Il mondo, anche a San Valentino, ha paura degli amanti

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Il mondo – non è un caso – ha sempre temuto gli amanti, finendo col trucidarli, ma ogni essere umano, senza farsi notare, ne ha suffragato l’eterna beatitudine.

La tendenza alla condanna di ciò che, con impertinenza e irresponsabilità, viene definito ‘adulterio’ è la cifra sociale di un delirio semantico e religioso. La comunità civile ha bisogno di vittime per sopravvivere a sé stessa, vuole nominare il male e non c’è imputato migliore di chi si sottrae al matrimonio, laddove il presunto adultero, al contrario, anche se non sempre, un riformista, uno stratega del godimento, un equilibrista, un sapiente.

G. Previati, Paolo e Francesca, 1887

Il desiderio autentico si compie come oltraggio alla virtù comune e come atto mefistofelico. È il perfezionarsi della pura infedeltà, consiste nel tradire sé stessi per continuare ad amarsi e comincia nell’esatto momento in cui riusciamo a riconoscerci in segreto: noi e gli amanti; noi e il bacio nascosto; noi e il piacere innominabile.

Gli adulteri veri sanno impreziosirsi dell’attimo e condividere orgasmi oracolari perché stanno sempre oltre la condivisione stessa, nei luoghi in cui il mondo è fatto solo per loro: è vero, camminano su corde sospese a diversi metri dal suolo, mentre la folla, da basso, attende solo lo spettacolo della rovinosa caduta, ma ciò che essi vedono da lassù non è concesso a pavidi e pigri.

Bisognerebbe imparare a vedere la mobilità incessante delle cose, la natura riflettente d’una pozza d’acqua, la direzione d’uno dei tanti rami sporgenti d’un albero di limoni, le forme lasciate dalle impronte sugli specchi, la danza delle somiglianze tra coloro che incontriamo per strada, i modi, figurati o espliciti, con cui gli uomini denunciano o nascondono la propria sofferenza, bisogna imparare tutto questo e tanto altro ancora per potere riconoscere che l’eccitazione d’un corpo è dedicata a noi.

In pratica, bisogna imparare a tenersi ai margini di quei giardini dove passeggiano signore oziose e signori impettiti e che si esercitano instancabilmente nell’arte della privazione, spacciandola per virtù.

Basterebbe che ci si unisse bestialmente sull’antica pietra, quella dei primi rituali iniziatici, per scoprire che l’unione è fatta per chi sa vendicarsi di sé stesso e della propria presunzione.

Spesso, alcuni di noi cercano conforto nella letteratura, ma non ne ricaviamo un granché: Dante dedicò la vita a una donna che non poté mai possedere, Petrarca non fu da meno, Leopardi s’impegnò pure a innamorarsi d’una donna vera e propria, ma di fatto non riuscì neanche in quest’impresa.

Se cambiamo profilo e chiamiamo in causa un Bukovskj, accostandoci a lui unicamente per la nomea e il successo di pubblico, scopriamo un autore che quasi insulta il corteggiamento e la conquista e non possiamo fare a meno di pensare che tanta rabbia provenisse da un grande disagio.

Fin da piccoli, siamo stati istruiti a mentire, siamo stati costretti a non dire che vogliamo toccare e vedere. Noi sappiamo per mestiere di non dover dire che vogliamo godere e, soprattutto, sappiamo che non è prova d’eleganza o intelligenza dirlo. Se Amleto avesse fatto l’amore con Ofelia, anziché farla impazzire, molto probabilmente la tragedia sarebbe finita in commedia.

Dai più si dice che un certo gusto erotico è dato anche nell’attesa e nella privazione, ma l’attesa e la privazione sono unicamente delle negazioni dell’essere o, diversamente, modi del rinvio, della necessità imponente e, talora, dell’incapacità di amare.

Noi sappiamo solo dire che qualcuno merita un privilegio o, diversamente, una lode speciale; tuttavia, nello stesso momento in cui lo diciamo, lasciamo morire nel linguaggio ogni principio d’azione, convinti, tra le altre cose, di aver agito e d’averlo fatto nel migliore dei modi possibili.

Gli amanti, quelli veri, quelli che possono fare a meno di inni e musichette, sanno far l’amore pure nei peggiori bar d’un quartiere degradato, senza perdere mai grazia e riservatezza, giacché hanno cominciato a conoscersi – loro e non altri – toccandosi.

Nell’oscurità d’una masseria abbandonata, che diciamo di aver raggiunta per caso, girando a zonzo in un tardo pomeriggio di noia, ci disponiamo all’ascolto del calpestio, che fino al giorno prima sarebbe stato solo un rumore, ma che adesso è sussurrio eccitante: sembra allora che, tutt’intorno, alberi, vento, uccelli, formiche, mosche e finanche le pietre o la stessa terra entrino dentro di noi con una marcia trionfale orchestrata dai migliori strateghi ateniesi e spartani. Fingiamo di voler capire, ma sappiamo che non è utile farlo.

Ci sentiamo tirare per un lembo della nostra maglia, che si stacca dal bacino dov’era stata fissata per compostezza. Dal nostro grembo apprendiamo che qualcuno è con noi, scorre su di noi in turgore e umidore. Continuiamo a resistere all’istinto di reagire perché per tutta la vita non abbiamo preteso altro che questa passività infinita o, diversamente, una certa occasione d’abulia e ci ritroviamo denudati o discinti dalla vita in giù, senza che sia stato necessario inventare le metamorfosi dell’esitazione e del rinvio.

