La vergogna nasce dall’osservare

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col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Intorno al secondo anno di vita, il bambino sviluppa le emozioni sociali o secondarie [BERTI, E., BOMBI, A. S., 2005]: ne fa parte la vergogna, che, al pari dell’allegria, della gelosia o dell’invidia et cetera, è, per certi aspetti, l’esito di una scissione a causa della quale la dimensione ideale del sé è posta in contrasto con quella reale. Ciò accade, prevalentemente, perché cominciano ad osservarsi dei modelli di riferimento rispetto ai quali l’autovalutazione subisce, continuamente e incessantemente, una sorta di ‘giudizio’. Quest’ultimo, naturalmente, non è diretto, esplicito, non proviene cioè da un preciso frasario che possa considerarsi ingiurioso nei riguardi d’un qualsivoglia soggetto vulnerabile, tanto più che il soggetto che prova vergogna non è in grado di riferire frasi quali origini del proprio malessere. La vergogna, dunque, come affermano gli studiosi di psicologia, si forma nell’ambito di comportamenti comuni e che, in generale, appartengono ai gruppi in seno ai quali si afferma l’identità dell’individuo; essa si fa tanto più imponente e opprimente quanto più il desiderare di essere prevale sull’essere e sulle sue genuine caratterizzazioni. Questa premessa ci fa comprendere immediatamente che il ‘modo di vergognarsi’, per così dire, varia a seconda dei contesti culturali in cui si vive. È ormai noto, per esempio, che, in molti paesi arabi, si può mangiare con le mani e, consumato il pasto, si può esprimere apprezzamento emettendo rumorosamente aria dalla bocca. Dalle nostre parti, entrambi i gesti sarebbero molto sconvenienti e, qualora si ruttasse per errore, ci si lascerebbe seppellire dalla vergogna. Di là dalle ovvie e indiscutibili differenze o dalle acquisizioni comportamentali, tuttavia, occorre fare una considerazione un po’ in controtendenza: se è vero che esiste un processo di formazione della vergogna e che questa non può essere primaria come la rabbia, la paura o la gioia, sembra per lo meno plausibile che essa rappresenti un che di archetipico nell’inconscio dei popoli: in pratica, cambia il modello, ma l’emozione è atavica. Ce ne dà conferma la letteratura.

Nel VI libro dell’Iliade (441-443), Ettore, incalzato dalla moglie Andromaca, che lo supplica di non affrontare il duello con Achille perché la sua eventuale sconfitta la renderebbe schiava dei Greci, risponde con le seguenti parole:

“ἦ καὶ ἐμοὶ τάδε πάντα μέλει γύναι· ἀλλὰ μάλ’ αἰνῶς /  αἰδέομαι Τρῶας καὶ Τρῳάδας ἑλκεσιπέπλους, / αἴ κε κακὸς ὣς νόσφιν ἀλυσκάζω πολέμοιο·”: e kai emòi tàde pànta mèlei ghnai; allà màl’ainòs / aidèomai Tròas kai Troàdas helkesipèplous / ai ke kakòs hos nòsphin alyskàzo polèmoio [“A tutto questo io penso, donna, ma terribilmente / mi vergognerei di fronte ai Troiani e alle Troiane dai lunghi pepli, / se come un vile mi tenessi lontano dalla battaglia (OMERO, Iliade, VI, 441-443, a cura di G. Paduano, 2007, Mondadori, Milano, pp. 196-197)].

