Il medico misura, dà consigli, guarisce

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col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

In caso di lussazione di un arto, occorreva soffiare su delle canne spezzate, che simboleggiavano la parte malata del paziente, e, nello stesso tempo, recitare l’incomprensibile formula di guarigione “haut haut istasis tarsis ardannabon”: questo rimedio veniva suggerito, più di duemila anni fa, da Catone il Censore (234-149 a.C.) nel De agri cultura (160), nel rispetto di un rituale di magia ‘simpatica’. Sulle prime, una pratica del genere potrebbe farci inorridire o, diversamente, sorridere, a seconda della disposizione d’animo con cui la accogliamo. Potrebbe anche esistere una terza via, ovverosia quella dell’interpretazione socio-antropologica, in funzione della quale l’interprete riconoscesse che, all’epoca, il medico, che di certo non era destinatario di stima piena e indiscussa, era subordinato alla volontà degli dei, i quali avevano il potere di punire gli uomini inviando loro implacabili e devastanti epidemie. Tra le altre cose, lo stesso Catone raccomandava che il pater familias conoscesse almeno le nozioni di medicina di base per far fronte ai problemi di salute della propria comunità.

A Roma, non esistevano scuole di medicina e bastava dichiararsi medici per poter praticare ufficialmente la professione. Non furono pochi, infatti, coloro che, pur essendo tessitori o calzolai, decisero di ‘fare medicina’ per godere dei lauti guadagni della professione, causando, naturalmente, non poche morti tra i pazienti che sostenevano di curare. Alcuni, indubbiamente, erano davvero preparati, grazie allo studio delle opere di Ippocrate, Dioscoride, Celso e alla personale esperienza acquisita sul campo, ma s’intuisce che l’indefinito “alcuni” non è sufficiente a riscattare gli esseri umani dalla dabbenaggine. Qualcuno potrebbe obiettare che siamo stati ingenerosi nell’usare il sostantivo “dabbenaggine” con riferimento al III secolo a.C.

Non si pensi, tuttavia, che la credulità sia un’attitudine bell’e superata! Anzi, forse, mantenendo le debite proporzioni possiamo affermare che è cresciuta. Nel nostro paese, si spendono, ogni anno, 3 miliardi di euro in integratori e pilloline la cui utilità è pari a zero o – per dirla diversamente – sulla cui utilità non si ha alcuna certificazione medico-scientifica. Nello stesso tempo, la spesa in cibo senza glutine è attestata in 106 milioni di euro ed è fatta da 6 milioni di persone, sebbene solo l’1% della popolazione sia realmente affetto dall’intolleranza. Ancora: milioni di italiani ricorrono a stick, aghi e riti magici per poter dimostrare, anzitutto a sé stessi, di essere intolleranti a qualcosa e poter giustificare il proprio ‘gonfiore’, che, in parole povere, si chiama ‘grasso’ e dovrebbe essere ‘curato’ con un’alimentazione sana e un po’ di sport. Secondo la Società Italiana di Allergologia, Asma e Immumologia Clinica, il 90% di questi test è inutile perché produce falsi positivi e falsi negativi. In Italia, ci siamo pure imbattuti nella cosiddetta “cura Bonifacio”, un composto di urine e feci di capra che, a detta del proprio ideatore, il veterinario Liborio Bonifacio, avrebbe dovuto combattere il cancro. Le capre – sosteneva Bonifacio – non vengono colpite dal tumore. Di conseguenza, il principio adottato era quello della deduzione elementare e della verosimiglianza: siccome un certo rimedio non fa male o è usato da tanto tempo, allora vuol dire che fa bene o è addirittura miracoloso. Il guaio è che il cosiddetto placebo, naturalmente, non sortisce alcun effetto terapeutico, pertanto non basta che non sia dannoso.

