Pensare è anzitutto pesare

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col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Accade, in alcune circostanze lessicali, di cui è difficile rendersi conto, che la definizione di un termine richieda la definizione di parecchi altri termini correlati, non altrimenti che se il significato da noi ricercato si ottenesse dall’esplicazione di un teorema semantico. La nostra inconsapevolezza in materia di correlazioni, in genere, dipende da almeno due fattori: anzitutto, è bene ricordare che la polisemia, in certi casi, è così ampia da non consentirci di seguire una qualsivoglia catena di sensi e significati, laddove, in secondo luogo, è altrettanto utile sapere che, se dovessimo esplicitare il contenuto di tutto ciò che diciamo, il discorso si farebbe estenuante per ciascuno di noi; di conseguenza, finiamo, come si suol dire, col dare per scontate le necessarie implicazioni. Il nostro lògos, per così dire, si sviluppa e si consolida prevalentemente sul lasciare intendere. Naturalmente, non tutte le voci di un vocabolario rinviano il parlante a una sorta di struttura teorematica.

Quella su cui abbiamo scelto d’indagare, però, fa parte di un vero e proprio sistema complesso. Infatti, tutte le volte in cui tentiamo di dire, anche semplicemente, che cos’è il pensiero, veniamo risucchiati in una specie di vortice linguistico. Già la comune consultazione di un motore di ricerca si traduce nelle forme della complessità cui abbiamo fatto cenno, di qua dall’elaborazione d’una fraseologia di base, che tutti saremmo in grado di riconoscere. Alla domanda “che cos’è il pensiero?” seguono delle ‘risposte’ che potremmo reputare immediatamente valide e fruibili, ma che, di fatto, paiono sempre incomplete. Si tratta della “facoltà relativa alla formazione di contenuti mentali”? Se la risposta è sì, dobbiamo prima scoprire almeno che cos’è un contenuto mentale e di che facoltà stiamo parlando. Se, diversamente, il pensiero è un “contenuto della coscienza”, come leggiamo rispettando la sequenza dei risultati, dobbiamo almeno sapere che cos’è la coscienza. Filosofia, psicologia e neurobiologia, a questo punto, diventano le scienze minime cui dobbiamo rivolgerci per saperne di più, per quanto sia impossibile pretendere che un parlante abbia tutte queste competenze. Secondo un’altra delle numerose ‘risposte’, il “pensiero è la facoltà del conoscere e comprendere gli aspetti generali e universali delle cose”. Anche in questo caso, non possiamo fare a meno di chiederci cosa siano il conoscere e gli aspetti universali delle cose, poiché chi l’ha formulata si presume intendesse coinvolgerci nella quaestio de universalibus dei filosofi e dei teologi della Scolastica. In realtà, non siamo certi del proposito dell’autore, ma ci auguriamo che fosse questo il suo approccio, altrimenti un simile eccesso d’informazioni sarebbe inaccettabile. Sulla rete, in effetti, com’è noto, le insalate terminologiche non mancano mai; anzi, ne proponiamo subito una per poi passare a un po’ di rigore scientifico: “Il pensiero è logos, saggezza, logica, riflettere, analizzare, scoprire, creare”. In questo caso, ovviamente, non c’impegniamo affatto ad analizzare le scelte linguistiche dell’autore, che, tra le altre cose, appare nitidamente privo di metodo e qualità, tuttavia quest’accozzaglia di parole, tutto sommato, può rivelarsi utile: per il suo tramite comprendiamo meglio, infatti, la natura teorematica, sistemica e complessa di pensiero, la quale ha assunto per noi, fin dall’inizio, il valore di funzione semantica. A ben vedere, ciascuno degli elementi della quantità indiscriminata potrebbe essere adottato per sostituzione, in luogo di pensiero, senza destare sospetti nel nostro interlocutore.