È, questo, uno tra i numerosi esempi grazie ai quali, nell’Iliade, possiamo ricostruire il modo di sentire proprio dei Greci, che l’antropologo Eric Dodds, nella propria opera, I Greci e l’irrazionale, interpreta come proprio della shame-culture [1951, pp. 59-60], società di vergogna, cui si contrappone la guilt-culture, società di colpa. In buona sostanza, secondo Dodds, le società sono ordinate secondo due possibili deterrenti: il divieto e il modello. Nelle guilt-cultures, l’individuo si astiene dal commettere atti illeciti in ottemperanza ai divieti, che generano in lui il senso della colpa; nelle shame-cultures, invece, l’individuo si mantiene virtuoso grazie all’esempio di modelli, contravvenendo ai quali incorre nel senso della vergogna. Nella cultura greca, di cui in parte ci stiamo occupando, l’ἀρετή (aretè, virtù), comportava anche una specie di sfida ininterrotta e un elevato livello di tensione, poiché l’uomo ἀγαϑός (agathòs, nobile, forte, valoroso, capace) doveva mostrare d’essere il migliore: egli doveva possedere doti essenziali, quali la forza, il coraggio, l’astuzia e, non meno importante, l’abilità di parola, come si coglie sempre nell’Iliade [IX, 442-443], dove si narra che Fenice, precettore di Achille, gli aveva insegnato a essere “buon parlatore”. Essere forti e coraggiosi implicava, in primo luogo, lo sprezzo della morte, che, ottenuta in guerra, era fonte di τιμή (timè, onore). La letteratura è piena di testimonianze in merito, a partire dall’adagio spartano recitato dalle madri ai figli che partivano per la guerra, ai quali esse auguravano la morte onorevole in guerra, “sopra o sotto lo scudo” [PLUTARCO, Apoftegmi di donne spartane (trad. di I. Berti), in Proverbi, sentenze e massime di saggezza in Grecia e a Roma Tutte le raccolte da Pitagora all’Umanesimo, a cura di E. Lelli, 2021, Bompiani, Milano, pp. 628-629]. Ancora, vale la pena di ricordare Tirteo e Callino, i poeti lirici che inneggiano al valore della guerra e all’onore che essa procura a chi la combatte. La forza e l’onore regolavano anche i rapporti sociali, nei quali, per l’agathòs, era inconcepibile, secondo i modelli proposti, subire offesa: essa andava vendicata proprio attraverso la forza, che doveva superare quella dell’offensore: Oreste attua la propria vendetta contro l’offesa di Egisto, che ha ucciso suo padre Agamennone, pugnalandolo a propria volta [APOLLODORO, I miti greci (Biblioteca), Epitome 6, 23, a cura di P. Scarpi, trad. di M. G. Ciani, 1996, Fondazione L. Valla, Mondadori, Milano, pp. 390-393].

Il meccanismo di controllo sociale basato sulla vergogna derivante dalla trasgressione dei modelli proposti presenta, per così dire, due modi di vergognarsi, che, nell’Iliade, trovano espressione, rispettivamente, nei termini αἰδώς (aidòs, pudore, modestia, rispetto, vergogna) ed ἐλεγχείη (elenchèie, ingiuria, rimprovero).

L’αἰδώς è, propriamente, la vergogna personale, ovvero un sentimento che l’eroe prova tra sé e per sé a causa del proprio comportamento deviante dal modello; invece, l’ἐλεγχείη corrisponde all’infamia, ovvero un sentimento di vergogna sociale, che si esplica attraverso la δήμου φῆμις (dèmou phèmis, voce popolare): αἰδώς ed ἐλεγχείη sono forme di vergogna che agiscono con la stessa intensità, come spinte, rispettivamente, interna ed esterna, a garantire che l’eroe o l’uomo agathòs si mantengano saldi nei propri propositi e cerchino in ogni modo di non fallire. In tutti i passi dell’Iliade in cui vi si fa riferimento, in ogni caso, aidòs ed elenchèie sono sentimenti che riguardano unicamente l’agathòs, dato che i poveri non possono provare vergogna. Non provandone, essi non sono spinti a emulare il modello dei più forti e, di conseguenza, non riusciranno mai a farne parte. Insomma, il mondo eroico non è per i poveri e ciò sancisce, a ricaduta, anche il fatto che essi devono rimanere sottoposti agli agathòi, garantendo così stabilità alla piramide sociale greca.

