Malattia: punizione divina o disfunzione organica

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col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Secondo il dettato veterotestamentario, nella terra di Uz, cioè, molto probabilmente, nella regione meridionale della Giordania attuale, viveva un uomo giusto e umilmente devoto a Dio, aveva sette figli, possedeva settemila pecore, tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine (Gb 1, 1). Il suo nome era Giobbe e la sua esistenza era un esempio di fede, rettitudine e armonia. Un giorno, però, il Signore concesse a Satana la possibilità di metterne alla prova le virtù, dando così inizio a un ciclo d’indicibili sofferenze per Giobbe e istituendo, di conseguenza, un’inesplicabile questione di teodicea: perché il male e, soprattutto, perché un uomo integro e retto deve subirlo?

Il Signore disse a Satana: “Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stendere la mano su di lui” [Ibid., 1, 12].

In seguito a questa concessione, in poco tempo, Giobbe venne privato di tutti i beni e dei figli: alcuni animali predati, altri divorati dalle fiamme, i figli travolti da un vento impetuoso. Nonostante le terribili sventure, il servo di Dio restò saldo nella fede, non osò accusare il Signore. Satana, allora, si fece avanti ancora una volta; chiese e ottenne di poter stendere la mano pure su di lui: “Eccolo nelle tue mani!” gli disse il Signore “Soltanto risparmia la sua vita” [Ibid., 2, 6]. Immediatamente, Giobbe fu colpito da una piaga, “dalla pianta dei piedi fino alla cima del corpo”, come si legge nel secondo capitolo del libro omonimo, il libro di Giobbe più volte citato, per l’appunto [Ibid., 2, 7]. Egli era talmente devastato dalla malattia che i suoi amici, Elifaz, Bildad e Zofar, recandosi da lui in visita, sulle prime, non lo riconobbero, si misero a piangere e si stracciarono le vesti. La moglie lo esortò spregiudicatamente a rinnegare quel Dio che sembrava averlo abbandonato. Di qui s’avvia un’intensissima lamentazione poetica in cui ogni tentativo di compimento del lògos non è altro che un’interpretazione nulla o, semplicemente, inservibile della sofferenza, giacché in antitesi si trova sempre e solo il Tribunale dell’Altissimo, che ha ragione anche quando ha torto [Cfr. MODICA, G., 1992].

Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha rovinato, / mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; / ha fatto di me il suo bersaglio. / I suoi arcieri mi circondano; / mi trafigge i fianchi senza pietà, / versa a terra il mio fiele, / mi apre ferita su ferita, / mi si avventa contro come un guerriero [Ibid., 16, 12-14].

Se l’Altissimo così ha disposto, è giusto che soffra anche colui che non lo merita affatto, sebbene ciò sia logicamente ingiusto. Di fatto, il Signore, da ultimo, riscatterà Giobbe, restituendogli il benessere che sembra spettargli per ontologia e morale; resta insoluto, tuttavia, come abbiamo anticipato, il problema della sofferenza e della malattia, che colpiscono un uomo già afflitto dalla perdita dei beni e dei figli. Di qua dal riesame teologico e religioso che può farne chi aderisce a una qualche confessione, emerge come inoppugnabile la temibile dipendenza d’ogni genere di patologia dalla volontà divina. D’altronde, le testimonianze di pertinenza, in letteratura, sono assai numerose, quasi incalcolabili. Nello stesso Antico Testamento, se passiamo dal libro di Giobbe a quello dell’Esodo, troviamo la sesta piaga d’Egitto, con la quale Dio punisce gli Egizi, rei d’avere ridotto in schiavitù gli Ebrei.

Il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Procuratevi una manciata di fuliggine di fornace: Mosè la getterà in aria sotto gli occhi del faraone. Essa diventerà un pulviscolo diffuso su tutto il paese d’Egitto e produrrà, sugli uomini e sulle bestie, un’ulcera con pustole, in tutto il paese d’Egitto” [Es, 9, 8-9].

