia la storia della Chiesa.

Ora noi dobbiamo sapere, che conciossiachè l’uomo sia composto d’anima e di corpo, il sonno dell’uno è vegghia dell’altro; imperocché quando il corpo dorme nella morte, allora l’anima vegghia, e sta desta nel vero conoscimento [I Morali del pontefice S. Gregorio Magno sopra il libro di Giobbe volgarizzati da Zanobi da Strata protonotario apostolico, tomo III, 1725, G. Mainardi, Roma, p. 26].

O sacrosante Vergini, se fami, / freddi o vigilie mai per voi soffersi, / cagion mi sprona ch’io mercé vi chiami [DANTE ALIGHIERI, Purgatorio, XXIX, 37-39, a cura di N. Sapegno, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 723].

  1. Sorveglianza notturna.

Sebbene i frammenti che seguono siano molto chiari, precisiamo che con sorveglianza notturna non si deve intendere sempre un’azione di carattere militare.

(…) E stando Benedetto in orazione […] su la prima vigilia della notte, guardando, vide una luce mandata di sopra con tanto splendore che l’oscurità della notte parve che tornasse in maggior luce (…) [CAVALCA, D., Volgarizzamento del Dialogo di San Gregorio e dell’Epistola di S. Girolamo ad Eustochio, II, 39, 1764, M. Pagliarini, Roma, p. 128].

La notte ci accomodammo attorno alle cariche con i cavalli da una parte e noi dall’altra e ripartimmo la veglia [SEBASTIANI, G. M., 1672, Seconda speditione all’Indie Orientali, I, IX, F. Mancini, Roma, p. 21].

  1. Preghiera notturna a carattere liturgico.

Fare quanto la nossa possibilità possa sostenere, maximamente observando li digiuni comandati da la sancta ecclesia e li dì de le vigilie de la nostra donna: cioè la natività di septembre e la purificazione di ferraio [I capitoli della compagnia del Crocione composti nel secolo XIV, VI, a cura di G. Coen, 1895, Mariotti, Pisa, p. VII].

Et questa vegghia far debbi con temperanza, con devotione, cantando inni, lodi, cantici, meditando la passione di Christo, la vita della beata Vergine, il martirio de’ santi, ò vero leggendo cose spirituali [MASSIMO, C., 1590, Trattato dell’antichissima divotione nel sacro monte di Crea posto nel Ducato di Monferrato, III, 19, G. Bartoli, Pavia, p. 197].

 

A questo punto, è necessario onorare un debito di ricerca. In precedenza, infatti, nel confrontare vigilia e veglia, abbiamo fatto notare che la sinonimia è parziale e abbiamo parlato di differenze d’uso. Aggiungiamo, pertanto, che veglia può assumere i significati di festa che si protrae fino a tarda notte e, addirittura, di forma di tortura in uso dal XVI al XVIII secolo [GDLI]. Vigilia può anche essere inteso come strumento di tortura, ma non sarebbe uno strumento qualunque: si tratterebbe di uno sgabello dal sedile appuntito [GDLI]. Nello stesso tempo, una vigilia può essere una veglia funebre, caratterizzata dal salmodiare a scopo di celebrazione del defunto.

L’ultimo termine che prendiamo in esame a completamento dell’insieme semantico tratto dalla radice *weg- è vigore. Anche in questo caso, abbiamo una specie di debito nei confronti del lettore, avendone anticipato la derivazione. Il corrispondente latino è vĭgŏr, che vuol dire, com’è ormai noto, vigore, energia e, nel caso di una gemma, addirittura, splendore. Qui, naturalmente, non ribadiamo l’importanza etimologica del verbo vĭgēre, ma intendiamo richiamare l’attenzione del lettore, ancora una volta, sul legame ipotizzato fin dall’inizio: l’energia è essenziale alle veglie e alle prove che esse comportano, quale che ne sia la natura; di conseguenza, il discorso di Cicerone sulla tempra di Temistocle e Demostene può costituire un frammento dall’elevato e insostituibile valore allegorico.

Omne aevum ferro teritur, versaque iuvencum / terga fatigamus hasta, nec tarda senectus / debilitat viris animi mutatque vigorem [Tutta la vita è consumata dal ferro, / girata la lancia pungoliamo i dorsi dei giovenchi, la tarda vecchiaia non / indebolisce le forze dell’animo e non muta il vigore (VIRGILIO, Eneide, IX, 609-611, trad. nostra, vol. II, a cura di F. Della Corte, C. Vivaldi, M. Rubino, 2012, Garzanti, Milano, p. 480)].

Nel quale [monastero] (…) era un monaco giovane, il vigore del quale né la freschezza né i digiuni né le vigilie potevano macerare [BOCCACCIO, F., Decameron, 1, IV, Filocolo Ameto Fiammetta, a cura di E. Bianchi, C. Salinari, N. Sapegno, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 47].

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