Va altresì precisato che la società greca dell’Iliade non è in maniera assoluta una shame-culture – di fatto, nessuna shame-culture lo è in maniera assoluta –, dato che in essa, stando sempre alla fonte omerica, troviamo anche precise prescrizioni e specifici divieti che la avvicinano, in minima parte, alle guilt-cultures. La mancata osservazione di tali divieti si traduceva in una punizione divina e la prima ragione per cui essa poteva verificarsi era l’offesa arrecata a un dio col peccato di hbris (eccesso, insolenza, violenza, sfrenatezza). Insomma, s’imponeva, tra uomo e dio, lo stesso protocollo di comportamento che intercorreva tra agathòs e uomo comune, basato sulla necessità del rispetto e dell’obbedienza da parte del subalterno verso il superiore. Dunque, peccare di superbia nei confronti di chi era ‘sopra’ era motivo di punizione. Allo stesso modo in cui, per l’eroe, il riconoscimento del proprio onore era il privilegio di un bottino maggiore, così, per gli dei, il riconoscimento del loro onore doveva consistere in offerte di sacrifici: venir meno all’alto e solenne impegno era colpa gravissima.

La severità con cui il legislatore omerico-iliadico designa i ruoli comunitari, politici ed esistenziali, molto probabilmente, risulta quasi intangibile e imperscrutabile per chi ne è emotivamente e storicamente lontano, quanto può esserlo il locutore contemporaneo, il quale, parlando della vergogna, molto di rado fa riferimento al contrasto dialettico stridente tra un uomo e l’altro o, addirittura, tra uomo e dio. Si potrebbe essere spinti a credere che si tratti di una società amorale, classista e, per lo più, disumana. Di fatto, non è esattamente così, giacché certi primati si guadagnano col sangue: appare esemplare il caso di Achille, sicuramente il più forte degli eroi, che il poietès fa morire per mano di un pusillanime, quel Paride che di certo non è noto per l’eroismo. Achille è costretto ad andare incontro al proprio destino, pur potendo scegliere una vita lunga a capo dei Mirmidoni. A ogni modo, ciò che possiamo acquisire dalla rilettura dell’Iliade e che s’impone come incontrastabile memento nella società contemporanea è l’oscura inclinazione al dover essere, una dialettica tra l’immagine che ciascuno ha di sé e il bisogno filogenetico di superarla in relazione a un’immagine ‘altra’. La vergogna, dunque, è un che di fenomenologico, si forma in funzione di ciò che osserviamo. Questa pragmatica del linguaggio delle emozioni, che sembra tradire i concetti di turbamento e disagio diffusi dai nostri vocabolari, in realtà, appartiene già alla radice indoeuropea da cui il sostantivo deriva: *swer- / *swor- significa prettamente osservare, fare attenzione, come si evince dagli studi di Pokorny [2007]. Se, come abbiamo fatto intuire, un vocabolario ricco e attendibile come Treccani, che il lettore può consultare pure online, descrive la vergogna come “sentimento più o meno profondo di turbamento e di disagio suscitato dalla coscienza o dal timore della riprovazione e della condanna (morale o sociale) di altri (…)”, il TLIO (Tesoro della lingua italiana delle Origini), diversamente, tra le definizioni, contempla anche la seguente: “riservatezza, attenzione alla misura dei gesti e delle parole, pudore”. In pratica, quindi, quest’ultima voce potrebbe apparire del tutto slegata dallo stato d’animo indicato da Treccani. Nello stesso tempo, tuttavia, il lettore non farà fatica a collegare l’attenzione alla misura dei gesti e delle parole al fare attenzione della radice suesposta. Di conseguenza, prima di tutto, provare vergogna, di qua dall’adattamento semantico, vuol dire osservare attentamente qualcuno o qualcosa, a tal punto da trarne un modello di comportamento. Il termine latino da cui vergogna deriva, vĕrēcundīa, si traduce, sì, con vergogna, ma anche con riservatezza, moderazione, discrezione e, addirittura, stima. A propria volta, vĕrēcundīa deriva dal verbo vĕrēri, che ha una ricchissima struttura di significato: rispettare, guardare con timore, darsi pensiero, domandarsi con preoccupazione et cetera.

