Che cosa faceva Dante nella propria cameretta?

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Siamo fatti male: bisogna ammetterlo! Abbiamo un incontenibile bisogno di figure del riscatto e della compensazione, educati, come siamo, ad osannare ora all’uno ora all’altro dei geni letterari che la scuola ci propone. Sul contenuto di certe opere, be’, nulla da eccepire! Il caso di Dante è sicuramente ineguagliabile e, a dire il vero, è difficile trovare qualcuno che possa dirne male. Anzi, qualora accadesse, non faremmo fatica a parlare d’ingiustizia, incongruenza, ignoranza et similia. Tuttavia, dall’onestà intellettuale all’idolatria il passo è breve, anzi brevissimo. Insomma, un mito non si tocca: sembra che si abbia più scrupolo per questa norma – filogenetica e, a tratti, inspiegabile – che per qualsiasi altra voce di un codice penale o religioso. Di conseguenza, se noi osiamo dire che La vita nova di Dante, di qua dal magistero poetico, è il resoconto clinico di un’ossessione amorosa prossima alla nevrosi e dell’autoerotismo di uno sventurato che, con le donne, mostra d’avere un bel po’ di problemi, allora – se, per l’appunto, diciamo tutto questo – rischiamo di essere messi in croce o mandati al rogo. Nel migliore dei casi, comunque, perderemo quel minimo di buona reputazione guadagnata in tanti anni di fatiche scientifiche. Non importa.

Proviamo a seguire ciò che scrive il maestro attingendo da “quella parte del libro de la memoria” [I, p. 27].

Già nel secondo dei quarantadue paragrafi che compongono l’opera, redatta in prosa, ma corredata di venticinque sonetti, cinque canzoni e una ballata, Dante c’informa di avere visto Beatrice, per la prima volta, a nove anni [“(…) ed io la vidi quasi de la fine del mio nono” (II, p. 30)] e aggiunge: “D’allora innanzi dico che Amore signoreggiò la mia anima (…)” [ibid., pp. 32-33]. Di qui, gli storici della letteratura si fanno in quattro per incantare gli studenti, descrivendo le trame d’un amore simbolico-allegorico e spirituale o ricostruendo il raffinato modello del dolce stil novo. A noi, a dire il vero, sembra preoccupante che un bambino di soli nove anni fissi così morbosamente nella propria memoria l’immagine d’una ragazzina, a tal punto da tormentarsi e tormentarla per tutta la vita. All’epoca, Beatrice, nata nel 1266, aveva otto anni circa ed era d’un anno più piccola del suo potenziale ‘stalker’, nato nel 1265. Sì, ce ne rendiamo conto, usare il termine stalker per Dante pare una scelta ingenerosa, sconveniente e incivile, ma i fatti, purtroppo, sono innegabili. Di certo, aveva qualche disagio.

Nove anni dopo, infatti, la vicenda si fa problematica. Fintantoché il poeta era privo di autonomia, Beatrice, in qualche modo, era salva e poteva godere d’una passeggiatina in santa pace. “Poi che furono passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appresso l’apparimento soprascritto (…)” [III, p. 35], invece, la povera ragazza non ebbe più scampo. Sulle antologie, che noi, da scolari, con tanto zelo e altrettale ammirazione studiamo, sarebbe disdicevole scrivere certe cose o anche solo fare delle allusioni. Però, immaginiamo, anche solo per un istante, che cosa penseremmo di qualcuno che, per il semplice fatto di essere salutato da una ragazza, incontrata per caso, andasse a rinchiudersi nella propria camera a sfinirsi in pratiche autoerotiche non precisate.

“(…) Questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne (…) e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine. L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno (…) Come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puosimi a pensare di questa cortesissima.” [III, pp. 35-37].

È vero: Dante non fa esplicito riferimento alla masturbazione, per carità! Ma è altrettanto vero che, all’epoca, sarebbe stato impossibile anche solo il pensiero. Il guaio è d’altra natura: perché dobbiamo, a tutti i costi, fare astrazione dall’uomo, come se volgere lo sguardo verso la dimensione dei bisogni rappresentasse un che d’infamante? Non si capisce. Qualcuno, a questo punto, sarà già infastidito da questa interpretazione, che deve, comunque, essere intesa come un divertissement e null’altro. Se non riuscite a rilassarvi neppure per un attimo e trovate inviolabile tutto ciò che è codificato nelle sacre antologie, allora, come si suol dire, è il caso che vi facciate vedere da uno bravo.