Alla luce di questi fatti, che non esitiamo a definire sconcertanti, è ancora più fastidioso scoprire che la fantamedicina provoca pure un danno erariale, dal momento che ogni anno, con la deduzione fiscale, vengono sottratti alle casse dello Stato parecchi milioni di euro che sono riservati a ‘preparati alchemici’ o di dubbia scientificità. A tal proposito, è doveroso aggiungere che sull’omeopatia si sono già espressi parecchi autorevoli studiosi e numerose inattaccabili pubblicazioni ne hanno documentato la fallacia. Nel 2002, la British Pharmacological Society ha pubblicato una metanalisi di 70 revisioni; nel 2005, Lancet ha attestato, con centinaia di studi comparati, che non c’è alcuna differenza tra omeopatia e placebo; nel 2009, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato che l’omeopatia non può curare né prevenire HIV, malaria, diarrea infantile, tubercolosi, influenza et similia; nel 2014, l’Ente Australiano per la Salute ha ribadito, sempre sulla base di analisi comparate, che essa non ha alcun effetto, fuorché quello placebo, e, ovviamente, si potrebbe andare oltre. L’uomo si aspetta che la medicina sia infallibile e, per ciò stesso, trasferisce sul medico la speranza di guarigione certa, cosicché, ogni qual volta in cui la scienza non è in grado di dare delle risposte, egli si rifugia in soluzioni oracolari e sciamanico-tribali. È recentissimo il caso di Grigory Petrovich Grabovoy, un cinquantenne kazako che, pur avendo dichiarato di poter resuscitare i morti, curare il cancro e l’AIDS e risolvere addirittura problemi tecnici su aerei e stazioni spaziali mediante il teletrasporto, è diventato un mito sul web, osannato e invocato dappertutto. Incredibile anche solo a pensarsi!

A ben vedere, il parallelismo serrato tra l’età antica e quella contemporanea potrebbe risultare sfavorevole e pregiudizievole più per la prima che per la seconda, specie se consideriamo che le più significative tra le scoperte che hanno permesso di allungare la vita media appartengono al ventesimo secolo. Fino agli inizi del Novecento, infatti, la vita media non superava i cinquant’anni. Oggi, in teoria, i presupposti essenziali della ‘cura’ dovrebbero essere, per così dire, risaputi.

I primi medici di cui si abbiano testimonianze sono rintracciabili nell’antica Mesopotamia, da cui provengono dei sigilli con nomi di ‘professionisti’ risalenti al 3000 a. C. circa. Inoltre, il Codice di Hammurabi (XVIII sec. a.C.) contiene delle precise disposizioni sul pagamento o sulla punizione spettante al medico, rispettivamente in caso di successo o insuccesso della cura somministrata. In Egitto, poi, si praticò un’evoluta arte medica: su molte mummie sono stati svolti esami relativi alle patologie e alle tecniche chirurgiche dell’epoca. Altre testimonianze in merito provengono anche dai papiri: il più importante di essi è sicuramente il Papiro Ebers, del 1500 a. C., che è il più antico testo medico a noi giunto e che riporta circa novecento rimedi ‘clinici’ per varie malattie, anche se le formule magico-religiose non mancano affatto. Gli stessi Greci erano consapevoli dell’origine egizia della medicina, com’è possibile cogliere dal riferimento dell’Odissea [IV, 219-232] in cui si narra che Elena conosceva sapienti tecniche di cura per averle apprese da Polidamna “la sposa di Tone, l’egizia”. Infatti, più oltre, si legge: “La terra dono di biade produce moltissimi farmaci, molti buoni e … molti mortali e ognuno vi è medico…”.

