Pausa, riposo: lasciarsi andare

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Col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Secondo quanto riferisce Valerio Massimo [Detti e fatti memorabili, VIII, 8], Muzio Scevola era solito svagarsi giocando a palla, a scacchi e a dama; il noto P. Cornelio Scipione Emiliano, insieme col caro e meno noto amico C. Lelio, console nel 140 a. C., si rilassava raccogliendo conchiglie sulle spiagge di Gaeta e Laurentum. In un’epistola [Silvae, IV, IV (Epistola ad Vitorium Marcellum), 15-17] in versi destinata all’amico avvocato Marcello, Stazio gli consigliava di riposare dalle fatiche lavorative e dal caldo di Roma rifugiandosi a Praeneste, Tusculum o Tibur perché solo così egli sarebbe potuto tornare a lavorare con più forza e più zelo. Achille, invece, dopo essersi ricreato con la cetra, andò a combattere valorosamente contro Ettore [ibid., 33-36]. Tra i luoghi di riposo dei cittadini romani benestanti, c’erano senz’altro gli horti e le villae, di cui Roma, a partire dal II sec. a. C., si circondò, lungo tutto l’anello periurbano. Erano famosissimi quelli di Lucullo, console del 74 a. C., che, assieme a passatempi non proprio edificanti – si consideri, a tal proposito, che, dopo il ritiro per stanchezza dalla vita pubblica, si era dato a banchetti, bagordi, fiaccolate e altre mollezze molto costose! –, coltivava anche le lettere e le arti e, all’interno delle sue numerose proprietà, aveva creato passeggiate e bagni per mostrare le collezioni di oggetti preziosi da lui possedute, nonché terrazze, giardini panoramici e biblioteche di libero accesso per ospitarvi eruditi greci e romani e discettare di cultura con loro [PLUTARCO, Vite parallele, Lucullo, 39, 1-2 e 42, 1-2]. Anche Cicerone, che possedeva parecchie villae [Epistole ad Attico, II, 8, 2], soleva spostarsi in questi luoghi di riposo, praticando – in particolare, durante il ritiro forzato dalla vita pubblica per decisione di Cesare, quando si diede alla composizione delle Tusculanae disputationes – quello che egli riteneva un otium cum dignitate [De oratore, I, 1-2], ovvero dedicandosi alla scrittura [Ibid., XV, 16]. Coloro che, sicuramente, avevano una vita complicata e soggetta a grande stress erano gl’imperatori, di cui Svetonio, nelle Vite dei Cesari, ci illustra anche molte abitudini private. A proposito del riposo dei ‘buoni’ imperatori, egli ci dice che Augusto, per esempio, dopo aver pranzato, si adagiava per un po’ di tempo tenendo una mano sugli occhi, mentre, dopo cena, si addormentava per poche ore [Vite dei Cesari, Augusto, 78, 1-2]. Degli sfarzosi e viziosi passatempi di Tiberio nella propria villa di Capri Svetonio parla con spregio [Ibid., Tiberio, 43-45], perdonando invece la frequentazione di concubine a Vespasiano, che era un buon imperatore, sempre immerso nel lavoro e, per questo, spesso sveglio anche di notte [Ibid., Vespasiano, 21]. Ma Tiberio era anche colto e amava porre ai grammatici indovinelli di argomento mitologico [Ibid., Tiberio, 70, 3], mentre Nerone, che era molto incline alle arti, si dilettava suonando la cithara [Ibid., Nerone, 20], componendo versi [ibid., 52], recitando [ibid., 21,3], come anche assistendo alle gare di cavalli nel circo e cimentandosi egli stesso in gare con le quadrighe [Ibid., 22]. Conosciamo poi il passatempo preferito di Domiziano, che si rilassava acchiappando mosche e infilzandole con uno stiletto [Ibid., Domiziano, III]. Traiano, oggetto delle lodi sperticate di Plinio il Giovane nel Panegirico, viene descritto da questi come un uomo che, pure nel riposo, sceglieva sempre attività molto impegnative, come andare per boschi a cacciare bestie selvatiche oppure mettersi per mare per testare le proprie capacità di timoniere nell’atto di dominare venti e correnti [PLINIO IL GIOVANE, Panegirico di Traiano, 81, 1]. Non a caso, nella Colonna traiana egli è effigiato anche in un’avventura per mare. Più ‘spartano’ fu Settimio Severo, che, per svagarsi e ‘fare pausa’ dal lavoro, si concedeva lo studio del greco, delle passeggiate a cavallo, si allenava e faceva un sano bagno dopo l’attività fisica [CASSIO DIONE, Storia romana, 77, 16]. Marco Aurelio, poi, come sappiamo da lui stesso, in particolare da un paio di lettere scritte all’amico retore Frontone, soleva trascorrere il tempo del riposo in cacce, passeggiate, conversazioni, ma, sicuramente e soprattutto, immerso negli studi e nella scrittura, che lo portavano a iniziare molto presto la propria giornata: si ipotizza verso le tre del mattino [FRONTONE, Epistole all’imperatore Marco, IV, 5].