Mentre noi divaghiamo, l’autore della Vita nova continua a stupirci. “(…) Onde io divenni in picciolo tempo poi di sì fraile e debole condizione (…)” [IV, p. 44]. Certo! Non è difficile intuire come sia potuto diventare in “picciolo tempo di sì fraile e debole condizione”. Non c’è dubbio: il tormento spirituale e intellettuale che lo spingeva a rifugiarsi dentro “lo solingo luogo d’una camera, a pensare di questa cortesissima”.

Forse, siamo irriverenti? Siamo pronti a subire la pubblica condanna. Cosa si può dire, tuttavia, di un tizio che segue pure in chiesa la donna desiderata e, di conseguenza, non le dà mai tregua? Oggi, non si esiterebbe a parlare di stalking e, probabilmente, non si commetterebbe alcun errore. Quel giorno, che Dante introduce scrivendo che la “gentilissima sedea in parte ove s’udiano parole de la regina de la gloria” [V, p. 46], viene fuori la figura della donna schermo, cioè una donna utilizzata per deviare l’attenzione da Beatrice. In pratica, siccome Beatrice Portinari era maritata, occorreva evitare i pettegolezzi. Nulla di più semplice che scegliere una qualsivoglia figura femminile sulla quale si potesse attirare l’attenzione facilmente. Tra le altre cose, Beatrice era legata a Simone de’ Bardi, appartenente a una storica famiglia di banchieri, non a chicchessia. Insomma, Dante era spacciato. “Con questa donna – scrive – mi celai alquanti anni e mesi (…)” [ibid., p. 47].

Tuttavia, come si suol dire in forma popolare, la ‘pacchia’ non durò a lungo: la donna schermo dovette allontanarsi dalla città e la gente cominciò a chiacchierare. In poche parole, a poco a poco, fu scoperto. Beatrice non la prese bene, tanto da negare a Dante il saluto: “(…) Mi negò lo suo dolcissimo salutare, ne lo quale stava tutta la mia beatitudine” [X, p. 68].  Quindi, possiamo dedurre non solo che Dante fosse ossessivo, ma pure che Beatrice non fosse affatto felice di ricevere le sue ‘velate’ attenzioni. Che fa il nostro, a quel punto? Torna ancora una volta nella cameretta! Che dire? Contento lui…

“Ora, tornando al proposito, dico che poi che la mia beatitudine mi fue negata, mi giunse tanto dolore, che, partito me da le genti, in solinga parte andai a bagnare la terra d’amarissime lagrime. E poi che alquanto mi fue sollenato questo lagrimare, misimi ne la mia camera, là ov’io potea lamentarmi sanza essere udito; e quivi, chiamando misericordia a la donna de la cortesia, e dicendo ‘Amore, aiuta lo tuo fedele’, m’addormentai come uno pargoletto battuto lagrimando.” [XII, pp. 71-72].

Il culmine del disadattamento e del disagio, dal nostro punto di vista, si raggiunge nel momento in cui un amico, probabilmente animato da sani propositi, vuole fargli conoscere delle donne. In quella circostanza, Dante, mostrando di possedere un acume incommensurabile, chiede: “Perché semo noi venuti a queste donne?” [XIV, p. 89]. Ora, passi pure la timidezza! Non possiamo fargliene una colpa. Ma la domanda a che? Mah! Naturalmente, l’amico gli risponde con garbo e, secondo noi, non senza ironia: “Per fare sì ch’elle siano degnamente servite” [ibid.]. Purtroppo, però, i buoni tentativi dell’amico finiscono in malora.

“(…) E temendo non altri si fosse accorto del mio tremare, levai gli occhi, e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice (…) Io dico che molte di queste donne, accorgendosi de la mia trasfigurazione, si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima (…)”. [ibid. pp. 90-92].

La mala sorte! Si sarebbe potuto distrarre un po’; invece, no! Ricompare Beatrice e il pover’uomo non ce la fa. Si badi bene: sotto nessun punto di vista! Cioè? Quale può essere, a questo punto, la più naturale delle conclusioni? Lasciamo al lettore lo spazio di lettura incondizionata.