Una buona sintesi, invece, sembra essere quella proposta, non a caso, dal Treccani online; ce ne serviamo, al momento, in forma preliminare, anche se, nel corso di questo lavoro, come vedremo, sarà ampiamente modificata: “(…) L’attività psichica mediante la quale l’uomo acquista coscienza di sé e della realtà che considera come esterna a sé stesso”. Consideriamo buona questa sintesi perché, per definizione, il pensiero è presentato come processo dialettico, come ciò che mette in relazione soggetto e oggetto; il che costituisce una resa assai proficua. D’altronde, nella storia della filosofia, tale questione è sempre stata dominante, fino a trasformarsi in disputa, per esempio, tra i sostenitori del primato della ragione e i sostenitori del primato della fede. In questa sede, naturalmente, non entreremo nel merito del dibattito, ma ci pare opportuno richiamare rapidamente l’attenzione sulle massime intelligo ut credam (capisco per credere) e credo ut intelligam (credo per capire) che ebbero come protagonisti, rispettivamente, Agostino d’Ippona e Anselmo d’Aosta: in entrambi i casi, il dilemma era dato proprio dal pensiero di Dio, di ciò che trascende l’esistenza materiale e, per ciò stesso, appare inconoscibile. Dunque, ogni proposta che prendiamo in esame ci conduce difilati a una qualche interpretazione speculativa del sostantivo pensiero e, di rimando, del verbo pensare. Le stesse frasi che usiamo con disinvoltura, in alcune delle quali pensiero entra a far parte addirittura di vere e proprie locuzioni, sono da ascriversi per lo più alla speculazione o, diversamente, alla nostra dimensione emotiva. “Il pensiero di Aristotele” diciamo o, per estensione retorico-figurativa, “il pensiero occidentale”, lasciando intendere il riferimento a un impianto filosofico. Pertinente e utile, a tal proposito, un frammento di Vico che ne attesta l’uso: 

Finalmente, unite più nazioni di lingue diverse in pensieri uniformi per cagione di guerre, allianze, commerzi, nacque il diritto naturale del genere umano da idee uniformi in tutte le nazioni intorno le umane necessità, o utilità di ciascheduna d’esse [VICO, G., Principi di una scienza nuova, II, VII, a cura di G. Ferrari, 1839, Stamperia de’ classici latini, Napoli, p. 31].

In psicologia, si parla addirittura di disturbi del pensiero, come se il pensiero fosse identificabile con qualcosa di organico. Sappiamo bene che non è così, ma abbiamo il dovere di provare sempre a ricostruire il rapporto tra le parole e il mondo. Nella letteratura, sono sconfinate le testimonianze circa i disagi che poeti e scrittori denunciano attraverso il pensiero. Fedeli al nostro metodo, ne riportiamo una tra le più antiche lungo l’evoluzione romanza.

Periragio, se tosto / non ò sovenimento / da quella, c’ave in guida / mio cori e miei pensieri: / sì che da lei no’ l’osto, / ma sempre lel presento (…) [ANONIMO, LXVI, 37-42, Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice Vaticano 3793, a cura di A. D’Andona e D. Comparetti, vol. I, 1875, Romagnoli, Bologna, p. 415].

Con empito amoroso, siamo soliti dire a qualcuno “il mio pensiero corre a te”, come a rivelare il bisogno d’una persona amata e lontana. Bellissimo ed elegante il contributo di Dante in merito: il senso è diverso da quello del nostro esempio, ma ci dà la misura della dinamicità del sostantivo pensiero già nel XIV secolo, soprattutto in considerazione del fatto che Dante era particolarmente attento alla questione della lingua.

A questo (scil. al guadagno) intende il papa e’ cardinali; / non vanno i lor pensieri a Nazarette, / là dove Gabriello aperse l’ali [DANTE ALIGHIERI, Paradiso, IX, 137, a cura di N. Sapegno, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 900].