Fin qui, ci siamo lasciati condurre dagli autori classici attraverso le trame della storia romana, con particolare riferimento al modo in cui i cosiddetti grandi uomini trascorrevano il proprio tempo libero, cioè il tempo del distacco e della cessazione da ogni attività che comporti dispendio di energie, per così dire. Il sostantivo che rappresenta facilmente questo tempo è, senza ombra di dubbio, riposo. Quando, tuttavia, s’interroga un motore di ricerca a tal proposito, si scopre, inaspettatamente, che riposo, di fatto e, in parte, erroneamente, non viene fatto corrispondere esattamente a ciò che scrivono i lessicografi sui dizionari della lingua italiana, tranne che, naturalmente, se ne accolgano le estensioni. La maggior parte dei risultati della rapida ricerca, infatti, indica una prevalenza incondizionata di sonno, come se sonno fosse un sinonimo di riposo. Sulla base di una ricerca commissionata da Philips in occasione della giornata mondiale del sonno 2020, Wake Up Call: Global Sleep Satisfaction Trends, sappiamo, per esempio, che il 53% degli italiani è insoddisfatto del proprio sonno. Altri risultati della stessa ricerca, invece, rinviano l’utente al concetto di vacanza, la cui dimensione semantica si allontana sempre di più, sebbene non sia affatto sbagliato ammettere dei legami tra i due termini. Insomma, il dato che ricaviamo osservando il fenomeno sociolinguistico sulla rete è quello di un ampliamento e di un parziale slittamento del sostantivo riposo mediante l’uso di figure del significato. In entrambi i casi, sia in quello di sonno sia in quello di vacanza, riposo assume il valore di iperonimo, ovverosia di termine che ha una maggiore estensione rispetto agli altri due. Con più precisione, però, dobbiamo dire che slittamenti semantici come quello di vacanza per riposo o di riposo per sonno, in linguistica, vengono fatti rientrare nella categoria dei cosiddetti tropi veri e propri. Si tratta di parole che dal loro contenuto originario vengono dirette a rivestire un altro contenuto e che prendono anche il nome di figure di significazione “perché sono il risultato di un nuovo modo di significare da parte della parola in cui consistono” [MORTARA GARAVELLI, B., 1991, Manuale di retorica, Bompiani, Milano, p. 146]. Nella fattispecie, possiamo, a buona ragione, identificare gli slittamenti semantici in questione come delle sineddochi, ovvero dei trasferimenti di significato in base a una relazione di contiguità. La contiguità, in questo caso, è data dall’uso di una parola di significato più ampio per una di significato più ristretto, appunto vacanza per riposo e riposo per sonno. Di certo, non si commette alcun errore nel considerare il sonno come riposo; anzi, alcuni dizionari, con le dovute precisazioni, ne riportano l’occorrenza. Lo stesso non può dirsi per vacanza. In materia di frequenza e modi d’uso, è opportuno sapere che, oggi, tra le altre cose, il prestito inglese relax (dal verbo inglese to relax, rilassarsi) sopravanza nettamente riposo: è quanto emerge dalla consultazione dello strumento trends di Google, facendo riferimento, per l’appunto, alle ricerche fatte dagli utenti in rete nell’ultimo anno.

Il termine riposo è un deverbale e deriva dal verbo riposare, che, a propria volta, è una sorta di ‘calco’ del latino rĕpausāre, cioè riposarsi, nell’accezione intransitiva, o ristorare, nutrire, in quella transitiva. Il suo corrispondente greco, come fanno notare Nocentini e Parenti [2010] è ἀναπαύειν (anapàuein, fare che qualcuno cessi o riposi). In un’occorrenza della tarda latinità, rileviamo, già e pienamente, il significato a noi noto.