È essenziale, a tal proposito, distinguere il piano della malattia individuale da quello della malattia collettiva, com’è altrettanto significativo cogliere la differenza tra la prova, cui viene sottoposto Giobbe, un uomo senza colpa, e la punizione, che invece tocca agli Egizi per una precisa colpa. In ogni caso, l’eziologia della malattia è legata alla matrice teurgica: ciò vale, indistintamente, tanto per le sofferenze individuali quanto per quelle collettive. Nell’Iliade, è universalmente nota la pestilenza che affligge il campo greco. La sua origine è singolare: il sacerdote troiano Crise rivolge una preghiera ad Apollo perché gli Achei gli hanno sottratto la figlia e Agamennone si rifiuta di restituirgliela.

(…) Διὸς δ’ ἐτελείετο βουλή, / ἐξ οὗ δὴ τὰ πρῶτα διαστήτην ἐρίσαντε / Ἀτρεΐδης τε ἄναξ ἀνδρῶν καὶ δῖος Ἀχιλλεύς. / Τίς τάρ σφωε θεῶν ἔριδι ξυνέηκε μάχεσθαι; / Λητοῦς καὶ Διὸς υἱός· ὃ γὰρ βασιλῆϊ χολωθεὶς / νοῦσον ἀνὰ στρατὸν ὄρσε κακήν, ὀλέκοντο δὲ λαοί, / οὕνεκα τὸν Χρύσην ἠτίμασεν ἀρητῆρα / Ἀτρεΐδης (…): Diòs d’etelèieto boulè,/ ex hou de ta pròta diastèten erìsante / Atreìdes te ànax andròn kai dìos Achillèus. / Tis tar sphoe theòn èridi xynèeke màchesthai? / Letoùs kai Diòs hyiòs; ho gar basilèi cholothèis / noùson anà stratòn òrse kakèn, olèkonto de laòi, / hoùneka ton Chrsen etìmasen aretèra Atreìdes (…) [(…) Così si compiva il volere di Zeus ­ / da quando si divisero, in lite l’uno con l’altro, / il figlio di Atreo, capo d’eserciti, e il nobile Achille. / Ma quale degli dèi li spinse alla disputa? / Il figlio di Zeus e di Leto. Irato contro il sovrano, / suscitò una feroce malattia per il campo, e morivano gli uomini, / perché Agamennone aveva oltraggiato il suo sacerdote, / Crise (…) OMERO, Iliade, I, 5-12], a cura di G. Paduano, 2007, Mondadori, Milano, pp. 2-3].

In un ambito di confronto, non possiamo esimerci dal menzionare colui che per primo narrò un’epidemia di peste, tentando, per così dire, un approccio scientifico, lo storico Tucidide, il quale, nel II libro delle Storie o Guerra del Peloponneso, non si limita ad elencare i fatti, ma ne cerca le cause, li approfondisce con acume e indaga pure sulla provenienza della malattia ipotizzando che sia giunta dall’Africa, attraverso il Pireo. Ancora una volta, una guerra, quella del Peloponneso (431-404 a.C.), rappresenta lo sfondo socio-economico della patologia.

Oὐ μέντοι τοσοῦτός γε λοιμὸς οὐδὲ φθορὰ οὕτως ἀνθρώπων οὐδαμοῦ ἐμνημονεύετο γενέσθαι. οὔτε γὰρ ἰατροὶ ἤρκουν τὸ πρῶτον θεραπεύοντες ἀγνοίᾳ (…) ὅσα τε πρὸς ἱεροῖς ἱκέτευσαν ἢ μαντείοις καὶ τοῖς τοιούτοις ἐχρήσαντο, πάντα ἀνωφελῆ ἦν, τελευτῶντές τε αὐτῶν ἀπέστησαν ὑπὸ τοῦ κακοῦ νικώμενοι: Ou mèntoi tosoùtòs ghe loimòs oudè phthorà hoùtos anthròpon oudamoù emnemonèueto ghenèsthi. Oùte gar iatròi èrkoun to pròton therapèuontes agnòia (…) Hòsa te pros hieròis hikèteusan he mantèiois kai tois toioùtois echrèsanto, pànta anophelè en, teleutòntès te autòn apèstesan hypò tou kakoù nikòmenoi [(…) Tuttavia, non si ricordava che ci fosse stata da nessuna parte una peste talmente estesa né una tale strage di uomini. Né i medici erano d’aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta (…) Tutte le suppliche che facevano di oracoli e cose simili, tutto ciò era inutile; e alla fine essi se ne astennero, sgominati dal male (TUCIDIDE, Le storie, II, 47, 3-4, a cura di G. Donini, vol. I, 1982, UTET, Torino, pp. 346-349)].