La fraseologia, come si può intuire, può farsi interminabile, ma ciò non ci riporta stancamente alla produttività latina degli exempla ficta né si traduce in un breviario di soluzioni conversazionali; è, invece, l’esito di una lunga e consistente, oltre che fortunata, storia semantica dell’attività del pesare, stimare e, per certi aspetti, calcolare. Pensiero è arrivato a noi attraverso il provenzale pensier, ma deriva dal verbo latino pensāre, che significa, per l’appunto, pesare, ponderare, esaminare, giudicare, ma anche contraccambiare, pagare, scambiare. In realtà, questo verbo è il denominativo di pensum, participio passato di pendĕre (pesare, esaminare et similia), adottato per indicare la quantità di lana pesata e assegnata alla donna che doveva filarla. Anticamente, la tessitura fu un’attività prettamente domestica, riservata essenzialmente alle donne. Essere buone filatrici era una condizione di virtù essenziale per una donna – tanto più se appartenente alla classe patrizia – che, per testimoniare di possedere questa nobile dote, doveva saper confezionare con le proprie mani l’abito da sposa. Plutarco [Vite parallele, Romolo, 15, 2] ci fa sapere che l’istituzione del lanificium come prioritaria occupazione delle donne romane risaliva addirittura ai tempi di Romolo, quando era stato stipulato, tra Latini e Sabini, un preciso accordo:

ἐπεὶ γὰρ οἱ Σαβῖνοι πρὸς τοὺς Ῥωμαίους πολεμήσαντες διηλλάγησαν, ἐγένοντο συνθῆκαι περὶ τῶν γυναικῶν, ὅπως μηδὲν ἄλλο ἔργον τοῖς ἀνδράσιν ἢ τὰ περὶ τὴν ταλασίαν ὑπουργῶσι: epèi gar hoi Sabìnoi pros tous Rhomàios polemèsantes diellàghesan, eghènonto synthèkai perì ton ghynaikòn, hòpos medèn àllo èrgon tois andràsin e ta perì ten talasìan hypourgòsi [Dopo che i Sabini, terminata la guerra coi Romani, ebbero fatto la pace con loro, fu concluso questo patto per quanto concerne le donne rapite, che esse non fossero adibite a nessun altro lavoro per i loro uomini tranne che a quello di tessere (PLUTARCO, Vite parallele, vol. 1, a cura di A. Traglia, 2013, UTET, Torino, pp. 154-182)].

Tra le associazioni di mestieri, istituite, secondo la tradizione, dal re Numa Pompilio, non compaiono le arti relative alla lavorazione della lana, che trovarono affermazione fuori dalle mura domestiche solo a partire dal III sec. a. C., quando nacquero botteghe specializzate nel settore, con una vera  e propria organizzazione professionale funzionale alle sempre maggiori richieste del mercato. A ogni fase della lavorazione della lana corrispondevano botteghe organizzate (textrinae) di vario tipo: officinae lanifricariae (lavaggio), tinctoriae (tintura), officinae textoriae (pettinatura e cardatura), officinae coactiliariae (filatura e tessitura), fullonicae (candeggio e finissaggio). In particolare, i tessitori erano pagati in base al peso del filo (di lana, ma anche di lino e di altre fibre) prodotto: in genere, si guadagnavano quaranta denari per libbra di tessuto. È bene ribadire che la filatura e la tessitura della lana nacquero come attività domestiche, che erano funzionali alle necessità della casa, ma che costituivano anche e soprattutto un simbolo della virtù matronale, un ideale di modello femminile. Così, insieme alle immancabili castitas, pietas e pudicitia, ornamento della matrona era anche il lanificium. Come dimostrano alcuni chiari riferimenti legislativi del Digesto (corpus di leggi di età giustinianea, VI sec. d. C.), in genere, in casa, alla matrona spettava la funzione di lanipenda, ovverosia di colei che era deputata a pesare la lana, distribuirla e supervisionare il lavoro giornaliero di filatura da parte delle serve. È opportuno precisare, quindi, che il ruolo di lanifica è più letterario-ideale che reale, dal momento che è molto probabile che la matrona si limitasse a pesare la lana (lanipenda), lasciando alle serve il compito della tessitura.