ἔνθ’ αὖτ’ ἄλλ’ ἐνόησ’ Ἑλένη Διὸς ἐκγεγαυῖα· / αὐτίκ’ ἄρ’ εἰς οἶνον βάλε φάρμακον, ἔνθεν ἔπινον, / νηπενθές τ’ ἄχολόν τε, κακῶν ἐπίληθον ἁπάντων. / ὃς τὸ καταβρόξειεν, ἐπὴν κρητῆρι μιγείη, / οὔ κεν ἐφημέριός γε βάλοι κατὰ δάκρυ παρειῶν, / οὐδ’ εἴ οἱ κατατεθναίη μήτηρ τε πατήρ τε, / οὐδ’ εἴ οἱ προπάροιθεν ἀδελφεὸν ἢ φίλον υἱὸν / χαλκῷ δηϊόῳεν, ὁ δ’ ὀφθαλμοῖσιν ὁρῷτο. / τοῖα Διὸς θυγάτηρ ἔχε φάρμακα μητιόεντα, / ἐσθλά, τά οἱ Πολύδαμνα πόρεν, Θῶνος παράκοιτις, / Αἰγυπτίη, τῇ πλεῖστα φέρει ζείδωρος ἄρουρα / φάρμακα, πολλὰ μὲν ἐσθλὰ μεμιγμένα, πολλὰ δὲ λυγρά, / ἰητρὸς δὲ ἕκαστος ἐπιστάμενος περὶ πάντων / ἀνθρώπων· ἦ γὰρ Παιήονός εἰσι γενέθλης: Enth’ àut’ àll’ enòes’ Helène Diòs enghegaýia; / autìk’ ar’ eis òinon bàle phàrmakon, ènthen èpinon, / nepenthès t’ àcholon te, kakòn epìlethon hapànton. / Hos to katabròxeien, epèn kretèri mighèie, / ou ken ephemèriòs ghe bàloi katà dàkry pareiòn, / oud’ ei hoi katatethnàie mèter te patèr te, / oud’ei hoi propàroithen adelpheòn e phìlon hyiòn / chalkò deiòoen, ho d’ ophthalmoìsin horòto. / Tòia Diòs thygàter èche phàrmaka metiòenta, / esthlà, ta hoi Polýdamna pòren, Thònos paràkoitis, / Aigyptìe, te plèista phèrei zèidoros àroura / phàrmaka, pollà men esthlà memigmèna, pollà de lygrà, / ietròs de hèkastos epistàmenos perì pànton / anthròpon; e gar Paièonòs eisi ghenèthles [Ma ad altro pensò Elena figlia di Zeus. D’un tratto gettò / nel cratere, da cui essi bevevano, un farmaco, / che estingue il dolore e la rabbia, e dà l’oblio di ogni male. / Chi lo inghiottiva, mescolato col vino dentro il cratere, / lacrime giù per le guance non avrebbe versato quel giorno, /nemmeno se gli fossero morti la madre e il padre, / né se il fratello o il figlio davanti a lui avessero / ammazzato col bronzo e lui coi suoi occhi lo vedesse. / Tali farmaci sofisticati aveva la figlia di Zeus: / glieli aveva donati Polidamna, la moglie di Thone / l’Egizia. Lì la fertile terra fa crescere moltissimi / farmaci: molti benèfici, molti funesti, mischiati; / lì ciascuno è un medico competente, più di tutti / gli altri uomini: la loro stirpe è quella di Peone (OMERO, Odissea, IV, 219-232, a cura di V. Di Benedetto, 2010, BUR, Milano, pp. 290-293)].

Erodoto, nelle Storie [II, 84], scrive che, in Egitto, “ognuno è medico di una sola malattia e non di più (…)”

Ἡ δὲ ἰητρικὴ κατὰ τάδε σφι δέδασται· μιῆς νούσου ἕκαστος ἰητρός ἐστι καὶ οὐ πλεόνων. Πάντα δ’ ἰητρῶν ἐστι πλέα· οἱ μὲν γὰρ ὀφθαλμῶν ἰητροὶ κατεστᾶσι, οἱ δὲ κεφαλῆς, οἱ δὲ ὀδόντων, οἱ δὲ τῶν κατὰ νηδύν, οἱ δὲ τῶν ἀφανέων νούσων: He de ietrikè katà tàde sphi dèdastai; miès noùsou hèkastos ietròs esti kai ou pleònon. Pànta d’ietròn esti plèa; hoi men gar ophthalmòn ietròi katestàsi, hoi de kephalès, hoi de odònton, hoi de ton katà nedýn, hoi de ton aphanèon noùson [In Egitto hanno diviso la medicina come segue: ciascun medico è medico di una sola malattia, non di più. Dappertutto, dunque, è pieno di medici: ci sono medici degli occhi, della testa, dei denti, delle malattie del ventre, delle malattie di identificazione incerta (ERODOTO, Le Storie, II, 84, a cura di A. B. Lloyd, trad. di A. Fraschetti, 1996, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, pp. 90-91)].