ALC. Per supremi regis regnum iuro, et matrem famílias Iunonem, et vereri quam me et metuere est par maxume, ut mi extra unum te mortalis nemo corpus corpore contigit, quo me inpudicam faceret [ALCMENA. Sul regno del re del cielo e sulla madre di famiglia Giunone, la quale massimamente rispetto e temo, io giuro che nessun mortale all’infuori di te tocco col (suo) corpo il (mio) corpo per rendermi impudica (PLAUTO, Anfitrione, 831-834, trad. nostra, Commedie di M. A. Plauto volgarizzate da P. Donini, vol. V, 1846, Manini, Cremona, p. 94)].

Custos virtutum omnium, dedecus fugiens laudemque, maxime consequens, verecundia est [La modestia è custode di tutte le virtù, che fugge il disonore e segue massimamente la lode (CICERONE, De partitione oratoria, XXIII, 79, trad. nostra, in Cicero, De oratore III, De fato, Paradoxa stoicorum, De partitione oratoria, a cura di H. Rackam, 1960, W. Heinemann, London, Harvard University press, Cambridge, p. 368)].

In Plauto, il verbo vĕrēri non può rendersi altrimenti che con rispettare, cioè con un sentimento di riguardo che siamo soliti mostrare a qualcuno di cui abbiamo stima, mentre, in Cicerone, vĕrēcundīa si traduce propriamente con modestia, una qualità che possiamo mostrare riconoscendo i nostri limiti ed evitando di superarli, sebbene il concetto di limite dipenda sempre dall’osservazione di regole e modelli. In ciascuna delle opportunità glottologiche, come si può notare, il nucleo semantico, è sempre l’osservare: non a caso, il verbo greco ὁράω (horào, vedo, osservo) nasce, anch’esso, da *swor-. Se, a tal proposito, volgiamo l’attenzione verso un sostantivo greco che deriva dalla stessa radice, ovverosia verso ἔφορος (èphoros, supervisore, custode), possiamo cogliere il valore della significazione originaria dell’osservare. L’eforato era, a Sparta, ma anche in altre città di origine dorica, la magistratura più importante ed era esercitata da cinque efori, uno per ognuna delle tribù spartane, eletti annualmente dall’apella, l’assemblea di tutti gli Spartiati che avevano compiuto trent’anni. Essa risalirebbe, secondo Erodoto (I, 65), al leggendario legislatore Licurgo, tra il IX e l’VIII sec. a. C., anche se, come ci dice Plutarco, dalle cui Vite parallele traiamo varie notizie, tutto ciò che conosciamo di questo personaggio è incerto e controverso. Forse, inizialmente, gli efori nacquero col compito di selezionare cittadini adatti alla guerra, di interpretare gli oracoli e di tutelare l’ordine sociale, vigilando sul rispetto delle regole civili. Nel tempo, il loro potere crebbe moltissimo, tanto che, in età classica, essi, in pratica, ebbero in mano il governo della pòlis. Esercitavano, infatti, il potere giudiziario nei processi civili e in quelli capitali contro i perieci (i liberi senza diritti civili, discendenti degli Achei) e gli iloti (i non liberi, discendenti dei ribelli Messeni), ma avevano anche il diritto di controllo sui cittadini e finanche sui re, che essi seguivano durante le campagne militari (per controllarli) e che potevano arrestare, mandare a processo e condannare, qualora li avessero ritenuti responsabili di condotta non idonea al ruolo ricoperto. Ancora, gli efori indicevano le assemblee dell’apella, le presiedevano e avevano anche il controllo sulla gherusia (il consiglio di 28 Spartiati di almeno 60 anni, che avevano il compito di proporre le leggi e di giudicare i reati più gravi). Anche se l’eforato fu formalmente abolito solo nel II secolo d.C. dall’imperatore romano Adriano, si può immaginare facilmente che lo strapotere acquisito nel tempo guadagnò loro l’ostilità regia, decretandone, a poco a poco, il declino.