Rex autem Salomon fugiens cum paucis vix evasit, et facili cursu transivit Danubium, quia glaciatus erat. Cunque venisset ad quoddam nemus magnum, dixit suis, ut pro recreandis equis paululum repausarent [Ma il re Salomone, fuggendo con pochi riuscì appena a salvarsi e con facile percorso attraversò il Danubio perché era ghiacciato. Essendo giunto presso un grande bosco, disse ai suoi che riposassero un po’ per ristorare i cavalli (de THUROCZ, Chronica Hungarorum, 83, De coronatione regis Ladislai, 398, I. Textus, a cura di E. Galántai e J. Kristó, 1985, Akadémiai Kiadó, Budapest, p. 116)].

Chiaro Davanzati, un contemporaneo di Dante, ci offre, invece, un contributo nelle forme tipiche della scuola siciliana mediante il quale possiamo valutare l’uso del sostantivo in lingua volgare.

Vostro piagente viso ed amoroso, / madonna, m’ha di sé sì ’namorato / che giorno e notte son di ciò pensoso / e sì ’n travaglio ch’io non trovo lato / ov’io di ciò trovar possa riposo, / se da voi, bella, non sono aiutato [CHIARO DAVANZATI, Vostro piagente viso ed amoroso, 1-6, in Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice vaticano 3793, a cura di A. D’Ancona e D. Comparetti, 1881, Romagnoli, Bologna, p. 56].

Pur non volendo eccedere in citazioni e, nello stesso tempo, pur non avendo l’intenzione di proporre una miniantologia, non possiamo fare a meno di richiamare l’attenzione del lettore sulla Vita nuova di Dante. Lo facciamo perché, in questo caso, la morte è introdotta come metafora del riposo; la qual cosa ci ricorda immediatamente l’eterno riposo della tradizione cattolica, originariamente concepito come requiem aeternam, a patto che non s’intenda che fosse questo il proposito di Dante: abbiamo voluto fare un accostamento a beneficio della nostra memoria storico-antropologica.

Ond’io chiamo la Morte, / come soave e dolce mio riposo; / e dico “Vieni a me” con tanto amore, / che sono astioso di chiunque more [DANTE ALIGHIERI, Vita nuova, XXXIII, 6, 10-13, in Opere minori, tomo I, parte I, a cura di D. De Robertis e G. Contini, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 211].

La metafora elegantemente costruita da Dante, il quale, com’è noto, s’impegnò parecchio a studiare e produrre un volgare unitario e che fosse illustre, cardinale, aulico e curiale [DANTE ALIGHIERI, De vulgari eloquentia, I, XVII, 1, in Opere minori, tomo II, a cura di AA.VV., 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 131], è la misura del ‘movimento’ semantico del sostantivo che abbiamo preso in esame, che, come abbiamo visto, nell’italiano contemporaneo medio, è inteso molto di frequente in figura, pur non essendo, come si suol dire, una parola ‘difficile’. Allo stesso modo in cui, spesso, il riposo è una figura della morte, così esso viene adottato in sostituzione di sonno e, talora, snaturato con vacanza. In ogni caso, esiste un substrato archetipico-linguistico e filogenetico che proviene dalla radice indoeuropea da cui s’è sviluppata una certa semantica. La radice *paus-, infatti, ha proprio il significato di lasciare andare, che, se reinterpretata in una forma medio-riflessiva, lasciarsi andare, giustifica pienamente e inoppugnabilmente tutte le voci, anche quelle meno felici, che il termine ha assunto nel discorso. Tra gli esiti di *paus-, incontriamo anche pausa, che, però, com’è ovvio, ci giunge dall’omografo latino păusa, sosta, tregua, fermata. In realtà, gli studiosi, non sono affatto d’accordo sulla derivazione di questo sostantivo. Secondo Forcellini [1761], deriverebbe dal greco παῦσις (pàusis, cessazione), che è un deverbale e si forma da παύειν (pàuein, calmare, far cessare).