Andorlini e Marcone, autori del saggio Medicina, medico e società nel mondo antico [2004], ritengono che, nei poemi omerici e, di conseguenza, nella Grecia arcaica, la malattia fosse concepita secondo due prospettive diverse: provvedimento voluto dagli dei, come, per esempio, nel caso della peste che colpisce il campo greco nell’Iliade, epidemia dovuta alla reazione di Crise dopo lo scontro con Agamennone per la restituzione della figlia Criseide [Iliade, I, 91-100], e fatto del tutto naturale, qual è la ferita di guerra. È chiaro che, nel primo caso, si ricorreva a uomini esperti in rituali magici e nella conoscenza di piante prodigiose. Per quanto riguarda le formule rituali, Pindaro, nella terza Pitica, enumera ancora, tra le possibili cure di una malattia, oltre che i medicamenti e gli interventi chirurgici, anche gl’incantesimi, ovvero formule magiche recitate col canto. Nel Carmide di Platone, il giovane si affida a una formula cantata per liberarsi dal mal di testa (Carmide, 155e-156a).

(…) ὅμως δὲ αὐτοῦ ἐρωτήσαντος εἰ ἐπισταίμην τὸ τῆς κεφαλῆς φάρμακον, μόγις πως ἀπεκρινάμην ὅτι ἐπισταίμην. Τί οὖν, ἦ δ’ ὅς, ἐστίν; kαὶ ἐγὼ εἶπον ὅτι αὐτὸ μὲν εἴη φύλλον τι, ἐπῳδὴ δέ τις ἐπὶ τῷ φαρμάκῳ εἴη, ἣν εἰ μέν τις ἐπᾴδοι ἅμα καὶ χρῷτο αὐτῷ, παντάπασιν ὑγιᾶ ποιοῖ τὸ φάρμακον· ἄνευ δὲ τῆς ἐπῳδῆς οὐδὲν ὄφελος εἴη τοῦ φύλλου: Hòmos de autoù erotèsantos ei epistàimen to tes kephalès phàrmakon, mòghis pos apekrinàmen hòti epistàimen. Ti oun, e d’hos, estìn? Kai egò èipon hòti autò men èie fýllon ti, epodè de tis epì to pharmàko èie, hen ei men tis epàdoi hàma kai chròto autò, pantàpasin hyghià poiòi to phàrmakon; àneu de tes epodès oudèn hòphelos èie tou phýllou [Tuttavia, quando (scil. Carmide) mi chiese se conoscessi il rimedio per la testa, risposi a fatica che lo conoscevo. “Qual è allora?” chiese. E io risposi che era una certa pianta, ma che, oltre al farmaco, c’era una formula magica; e se veniva cantata mentre si faceva uso del farmaco, il farmaco faceva guarire completamente; senza la formula magica la pianta non era di nessuna utilità (PLATONE, Carmide, 155e-156a, Tutte le opere, vol. III, a cura di E. V. Maltese, 1997, Newton, Roma, pp. 60-61)].

Non si può trascurare che, in Grecia, ‘operava’ un dio guaritore, Asclepio, pur non essendo l’unico. Il suo culto, partito dalla Tessaglia, si diffuse in tutta la regione e molti erano i santuari a lui dedicati, tra i quali va menzionato sicuramente quello di Epidauro, risalente alla seconda metà del VI sec. a.C. e dove si praticava il sogno incubatorio dalle proprietà terapeutiche. Durante la peste di Atene (430 a.C.), Asclepio fu solennemente invocato e il suo simbolo, un serpente sacro proveniente dal santuario di Epidauro, fu ospitato in casa del tragediografo Sofocle finché non fu costruito un tempio apposito per proteggerlo.