Solo a partire dal greco Ippocrate (V sec. a C.), la malattia fu interpretata come una condizione determinata da cause ambientali e non soprannaturali. Essa andava combattuta in funzione del generale obiettivo, per l’uomo greco, di realizzare l’armonia del corpo e, più in generale, la felicità dell’individuo. Di conseguenza, il medico non fu più un sacerdote, ma uno studioso che doveva interpretare i segni e i sintomi della malattia, e, in base a essi, formulare una diagnosi. Egli diventava un professionista che operava in nome del guadagno, ma che, comunque, possedeva anche dei saldi principi morali, corrispondenti, in buona sostanza, a quelli contenuti nel Giuramento di Ippocrate.

 Nel Medioevo, il Cristianesimo impresse un nuovo significato alla malattia, che, di là dalla ‘parentesi’ della medicina di età classica, in sostanza, riprendeva l’originaria concezione teurgica: da condizione contro natura a cui bisognava opporre una cura, essa diventò manifestazione della fragilità umana a causa del peccato originale; dunque, non andava più combattuta con l’intervento del medico, quanto, piuttosto, vissuta come un esame, una prova da sostenere, anche fino al sacrificio di sé, in funzione, non più della salute del corpo, bensì della salute dell’anima. I cristiani dei primi secoli, in molti casi, rifiutarono persino i farmaci, ponendoli sullo stesso piano di strumenti magici, alla stregua di amuleti o pozioni, che, certo, non risultavano edificanti, alla luce della concezione della malattia come prova. Al più, si attendeva la guarigione attraverso il miracolo, che stava a sottolineare l’assoluta libertà di Dio di operare incondizionatamente.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli che ’l sosterrano in pace, ca da te, Altissimo, sirano incoronati [FRANCESCO D’ASSISI, Cantico delle creature,  23-26, in Poeti del Duecento, tomo I, a cura di G. Contini, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 34)].

O Signor, per cortesia, / manname la malsanìa! / A mme la freve quartana, /la contina e la terzana, / la doppla cotidïana / co la granne ydropesia. / A mme venga mal de dente, / mal de capo e mal de ventre; / a lo stomaco dolur’ pognenti / e ’n canna la squinanzia (…) Signor meo, non n’è vendetta / tutta la pena ch’e’ aio ditta, / ché me creasti en tua diletta / et eo t’ho morto a villania [IACOPONE DA TODI, O signor per cortesia, 1-10 e 71-74, in Poeti del Duecento, tomo II, a cura di G. Contini, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, pp. 135 e 138)].