È questo il punto in cui afferriamo l’altro per portarlo a noi e misurarne l’appagamento e l’orgasmo. L’uno stretto all’altra, vogliamo solo accertarci che saremo in grado di ripetere pedissequamente ogni gesto per un nuovo appuntamento che, nostro malgrado, non possiamo fissare. Deve accadere e noi possiamo solo sperare.

Desiderarsi e amarsi è un po’ come avere la fede granitica e spossante dei mistici, la visione messianica dei profeti martiri, la penetrante intuizione dei mentori omerici, che, non a caso, erano ciechi.

‘Adesso, basta!’: sarebbe il caso d’incidere questa formula imperativa su tutti i diari segreti degli essere umani, ma occorrerebbe farlo, quando fossero adolescenti e cominciassero a convincersi d’avere un certo credito nei confronti della natura.

M. Klinger, Il bacio della sirena, 1895

Guardare il mare e dichiarare d’amarlo o d’esserne affascinati, senza averne mai domato le onde a bordo d’un’imbarcazione di fortuna e, soprattutto, a largo, presso i grandi banchi, dove scompaiono misure e grandezze protettive, equivale a gloriarsi d’un titolo che non si possiede.

Fin da piccoli, siamo indottrinati con malevolenza nell’arte patetica dell’ammirazione e dello scimmiottamento, che altro non è, fuorché una variante della pusillanimità e della pigrizia: si esalta ciò che resta a debita distanza da noi e che, per ciò stesso, appare elevato e nobile.

Dunque, impariamo a menadito interminabili elenchi di parole astratte: amore, amicizia, bellezza, anima et similia; ne abusiamo fino al momento in cui, per difetto di memoria ed esaurimento, cominciamo a ripeterle daccapo perché siamo iniettati di petrarchismo e stilnovismo. Nessuno ci ha mai fatto notare tuttavia che il sublime Petrarca, l’imponente Dante o il raffinato Leopardi, pur qualificandosi come poeti inarrivabili, erano irredimibili voyeur travestiti da sacerdoti della delicatezza.

La maggior parte del nostro desiderio oscilla inelegantemente tra le rinunce e lo spreco, tra le figure della speranza e quelle dell’afflizione; in poche e povere parole, esso è nevrastenico.

Lo è, in primo luogo, perché nessuno di noi possiede più lo spirito messianico e la furia dell’eroe cavalleresco a capo dell’avanguardia. In secondo luogo, è così e non può essere altrimenti perché – per dirla con Platone – siamo imitatori delle cose reali: avere un’intuizione su qualcuno che possa farci godere per noi significa iniziare un cammino a ritroso alla ricerca di predicati e nomi protettivi, rifuggendo dagli aggettivi, spesso troppo impertinenti e ambigui.

Ciò che per natura è protettivo è, nello stesso tempo, narrabile, si può, per l’appunto, raccontare ad altri e si sa che non c’è alcunché di più confortante e rassicurante che il poter dire qualcosa a qualcuno. Non siamo fatti per custodire un segreto, laddove l’intuizione non è altro che un segreto, un che d’inenarrabile, specie quella che ci conduce rapidamente all’eccitazione.

Noi, di fatto, siamo tutti sposati, lo siamo anche quando non lo siamo per legge.

Siamo sposati per genesi e ontologia; è connaturata in noi l’idea di essere bravi e buoni e la presenza, istituzionale o fittizia, di qualcuno che faccia da barriera morale ci aiuta a non morderci troppo spesso mani per via di tutte interruzioni di cui siamo responsabili, interruzioni che, in realtà, sono delle piccole morti. Sappiamo di non essere d’accordo con noi stessi, ma questo sembra non contare molto.

Dunque, battute su battute e la chat è gremita, più di fantasie che di promesse incrollabili: il collo non s’umetta né le pelvi s’incontrano. È così che ogni bacio e ogni incontro sono rinviati affinché si continui a dire di avere resistito fieramente e santamente. Occhi, glutei, piedi, seni, mani e cosce sono confinati nella distanza e ciò che s’intuisce come piacevole è respinto. Questo preludio d’eros equivoco è solo la metamorfosi dell’attesa che qualcosa accada, di una mano che incontri la nostra, di uno sguardo che si fissi sul nostro viso, di labbra che percorrano i nostri confini.

Eppure, in queste condizioni, siamo abbastanza sicuri di non poter essere mai sicuri. Attendere qualcuno è un po’ come cercare il volto di Dio tra i viandanti di un mercato

Gli amanti, quale che ne sia l’accezione, matrimoniale, extraconiugale, occasionale, devono sapersi spogliare tra le ombre altrui, devono essere in grado d’insinuare una mano sotto il tavolo alla presenza di commensali ignari, devono essere capaci di trasformare il sedile d’un auto in una suite imperiale. Gli amanti sono un compromesso esemplare, uno dei pochi grazie ai quali l’esistenza è fenomeno affascinante.

Se una domenica qualunque, andando a messa, sapessimo di dovere incontrare, qualche ora dopo, la nostra o il nostro amante, sicuramente accoglieremmo con rinnovato entusiasmo l’invito alla pratica della buona novella.

 

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