L’arte medica come scienza si affermò nel V sec. a. C., con Ippocrate di Coo. Prima di lui, l’unico medico di cui si abbia notizia è un certo Alcmeone di Crotone, vissuto nel 500 a.C. circa. Ippocrate è colui che meglio incarna il passaggio da medicina-magia a medicina-scienza, a nome del quale ci è pervenuto un Corpus di trattati medici, raccolti per volere dei Lagidi, nel III sec. a. C., e destinati alla Biblioteca di Alessandria. Di una lista di opere sicuramente attribuibili a Ippocrate ci dà conto Erotiano, un medico di età neroniana, che salva come autentici quaranta trattati sui quasi settanta contenuti nel Corpus. Peraltro, a fine Ottocento, il lessicografo e filologo Emil Littré, il più autorevole degli studiosi di Ippocrate, contò come autentiche cinquantatré opere [1839].

In Grecia, nel II sec. d.C., operò Galeno, forse il più famoso tra tutti i medici del passato per via della singolare carriera e dell’imponente produzione letteraria: il padre, architetto, aveva fatto un sogno dal quale aveva desunto che avrebbe dovuto far studiare medicina al figlio. Fu, inoltre, a Pergamo, medico dei gladiatori in servizio presso il sacerdote dei templi pergameni. Arrivò a Roma nel 162, dove conobbe il console Boeto, destinatario di molte sue opere, salvo poi doversene allontanare nel 166, forse a causa delle antipatie sorte in ambiente medico nei suoi confronti perché egli denunciava costantemente l’ignoranza e il comportamento scorretto di molti colleghi. Tornò in Italia, richiamato da Marco Aurelio, operando come medico di corte fino alla morte, nel 199. Gli scritti di Galeno rimasero la base fondamentale per la successiva medicina di Medioevo, Umanesimo e Rinascimento, quando furono comunque messi in circolo anche molti trattati pseudo-galenici. Con Galeno si chiuse la grande stagione della medicina antica.

In ogni circostanza narrativa o, con una diversa sfumatura di significato, in tutte le entusiastiche testimonianze prodotte dall’antichità fino ad almeno il XIX secolo, il medico, in pratica, è stato configurato e presentato ai lettori come una figura ambigua. Per quanto questa revisione socioantropologica possa apparire curiosa e, a tratti, incredibile, ci siamo resi conto, fin dall’avvio della nostra indagine, che, pure nell’epoca del primato epistemologico e della trasparenza informativa, l’ingenuità della gente è spesso incommensurabile. Ciò che, invece, può essere considerato come un superiore livello di indecifrabilità sociolinguistica è legato al fatto che la semantica di medico e, soprattutto, la sua morfologia radicale, oltre a essere sempre state nette nella storia della lingua, sono state e sono segnatamente, limpidamente e inequivocabilmente inscritte nell’area della meditazione, della misurazione e del pensiero. La radice indoeuropea *med-, da cui si genera medico, secondo Pokorny [2007], significa misurare, dare consigli, guarire. In questa tripartizione essenziale, si colgono facilmente la dimensione dello studio e della valutazione, quella della relazione con chi ha bisogno di qualcosa e, da ultimo, quella dell’applicazione professionale. Nocentini e Parenti [2010] aggiungono pure il significato di pensare. Sembra dunque inspiegabile come una matrice lessicale così ‘solida’ abbia subito una trasposizione psicolinguistica di così lunga durata e, indubbiamente, quasi violenta, una sorta di continuo e inarrestabile snaturamento. Tra le altre cose, consultando un comune vocabolario della lingua latina, si rileva immediatamente che il sostantivo mĕdĭcus è una voce semplicissima e che si rende esattamente con medico, mentre l’aggettivo della prima classe mĕdĭcus, a, um si traduce con curativo, medicinale, che possiede proprietà medicinali et similia.

(…) In morbis corporis, ut quisque est difficillimus, ita medicus nobilissimus atque optimus quaeritur (…) [(…) Nelle malattie, più difficile è il caso, più celebre e bravo è il medico di cui si va in cerca (CICERONE, Pro Cluentio, 21, 57, in Le orazioni, vol. II, a cura di G. Bellardi, 1981, UTET, Torino, pp. 384-385)].