La radice indoeuropea che sottende l’insieme semantico di cui ci stiamo occupando è *pend-, al cui significato, ormai chiaro, di pesare, aggiungiamo quello di sospendere. L’attività della pesatura, in pratica, era strettamente legata al pagamento delle prestazioni lavorative. Nella Roma arcaica, dopo una fase iniziale in cui le transazioni di beni avvenivano, come in tutte le società antiche, tramite il baratto, si passò a scambi in cui la merce veniva acquistata per mezzo del bestiame (ovini e bovini). Di ciò è testimonianza la parola pecunia, denaro, ricchezza, chiaramente connessa con pecus, gregge. Il pecus, però, aveva bisogno di cure continue e nutrimento per non perdere valore e, soprattutto, non perire. Perciò, si andò via via affermando, fino a prevalere, un diverso metodo: pagare i prodotti con il metallo; quest’ultimo, rispetto al bestiame, era molto più facile a custodirsi, per ragioni intuibili: era indeteriorabile, frazionabile e non richiedeva costi di mantenimento. Dapprima, si usò il bronzo, una lega molto disponibile grazie alla produzione degli Etruschi, che reperivano il rame nell’isola d’Elba e importavano lo stagno dalle isole britanniche. Come testimonia Isidoro di Siviglia nelle Origines, “gli antichi (…) erano soliti soppesare il denaro, piuttosto che contarlo” [“antiqui (…) adpendere pecuniam soliti erant magis quam adnumerare “: ISIDORO DI SIVIGLIA, Etimologie o Origini, XVI, (De lapidibus et metallis), XVIII, 8, a cura di A. Valastro Canale, 2013, UTET, Torino, pp. 1390 e 1395]. Anche Varrone, nel De lingua latina [V, 182], afferma la stessa cosa, a riprova del fatto che la pesatura del metallo era attività di somma importanza, giustificata dal fatto che, soprattutto la prima forma di moneta, l’aes rude, non possedeva un peso preciso e identico per tutte.

Militis stipendia ideo, quod eam stipem pendebant; ab eo etiam Ennius scribit: Poeni stipendia pendunt [Gli stipendi dei soldati sono chiamati così perché essi pesavano la stipe (piccola moneta, n.d.r.). Da questo, anche l’espressione di Ennio: i Cartaginesi pagano il tributo (VARRONE, De Lingua latina, V, 182, in Opere, a cura di A. Traglia, 1974, UTET, Torino, pp. 170-171)].

Se con Varrone abbiamo ottenuto una sorta di sigillo etimologico-aneddotico, il ricorso a Cicerone, sempre irrinunciabile, si muta immediatamente in una lezione di lessicografia comparata per tutti noi. Cicerone, infatti, il più delle volte, è il modello letterario per eccellenza per chiunque voglia trovare nella letteratura latina veri e propri presupposti didattici.

(…) Si in philosophia tantum interest quem ad modum dicas, ubi res spectatur, non verba penduntur, quid tandem in causis existimandum est quibus totis moderatur oratio? [(…) Se in filosofia, dove si bada al concetto e non si considerano le parole, importa solo il modo in cui parli, che cosa dunque bisogna pensare per le arringhe, nelle quali la parola governa tutto? (CICERONE, Orator, 16, 51, trad. nostra, in Opere retoriche, vol. I, a cura di G. Norcio, 1970, UTET, Torino, p. 822)].

Procedendo oltre, ma avendo come riferimento la pragmatica funzionale del pesare e dello stimare o del valutare, propria della radice *pend-, incontriamo il sostantivo compenso, che i più intendono sbrigativamente come pagamento, retribuzione. Se consultiamo il Treccani online, che riproponiamo affinché il lettore abbia un canale d’immediata fruizione, ci rendiamo conto che l’accezione comune, in realtà, non rispetta il vero significato del sostantivo: “Tutto quanto serve a ristabilire un equilibrio, a bilanciare una differenza”. Sebbene esista, com’è risaputo, il riferimento alla gratificazione economica, ciò che prevale ancora oggi, secondo la tradizione latina, è proprio l’idea del mettere in contrappeso, del controbilanciare. Se ne può avere riscontro riflettendo sul modo in cui usiamo la locuzione avverbiale “in compenso”: “Sono stanco, in compenso, però, ho prodotto molto”. Con Pirandello, guadagniamo indubbiamente l’esempio illustre, oltre che una lezione di stile di cui gli siamo umilmente grati.