L’idea di malattia come punizione divina serpeggia, dal Medioevo in poi, ancora in molte opere della letteratura successiva, accanto a quella razionale o, comunque, lontana da implicazioni di carattere morale. Un caso unico e che merita una trattazione a parte, dalla quale non si può certamente prescindere, quando si parla di malattia, è quello del contributo magistrale e illuminante dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni. La maggior parte di noi ne ha fatto la conoscenza sui banchi di scuola e spesso tende ad averne memoria superficiale, ma è doveroso precisare che l’autore si avvale di fonti autorevoli: Manzoni cita Giuseppe Ripamonti, un sacerdote e cronista dell’epoca, che scrisse il De peste quae fuit anno 1630, anche se non si può tralasciare il Raguaglio dell’origine et giornali successi della gran peste contagiosa, venefica, & malefica seguita nella città di Milano di Alessandro Tadino, membro del Tribunale di Sanità della città di Milano. Sulla base di questi studi, giunse a ipotizzare che il contagio nei territori di Lombardia, Veneto, Piemonte, Toscana e Romagna, nel terribile 1630, causò circa un milione di morti. All’origine dei mali e della devastazione rileviamo una crisi economica, una carestia e dei tumulti, che nella narrativa manzoniana trovano ampia descrizione. In particolare, allo shock dell’offerta di frumento e, di conseguenza, di pane fecero seguito il rincaro dei prezzi e l’inevitabile speculazione. È universalmente nota, per esempio, la scena dei disordini del XII capitolo dei Promessi sposi in cui è coinvolto lo stesso Renzo: in quella circostanza, il gran cancelliere Antonio Ferrer impone proprio il calmiere dei prezzi del pane, ma non prevede la corsa ai forni e la successiva ressa, cosicché la popolazione si riversa per le strade e provoca veri e propri tumulti. Secondo Manzoni, il biennio 1627-1628 fu decisivo: l’eccessiva pressione fiscale a supporto delle spese di guerra e le cattive condizioni meteorologiche misero in ginocchio l’economia. Si registrò, nel frattempo, un calo nelle esportazioni tessili e, ovviamente, nella produzione di manifatture italiane, che negli anni a venire furono sostituite da quelle delle Fiandre. I disagi condussero presto alla discesa dei Lanzichenecchi, le truppe del Sacro Romano Impero chiamate a riportare l’ordine nelle principali città. Bisogna ricordare infatti che il Ducato di Milano, in quegli anni, era una ‘proprietà’ della monarchia asburgica. Ebbene? Tutti gli autori sono concordi nel credere che la peste sia stata portata proprio da questi soldati dell’impero germanico, i quali, nel dirigersi a Mantova, attraversarono Milano. Sebbene l’indagine epidemiologica del tempo non fosse basata sulle stesse risorse di cui ci avvaliamo oggi, anche allora ci si impegnò nella ricerca del paziente zero. Secondo alcuni, si trattò del soldato Pietro Antonio Lovato, sul cui cadavere sarebbe stato rinvenuto un bubbone ascellare, ma non si hanno certezze. Sulle prime, le autorità, a quanto pare, sottovalutarono il rischio di contagio e la pericolosità della malattia, tant’è che, in piena crisi epidemica, non solo si celebrò pubblicamente la nascita del primo genito di Filippo IV, naturalmente senza badare agli assembramenti, ma si concesse addirittura una processione religiosa, cui tanta gente prese parte nella speranza di un miracolo, per invocare l’intervento divino di San Carlo. A nulla valse l’iniziale rifiuto del Cardinal Borromeo. E non ci volle molto perché questi eventi si trasformassero in veicoli di diffusione della peste. Alessandro Tadino, il già citato membro del Tribunale di Sanità, oltre che fisico, aveva più volte fatto notare la pressante esigenza di adottare misure di sicurezza, ma la negligenza di don Gonzalo Fernandez de Cordoba, prima, e quella di Ambrogio Spinola, poi, entrambi governatori della città, prevalsero sulle previsioni di medici e scienziati. Si narra che, nel primo periodo, le persone, contravvenendo sia alle norme del buon senso sia alle indicazioni dei medici, nascondevano i malati in casa, incuranti delle conseguenze.

Ecco cosa scrive Manzoni nel capitolo XXXI:

Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che, persuasi della gravità e dell’imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri. Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano [MANZONI, A., 1840, Promessi sposi, in Opere, a cura di R. Bacchelli, 2005, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 840].

I tentativi di fuga dalle zone protette, il rifiuto di isolamento e la conseguente esigenza, per lo più giovanile, di aggregazione, la superficialità nel trattare una materia che comunemente s’ignora e, nello stesso tempo, la presunzione d’invulnerabilità molto probabilmente costituiscono un archetipo della coscienza collettiva, un’inclinazione atavica a disobbedire, a non rispettare le regole e a credere che vengano sempre imposte a discapito di qualcuno. Insomma, la credulità era ed è un’attitudine insuperabile della specie umana! Quattrocento anni fa, si era sviluppata la caccia agli untori, cioè a persone che, a detta dei complottisti secenteschi, andavano in giro con unguenti venefici a infettare le persone, cosicché chi veniva sospettato d’essere un untore o semplicemente aveva atteggiamenti sospetti, veniva immediatamente linciato. Edificio simbolo del periodo fu il lazzaretto, una struttura in cui i malati venivano isolati, che Milano aveva già fatto costruire a metà del XV secolo, istituendo, nello stesso tempo, un ufficio di sanità permanente, ma che, com’è noto, non fu sufficiente a impedire la devastante avanzata della malattia.

Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella d’assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: chè, fin da’ primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ serventi [Ibid., p. 844].

Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra’ poveri, cominciò a toccar persone più conosciute [Ibid., 846].

Il nucleo semantico della documentazione esibita e analizzata finora è indubbiamente quello di malattia, che, come s’è osservato, prima d’entrare nell’uso scientifico o, per lo meno, razionale, è stato interpretato, per millenni, come manifestazione d’un potere sovrannaturale o, al più, come esito della combinazione di fattori psicosociali insondabili, quali sono la credenza popolare e la superstizione. Malattia è un deaggettivale e si origina dall’aggettivo malato, forma sincopata, quest’ultima, che ereditiamo dall’adattamento dell’italiano settentrionale malat. In realtà, la voce romanza malatia, pur derivando, naturalmente, dal latino ed essendo presente nel latino tardo, non è attestata nel latino classico, dove, diversamente, si ha riscontro dell’espressione mălĕ hăbĭtus, ossia stare male. Hăbĭtus è participio perfetto di hăbēre, un verbo che, oltre a significare avere, possedere, disporre, ha il significato di stare, nel senso dell’essere in un determinata condizione psicofisica. Questa espressione, mălĕ hăbĭtus, da cui deriverebbe malato, è attestata per la prima volta, con la valenza appena espressa, in Masurio Sabino, giurista romano di età tiberiana. Ricaviamo questo dato da Gellio, che, nelle Noctes Atticae [IV, 20, 11], scrive:

Item aliud refert Sabinus Masurius in septimo memoriali severe factum: “Censores,” inquit, “Publius Scipio Nasica et Marcus Popilius cum equitum censum agerent, equum nimis strigosum et male habitum, sed equitem eius uberrimum et habitissimum viderunt et “cur” inquiunt “ita est, ut tu sis quam equus curatior?” “Quoniam,” inquit, “ego me curo, equum Statius nihili servos” [Sabino Masurio nel VII libro delle Memorie riporta un altro atto di severità. Dice: “I censori Publio Scipione Nasica e Marco Popilio, passando in rivista i cavalieri, videro un cavallo molto scarno e mal tenuto, mentre il suo cavaliere era in ottime condizioni e ben in carne. Gli chiesero: “Perché tu sei più curato del tuo cavallo?”. “Perché”, rispose quegli “io curo me stesso, (mentre) il cavallo lo cura Stazio, uno schiavo buono a nulla” (GELLII, A., Noctes Atticae, IV, 20, 11, trad. nostra, a cura di P. K. Marshall, tomus I (voll. I-XI), 1968, Typrographeo Clarendoniano, Oxonii, pp. 188-189)].

Va detto, nello stesso tempo, che mălĕ hăbĭtus è un calco del greco κακῶς ἔχειν (kakòs èchein, stare male), di cui abbiamo testimonianza letteraria mediante le Rane di Aristofane.

ΔΙ. Μὴ σκῶπτέ μ’, ὦδέλφ’· οὐ γὰρ ἀλλ’ ἔχω κακῶς·

τοιοῦτος ἵμερός με διαλυμαίνεται.

ΗΡ. Ποῖός τις, ὦδελφίδιον;

ΔΙ. Οὐκ ἔχω φράσαι (…)

DI. Me skòptè m’, òdèlph’; ou gar all’ècho kakòs;

toioùtos hìmeròs me dialymàinetai.

ER. Pòiòs tis, òdelphìdion;

DI. Ouk ècho phràsai (…)

[Dioniso: Non prendermi in giro, fratello, davvero sto male; tale è il desiderio che mi strugge.

Eracle: Di che genere, fratellino?

Dioniso: Non so dirlo (…) (ARISTOFANE, Rane, 58-61, trad. nostra, a cura di D. Del Corno, 2006, Fondazione L. Valla, Mondadori, Milano, p. 16)].