Uno spunto decisivo per comprendere il controverso rapporto tra l’etimo e l’inarrestabile corruzione lessicale può giungerci dal lavoro di Ernout e Meillet [2001], i quali fanno notare opportunamente che mĕdĭcus deriva da mĕdēri, vale a dire portare un rimedio. È probabile allora che questo portare un rimedio si sia diffuso e sia stato inteso, nel tempo, specie nel periodo in cui gli uomini erano sopraffatti dalle divinità occulte e vendicative, sia come capacità d’interpretazione del fenomeno soprannaturale sia come qualità di chi, mostrandosi alacre, si distingue nell’ambito della propria comunità e, per ciò stesso, acquisisce anche il titolo di ‘guaritore’. Ugo di Perso, nel XIII secolo, elenca, tra le tante cose fastidiose e spiacevoli, anche l’eventualità che si abbia a che fare con un medico disonesto, cioè con un fanfarone (“reu medego e fellon”):

La maior noia [qe] me demena, / qe no’m lassa pan ni[g]un gustar: / om qe’m dé servir e dàme pena; / e se’m strence ‘l dedho lo calcar; / drapi longhi qe la polver mena; / reu medego e fel[on] compar [UGO di PERSO, Seconda risposta per le rime (a Gerardo Patecchio), 61-66, in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, tomo I, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 594].

Di fatto, la radice in questione, anche in greco, ha dato degli esiti che confermano il dominio dell’attività dell’ingegno e, di conseguenza, una sorta di epistemologia dell’esercizio professionale: μέδομαι (mèdomai), mi do pensiero, medito, μέδιμνος (mèdimnos), medimno, misura per il grano, μήδομαι (mèdomai, con vocalismo lungo), considero, delibero, ideo, medito et cetera. Quindi, l’unico possibile riesame sociolinguistico, a nostro avviso, resta quello che abbiamo fatto partendo dal contributo di Ernout e Meillet.

αὐτάρ οἱ Προῖτος κακὰ μήσατο θυμῷ, / ὅς ῥ’ ἐκ δήμου ἔλασσεν, ἐπεὶ πολὺ φέρτερος ἦεν, / Ἀργείων· Ζεὺς γάρ οἱ ὑπὸ σκήπτρῳ ἐδάμασσε: autàr hoi Pròitos kakà mèsato thymò, / hos hr’ek dèmou èlassen, epèi polỳ phèrteros èen, / Arghèion; Zèus gar hoi hypò skèptro edàmasse [Ma tramava contro di lui Preto e lo cacciò, essendo molto / più forte di lui, dalla terra di Argo, / che Zeus aveva posta sotto il suo scettro (OMERO, Iliade, VI, 17-159, a cura di G. Paduano, 2007, Mondadori, Milano, pp. 182-183)].

L’aoristo di μήδομαι (mèdomai), utilizzato nell’Iliade col significato di tramare, ci riporta, ancora una volta, alla meditazione e, nel caso in specie, alla macchinazione, cioè a un intenso ‘impegno mentale’ che sembrerebbe escludere, almeno da principio, l’influsso magico-oracolare nel segno della misura degli stati di cose.

Tra le altre cose, è bene ricordare che il verbo mĕdēri, summenzionato, è l’elemento lessicale da cui s’è formato lo stesso sostantivo rimedio, la cui occorrenza latina è rĕmĕdĭum, in cui il morfema prefissale, come scrive Valpy [1828], indica l’atto del riportare allo stato di salute, oltre a rappresentare il medicamento per eccellenza. Pertanto, si fa sempre più strada l’ipotesi che il margine di slittamento o ‘aggiustamento semantico’, per così dire, appartenga proprio a questo dominio, sebbene l’atto originario resti sempre quello del pensare, meditare. In un frammento di Pier de’ Crescenzi, studioso di medicina e scienze naturali che ha operato tra il XIII e il XIV secolo (1233-1320), possiamo apprezzare sicuramente il concreto tentativo di conciliare l’istinto e la perspicacia, da una parte, e il rigore metodologico, dall’altra.