A fronte di questa breve escursione storico-politica, è bene precisare, anzitutto, che il termine greco ἔφορος (èphoros) è composto da ἐπί (epì, intorno) e ὁράω (horào, osservo); la qual cosa ci riporta all’attività principale e determinante che gli efori svolgevano in qualità di supervisori e di cui, nel tempo, come abbiamo visto, hanno abusato: il controllo. Chi è in grado di osservare ciò che accade può anche giudicare la sorte degli uomini, non altrimenti che se detenesse il potere dell’antivergogna.

Invece, in un contesto poetico-romanzo, che acquisiamo dall’antologia curata da Gianfranco Contini [1960], il processo di osservazione sembra già bell’e superato e il modus linguistico è molto vicino, se non addirittura identico, al nostro:

(…) Qi parla pur quando ie bisogna, / ki parla ben enlora, mai no tema vergogna [PATECCHIO, G., Splanamento de li proverbi di Salomone, 71-72, in Poeti del Duecento, tomo I, a cura di G. Contini, 1960, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 563].

Se, a questo punto, senz’alcuna considerazione introduttiva, affermassimo che il servo nasce come osservatore, il lettore potrebbe mostrare anche un po’ di indisposizione e animosità; la reazione immediata potrebbe essere caratterizzata almeno da diffidenza. I servi, quantunque scomparsi nella più parte delle comunità civili contemporanee, sono raffigurati come coloro che svolgono umili mansioni, soggetti alla volontà di un padrone. Risulta difficile, quindi, credere che possano essere degli osservatori. Forti di questa consapevolezza, ci affidiamo direttamente alle parole di Nocentini e Parenti [2010]: “Il significato originario del latino servus è conservato dall’avestico pasus-haurvo, guardiano del gregge, e quindi garzone, custode dei beni del padrone, funzione assolta dagli schiavi nel mondo romano; l’azione verbale è espressa dal latino servare, custodire, osservare con attenzione (da cui serbare)”. Servus, come gli altri termini fin qui analizzati, appartiene alla famiglia semantica di *swer- / *swor- e il suo significato si esplica principalmente e originariamente nell’atto si osservare. Dello stesso parere sono Ernout e Meillet [2001], i quali fanno notare che il servo è colui che veglia. Ciò che sfugge agli studiosi, invece, è il passaggio di servus dal senso di guardiano a quello di schiavo. Questa etimologia è stata contestata da Benveniste [1969], che considera servus preso in prestito dall’etrusco. Questa lingua, infatti, presenta nomi propri che fanno capo alla base di servus nella forma Servi-, Serve- e lo schiavo pare essere stato un’istituzione dei popoli mediterranei, non di quelli indoeuropei. Il prestito da un’altra lingua per designare lo schiavo si giustificherebbe, secondo Benveniste, col fatto che nessun cittadino romano poteva essere schiavo di un altro romano e che, di conseguenza, gli schiavi erano necessariamente stranieri. Ciò valeva non solo per i Romani, ma anche per i Greci o per tutti i popoli indoeuropei, che praticavano esclusivamente l’esodulia, cioè la riduzione in schiavitù dei soli appartenenti a popolazioni straniere. Dunque, il servus non osservava e non proteggeva.

Noi, naturalmente, siamo nettamente a favore della tesi di Nocentini-Parenti ed Ernout-Meillet. Riteniamo, infatti, che accettare la proposta di Benveniste significherebbe non tenere conto di alcuni processi fonologici e morfologici essenziali ed evidenti, tra i quali la relazione tra il sigma e il digamma, la funzione o la caduta dello stesso digamma in alcune glosse e, per l’appunto, la conseguente funzione dell’approssimante in *swer-.

Prior promeritus perpetiare. Servam operam, linguam liberam eru’ iussit med habere [Pegnio: tu per primo soffri, visto che te lo sei meritato. Il padrone mi ordinò di operare da servo e di parlare da libero (PLAUTO, Persa, II, 4, 9-10, trad. nostra, in Comoediae, a cura di G. Goetz e F. Schoell, fasc. V, 1896, Teubner, Lipsia, p. 90)].

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