In questo quadro di ricomposizione storico-lessicale, giova sapere che i Greci utilizzavano i termini νόσημα (nòsema), πάθημα (pàthema), νόσος (nòsos), πάθος (pàthos) per denotare il proprio malessere, laddove i Latini, molto più generosi, a seconda della condizione psicofisica del soggetto, avevano un’ampia scelta: morbus, aegritudo, valetudo (che significa anche salute), infirmitas, debilitas, imbecillitas, languor, malum, taedium et cetera. È interessante documentare che, mentre oggi, col termine malattia, siamo soliti indicare un’alterazione generale dell’organismo, senza fare cioè alcun riferimento specifico alla natura d’una qualche patologia, in passato, invece, come si legge anche nel GDLI, quando si diceva malato, di fatto, s’intendeva lebbroso.

Nello Statuto di Siena del 1262, redatto ancora in latino tardo, malato assume, per l’appunto, il significato specifico di lebbroso

CXI: Ne aliqua exatio fiat alicui domui malagdorum pro aliqua via sternenda vel actanda

CXII: Ut nunctius malagdorum de Tercole possit ire per civitatem cum campanella et non aliorum

[111: Non si imponga ad alcun ospedale di lebbrosi alcuna riscossione di tasse per spianare o attuare qualche via (modo)

112: Il nunzio dei lebbrosi di Terzole e non d’altri possa andare per la città con una campanella (Il Constituto del Comune di Siena dell’anno 1262, a cura di L. Zdekauer, 1897, Hoepli, Milano, p. 51)].

Malato e malattia, nell’italiano contemporaneo, sono termini d’una pratica vastissima e polifunzionale, tanto che tutti noi, con estrema disinvoltura, ne facciamo un uso ora proprio ora figurato, senza che ciò comporti alcuna difficoltà di comprensione. Non ci vuole, infatti, particolare impegno mnemonico a rammentare le collocazioni che li riguardano: “amore malato”, “fanatismo malato”, “ego malato”, “malato di mente”, “sole malato” e così via. In realtà, già nel XIII secolo, nonostante le differenze che abbiamo descritte, l’insieme semantico era quasi completo. Per averne prova basta leggere le occorrenze che abbiamo scelte. Nella prima, tratta dai versi di Mazzeo di Ricco, il senso di malato è chiaramente quello proprio, quello di colui che ha perduto la salute e, nel tornare alla salute, preferisce abbandonare all’oblio (“obria”) il male passato; nella seconda, Guittone lamenta la decadenza di Arezzo e ammonisce i concittadini a porre sollecitamente rimedio al male; di conseguenza, il sostantivo malato serve all’autore per elaborare un’elegante metafora della sofferenza sociale e politica; nella terza ed ultima, il senso figurato di malato esprime l’incontrastabile pena che affligge coloro che amano e che ha attraversato la storia della letteratura universale.

S’eo tardi mi so’ addato / delo meo follegiare, / tengnomene beato, / poich’io sono a lasciare / lo mal, che mi stringia: / ché l’omo, ch’è malato, / poi che torna in sanare, / lo male c’à passato / e Io gran travalgliare, / tutto mette in obria [Mazzeo di Ricco, Sei anni ho travagliato, LXXXII, 19-28, in Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice vaticano 3793, vol. 1, a cura di A. D’Ancona, T. Casini, D. Comparetti, 1875, Romagnoli, Bologna, p. 464].

È folle il malato, / ch’el dolor de l’enfertà sua forte / e temenza di morte / sostene avanti che sostener voglia / di medicina doglia [GUITTONE D’AREZZO, Ahi, dolze terra aretina, XXXIII, 122-126, in Le Rime di Guittone d’Arezzo, a cura di F. Egidi, 1940, Laterza, Bari, p. 92].

A tale donna ongn’om sia servidore, / che ’l ben malato fa divenir sano. / Di quella malatia chi n’è malato, / ciò è avareza e poca canoscienza, / con lei nom pò aver presgio ned aonore [MINALDO DI NALDO DA COLLE, Qualunque è quegli c’ama pregio e aonore, DCCCLXII, 7-11, in Le antiche rime volgari secondo la lezione del Codice Vaticano 3793, vol. V, a cura di T. Casini, 1888, Romagnoli-Dall’Acqua, Bologna, p. 165].

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