Lei è giovanissimo e patituccio sul serio. Queste confidenze sviscerate che le farò, le potranno servire più di quest’acquaccia qua, che è amara, ma, in compenso, non giova a nulla, creda pure. Ce la danno a bere, in tutti i sensi, e noi la beviamo perché è cattiva. Se fosse buona… Ma no, basta: perché lei fa la cura, e le conviene aver fiducia [PIRANDELLO, L., 1905, Novelle per un anno, vol. I, Mondadori, 1956, Milano, p. 272].

L’antecedente latino è di semplice consultazione soprattutto in virtù dell’omografia che caratterizza il verbo latino e quello italiano: compensāre, che si traduce con controbilanciare, ma anche con conteggiare e ridurre. Invece, per esplorare il modo in cui i cosiddetti classici ne facevano uso ci affidiamo ancora una volta a Cicerone.

Itaque hoc sum adgressus statim Catone absoluto (…) Volo enim mihi tecum commune esse crimen ut, si sustinere tantam quaestionem non potuero, iniusti oneris impositi tua culpa sit, mea recepti: in quo tamen iudici nostri errorem laus tibi dati muneris compensabit [Dunque, mi sono accinto a quest’opera subito dopo il mio Catone (…) (Voglio condividere con te la responsabilità di questa rischiosa impresa: così, se non sarò all’altezza di un sì difficile incarico, tua sarà la colpa di avermi imposto un compito tanto gravoso, mia quella di averlo accettato: quanto a me però, il merito di averti voluto accontentare compenserà l’errore del mio giudizio (CICERONE, Orator, X, 35, Opere retoriche, vol. I, a cura di G. Norcio, 1970, UTET, Torino, pp. 812-813)].

Un altro sostantivo che appartiene alla semantica della radice *pend- e che, spesso, usiamo con notevole generosità è compendio, la cui forma latina è compendĭum e il cui significato d’origine è risparmio. A questo punto dello studio, non è difficile intuirne la derivazione dal verbo pendĕrepesare, anche se ciò su cui è interessante soffermarsi è la sua struttura morfologica: l’elemento suffissale di compendĭum, cioè -pendium, è, chiaramente, ciò attraverso cui si genera il significato di stimare e pesare. Il concetto di abbreviamento o di riduzione cui siamo approdati nel tempo è solo l’effetto sociolinguistico d’un antico legame tra il risparmio di denaro e il risparmio di tempo, per i quali abbiamo richiamato l’attenzione proprio su -pendium. Non a caso, Forcellini [1761] contrappone compendĭum a dispendĭum, cioè a spesa, costo; il che può aiutarci a delimitare meglio il piano semantico del sostantivo in questione.

Edepol qui te de isto multi cupiunt nunc mentirier,

sed ego ita esse ut dicis teneo pulchre. Proin, Palaestrio,

quam potis tam verba confer maxume ad conpendium.

[Periplectomeno: Eh, quanti vogliono che tu ora menta su questo!

Ma io so bene che è così come dici. Su, Palestrione,

parla quanto più puoi a risparmio! (libera: taglia corto con le parole) (PLAUTO, Miles gloriosus, III, 779-781, trad. nostra, in Comoediae, a cura di G. Goetz e F. Schoell, vol. IV, 1895, Teubner, Lipsia, p. 178 )].

Una nota conclusiva, ammettendo che sia lecito indicare qualcosa di conclusivo, può essere fatta col sostantivo pendolo non perché, con esso, si apporti un sovrappiù di conoscenza al lavoro svolto fin qui, ma perché fa la propria comparsa nella nostra lingua relativamente tardi, cioè nel periodo in cui Galilei fa nascere la prosa scientifica e, pur derivando da pendĕre, nella lingua latina, quella scientifica, è attestato solo nella forma funependulus. Il nostro pendolo nasce, dunque, da un termine composto da fūnis, corda, e pendŭlus, pendente, sospeso.

L’aria (…) resistendo all’esser aperta, ritarda qualche poco e impedisce il moto del pendolo [GALILEI, G., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Opere di Galileo Galilei, vol. II, 1832, N. Bettoni e comp., Milano, p. 278].

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