Contra il lividore per percossa o in altro modo avvenuto, quando sia fresco, si prenda la polvere del comino sottile e ben confetta con cera nuova al fuoco e vi si ponga spesso: ed è rimedio certissimo [De’ CRESCENZI, P., datazione incerta, Trattato di agricoltura, XXIV, Del comino, in Trattato di Pier de’ Crescenzi ridotto a migliore lezione da Bartolomeo Sorio, vol. II, 1854, Vicentini e Franchini, Verona, p. 262].

Se passiamo ad analizzare il verbo meditare, la cui formazione, a questo punto, è intuibile, non ci discostiamo affatto da quanto abbiamo documentato finora, poiché il latino mĕdĭtāri, meditare, studiare, pensare, progettare, ma anche applicarsi e fare pratica, non è altro che un iterativo di mĕdēri. Ciò dimostra che, almeno dal punto di vista terminologico, la radice *med- si è evoluta in modo chiaro e lineare, senza significative metamorfosi di significato. Anche le occorrenze, che si possono rintracciare in modo agevole, rappresentano una riprova inoppugnabile. In quanto alla lingua latina, noi ci limitiamo a riportare solo un frammento delle Tusculanae di Cicerone, ma il lettore che volesse approfondire non farebbe fatica a reperirle, servendosi anche di un comune vocabolario, in cui le fonti letterarie essenziali sono sempre ben indicate.

Itaque apud Euripiden a Theseo dicta laudantur; licet enim, ut saepe facimus, in Latinum convertere: “Nam qui haec audita a docto meminissem viro, / futuras mecum commentabar miserias: aut mortem acerbam aut axili maestam fugam / aut semper aliquam molem meditabar mali (…)” [E per questo motivo che si portano ad esempio le parole del Teseo di Euripide – parole che mi si permetterà di tradurre in latino, com’è mia abitudine: “Ricordando gli insegnamenti di un saggio, nel segreto del cuore io meditavo sui mali a venire: alla morte immatura, al triste andar dell’esilio, ad altre gravi sventure sempre m’andava il pensiero (…)” (CICERONE, Tusculanae, III, 14, 29, a cura di Adolfo Di Virginio, 1962, Mondadori, Milano, pp. 228-229)].

A completamento della famiglia semantica, che abbiamo scelto di curare aggiungiamo l’analisi del sostantivo modo. Lo facciamo non perché presenti un singolare processo di significazione, ma perché, oggi, siamo soliti usarlo esclusivamente come sinonimo di maniera. In realtà, nel rispetto della glossa originaria e della sua ormai nota derivazione, la più corretta delle esplicazioni lessicali, che i lessicografi, naturalmente, non mancano di proporre, appartiene al concetto di misura. Il modo è, anzitutto, misura, regola, grandezza et similia. Anche in questo caso, in teoria, non si correrebbe alcun rischio d’errore perché il latino mŏdus si rende, per l’appunto, con misura, quantità, limite, confine e, addirittura, ritmo e melodia. In altri termini, mŏdus è, ancora una volta, l’esito dell’attività dell’intelletto. Con riferimento alla medicina, per esempio, si potrebbe intendere come quello studio o quella valutazione delle misure che precede l’intervento di guarigione, il riportare allo stato di salute.

In un frammento del De re rustica di Varrone, possiamo trovare, in qualche modo, un senso di compimento del nostro lavoro, giacché l’accezione proposta è tecnica e ci permette, di conseguenza, di circoscrivere la pragmatica del linguaggio di quella letteratura classica con cui si raccontavano certi ‘modi’ di vivere.

Modos, quibus metirentur rura, alius alios constituit. Nam in Hispania ulteriore metiuntur iugis, in Campania versibus, apud nos in agro Romano ac Latino iugeris [Intorno alla misurazione dei terreni chi ha stabilito un sistema, chi un altro. Infatti, nella Spagna Ulteirore si misura a gioghi, in Campania a versi, da noi nella campagna romana e del lazio a iugeri (VARRONE, De re rustica, I, 10, 1, in Opere, a cura di A. Traglia, 1974, UTET, Torino, pp. 620-621)].

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