Τῇ Σίμου ἐν τόκῳ σεισθείσῃ ἄλγημα περὶ στῆθος καὶ πλευρόν· βήξ, πυρετοί, ἀποχρέμψιες ὑποπυώδεις. Ἐς φθίσεας καὶ κατέστη· καὶ ἓξ μῆνας οἱ πυρετοί, καὶ διάρροια αἰεί· ἐπὶ τέλει παῦσις πυρετοῦ· κοιλίη ἔστη μετὰ τὴν παῦσιν· ἡμέρας μεθ’ ἑπτὰ ἐτελεύτησεν : Te Sìmou en tòko seisthèise àghelma perì stèthos kai pleuròn; bèx, pyretòi, apochrèmpsies hypopyòdeis. Es phthìeas kai katèste; lai hex mènas hoi pyretòi, kai diàrroia aièi; epì tèlei pàusis pyretoù; koilìe ète metà ten pàusin; hemèras meth’ heptà eteleùtesen [La moglie di Simo, scossa durante il parto, aveva un dolore al petto e alla costola; tosse, febbre, espettorando materia purulenta; andò in consunzione e per sei mesi ebbe febbre e sempre diarrea; alla fine (ci fu) la cessazione della febbre; le viscere si stabilizzarono dopo la cessazione; dopo sette giorni morì (HIPPOCRATES, Epidemics, VI (2-7), tard. nostra, a cura di W. D. Smith, 1994, Harvard College, Cambridge, Massachussets, p. 354)].

Ernout e Meillet [2001], tuttavia, ritengono che il verbo pausare, riscontrato nel tardo latino, pur non essendo attestato nel latino colto, sia la forma originaria.

Et quamvis in itinere positum cum carra vel cum nave, pauset die dominico usque in secundam feriam [E sebbene sia coi carri o in nave, riposi la domenica fino al lunedì (Leges nationum germanicarum , Lex Baiuwariorum, VI-VIII sec., Tit. 7, De nuptiis et operationibus inclitis prohibendis, IV, De diebus dominici, a cura della Societas aperiendis fontibusrerum germanicarum Medii aevi, tomo V, parte II, 1926, Impensis bibliopolii hahniani, Hannover, p. 350)].

Il tardo pausare, a propria volta, sarebbe legato o all’imperativo aoristo di παύειν (pàuein), παῦσαι (pàusai, smetti) o all’aoristo indicativo ἔπαυσα (èpausa, io smisi).

ΚΡ. Παῦσαι͵ πρὶν ὀργῆς κἀμὲ μεστῶσαι λέγων͵ / μὴ ΄φευρεθῇς ἄνους τε καὶ γέρων ἅμα. / Λέγεις γὰρ οὐκ ἀνεκτὰ δαίμονας λέγων / πρόνοιαν ἴσχειν τοῦδε τοῦ νεκροῦ πέρι: Kr. Pàusai, prin orghès kamè mestòsai lègon, / me ‘pheurethès ànous te kai ghèron hàma. / Lègheis gar ouk anektà dàimonas lègon / prònoian ìschein toùde tou nekroù pèri [Tacete, prima che le vostre parole mi riempiano di furia, / prima che si veda quanto siete stupidi, oltre che vecchi. / è intollerabile quello che dite, pensare che gli dei / si prendano cura del cadavere di quell’uomo (SOFOCLE, Antigone, 280-283, in Tragedie e frammenti, a cura di G. Paduano, vol. I, 1996, UTET, Torino, pp. 272-273)].

Πρ. καὶ μὴν φίλοις ἐλεινὸς εἰσορᾶν ἐγώ. / Χο. μή πού τι προύβης τῶνδε καὶ περαιτέρω; / Πρ. θνητούς γ’ ἔπαυσα μὴ προδέρκεσθαι μόρον. / Χο. τὸ ποῖον εὑρὼν τῆσδε φάρμακον νόσου; / Πρ. τυφλὰς ἐν αὐτοῖς ἐλπίδας κατῴκισα: Pr. Kai men phìlois eleinòs eirosàn egò. / Ko. Mè pou ti proùbes tònde kai peraitèro? Pr. Thnetoùs gh’èpausa me prodèrkesthai mòron. / Ko. Tò pòion euròn tèsde phàrmakon nòsou? Pr. Typhlàs en autòis elpìdas katòkisa [Prom. Sono davvero una visione pietosa per chi mi vuole bene / Coro Non ti sarai spinto troppo oltre? / Prom. Distolsi gli umani dal guardare fisso il proprio destino di morte / Coro E quale farmaco scopristi contro questa malattia? / Prom. Insidiai in loro cieche speranze (ESCHILO, Prometeo incatenato, 246-250, in Sofocle, Euripide, Tutte le tragedie, a cura di A. Tonelli, 2011-2013, Bompiani, Milano, pp. 472-475)].

Come apprendiamo dal Glossarium Ad Scriptores Mediae et Infimae Latinitatis di Du Cange, il verbo pausare, da cui, secondo Ernout e Meillet [2001], come abbiamo detto, si sarebbe formato il nostro pausa, ha almeno due significati prevalenti: dormire e riposare nella tomba. Tale acquisizione ci riporta alla teoria dei tropi e delle figure della significazione, che abbiamo esposta in apertura, immediatamente dopo la descrizione delle forme di riposo degli uomini illustri. Dunque, la storia di una parola e l’analisi della sua radice costituiscono, il più delle volte, il primordio d’un movimento semantico che, in genere, produce espressioni del modo di pensare ed essere dei parlanti. Se, infatti, ogni ipotesi di sinonimia resta erronea, al contrario, le estensioni sono legittime e godono di parecchia fortuna.

Virginitatis praerogativam pulchra praesagia portendebant. Siquidem infantulus cum in cunis supinus quiesceret, ex improviso examen apum ora labraque sine periculo pausantis complevit qui ingrediendi et egrediendi per tenera pueruli labra certatim vices frequentabant [Bei presagi preannunciavano la prerogativa della verginità. Infatti, mentre il bambino (si riferisce a sant’Ambrogio, n.d.r.)  dormiva supino nella culla, all’improvviso, riempì senza pericolo il viso e le labbra di lui che dormiva uno sciame di api, che continuavano a entrare e uscire a vicenda attraverso le tenere labbra del bambino (SANCTI ALDHELMI, De laudibus virginitatis, XXVI, trad. nostra, in Opera quae exstant, a cura di J. A. Giles, 1844, J. H. Parker, Oxford, pp. 29-30)].

Quamobrem pro meritis laborum tantorum et annorum numerositate, qua in eremo perduravit, hac miseratione et humilitate summa, ab his qui eius compatiebantur exitio, vix a presbytero abbate Paphnutio potuit obtineri, ut non inter biothanatos reputatus, etiam memoria et oblatione pausantium iudicaretur indignus [Per cui, in ricompensa dei meriti di tante fatiche e per la moltitudine di anni in cui resistette nel deserto, con questa pietà e con somma umiltà da parte di coloro che avevano compassione per la sua morte violenta, dal presbitero abate Paphnuzio a malapena poté essere ottenuto che egli, essendo ritenuto morto per morte violenta, non fosse giudicato indegno anche del ricordo e dell’offerta per i morti (CASSIANO, Collationum XXIV, trad. nostra, pars I, II, De discretione, V, De morte Heronis senis, in Patrologiae cursus completus, tomus 49, Joannis Cassiani Opera omnia, a cura di J. P. Migne, 1874, Migne, Parigi, coll. 530-531)].

Per dare un senso di compimento a questo nostro contributo su riposo e pausa è necessario fare una modesta considerazione sul rapporto che lega questi due termini, di là da quello evidente e insito nella comune radice. Accade di frequente che una pausa sia intesa come una forma di riposo. Sebbene sia anche naturale immaginare che chi ‘si prende una pausa’ abbia bisogno di riposo o a questo miri, pausa significa interruzione di un’attività, arresto, sosta; fare una pausa non significa mettersi necessariamente a riposo. Possiamo dire, semmai, con una piccola forzatura, che il ‘riposo è una pausa con un preciso fine’, ma non il contrario. Non bisogna lasciarsi ingannare dalla reinterpretazione di riposo in relazione alle figure del significato e alle collocazioni sociolinguistiche fatte nel solco della tradizione medievale.

(…) Multa ab animalium vocibus tralata in homines, partim quae sunt aperta, partim obscura (…) Ennii a vitulo: Tibicina maximo labore mugit. Eiusdem a bove: Clamore bovantes. Eiusdem a leone: Pausam fecere fremendi (…) [(…) Molti vocaboli sono dovuti al trasferimento di grida di animali nel linguaggio di uomini. L’origine di alcuni di essi è ovvia, di altri è poco chiara (…) (Scil. Le parole) Di Ennio dal vitello: la sonatrice di flauto con grande sforzo muggisce; dello stesso autore, dal bue: muggendo con clamore; dello stesso autore, dal leone: cessarono dal fremere (VARRONE, De lingua latina, VII, V, 103 e 104, in Opere, a cura di A. Traglia, 1974, UTET, Torino, pp. 306-309)].

Gli va gli occhi alle man spesso voltando, / in dubbio sempre esser da lui rubata; /né lo lascia venir troppo accostando, / di sua condizïon bene informata. / Stavano insieme in questa guisa, quando / l’orecchia da un rumor lor fu intruonata. / Poi vi dirò, Signor, che ne fu causa, / ch’avrò fatto al cantar debita pausa [ARIOSTO, L., Orlando furioso, III, 77, a cura di L. Caretti, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 63].

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