“(…) E partitomi da lui, mi ritornai ne la camera de le lagrime (…)”[XIV, p. 92].

Ancora una volta, nella cameretta.

Quello che avrebbe dovuto essere un segreto, naturalmente, a causa di simili comportamenti, divenne presto tema di fecondo e inarrestabile mormorio popolare [“Con ciò sia cosa che per la vista mia molte persone avessero compreso lo secreto del mio cuore (…)” (XVIII, p. 109)]. Una tra le domande che gli vengono rivolte – bisogna ammetterlo – appare particolarmente sensata. Una donna, infatti, così lo interroga: “A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza?” [ibid. p. 110]. Saremmo tentati di non riportare la risposta di Dante per non far crescere i dubbi sulla sua controversa personalità, ma ciò parrebbe atto di scortesia. Pertanto, la riportiamo fedelmente: “(…) Lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna” [ibid. p. 111]. Si resta perplessi, a dire il vero: troppo spesso la spiritualità simbolico-stilnovistica si consuma nella cameretta.

Quando, poi, leggiamo il famosissimo sonetto “Negli occhi porta la mia donna Amore” [XXI, p. 138], il nostro imbarazzo cresce. La poetica – lo diciamo ancora una volta, a scanso di equivoci – non si discute. Però, se sappiamo che “ov’ella passa, ogn’om vèr lei si gira”, siamo indotti a pensare che ciò accada non perché il saluto di lei, come scrive Dante, faccia “tremar lo core”, ma perché, evidentemente, gli osservatori notano qualcos’altro. È mai possibile che tutti gli uomini siano d’animo così puro da girarsi verso Beatrice e ignorarne, per esempio, il fondo schiena?  Ci è stato insegnato, a scuola, che Beatrice “tanto gentile e tanto onesta pare (…) che li occhi no l’ardiscon di guardare” e noi, in teoria, dovremmo attenerci rigorosamente al dettato pedagogico-religioso, ma non si può negare che l’insegnamento sembri per lo meno illusorio o insussistente.

Purtroppo, Beatrice muore all’età di ventiquattro anni. E questa è una nota dolorosa. Dante esprime il proprio lutto con una canzone: “Li occhi dolenti per pietà del core” [XXXI, p. 198]. Il guaio è che il cordoglio dura davvero poco, tanto che ci riesce sempre più difficile credere al modello della donna angelo e alla sublimazione dei sentimenti. Il Dante dell’amore contemplativo non impiega molto a lasciarsi sedurre da un’altra donna.

“Onde io, accorgendomi del mio travagliare, levai li occhi per vedere se altri mi vedesse. Allora vidi una gentile donna giovane e bella molto, la quale da una finestra mi riguardava sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta”. [XXXV, pp. 218-219].

Più oltre, aggiunge:

“Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla, onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore, ed aveamene per vile assai. Onde più volte bestemmiava la vanitade de li occhi miei, e dicea loro nel mio pensiero: “Or voi solavate fare piangere chi vedea la vostra dolorosa condizione, ed ora pare che vogliate dimenticarlo per questa donna che vi mira (…)” [XXXVII, p. 224].

Egli stesso si meraviglia della superficialità con la quale sembra avere dimenticato Beatrice. Non è mica una nostra interpretazione. “Ricovrai la vista di quella donna in sì nuova condizione, che molte volte ne pensava sì come di persona che troppo mi piacesse (…)” [XXXVIII, p. 227].

Sì, forse, abbiamo rovinato un po’ il ritratto scolastico-ideologico di Dante Alighieri, ma di certo abbiamo assolto un compito: quello di restituire ai lettori liberi e coraggiosi un po’ di sano realismo, ricollocando anche il genio letterario in quella umana ‘cameretta’ che gli è propria e che tutti abbiamo usata come ‘rifugio’. Tra le altre cose, nel farlo, non abbiamo conquistato alcun primato. Personaggi ben più illustri di noi si sono già cimentati nell’impresa.

“(…) Apparve a me una mirabile visione, nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei.” [XLII, p. 246].

Meglio tardi che mai!

Testo di riferimento: Dante Alighieri, Opere minori, tomo I, parte I, a cura di D. De Robertis e G. Contini, 2004, Ricciardi, Milano – Napoli

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2 Replies to “Che cosa faceva Dante nella propria cameretta?”

  1. Mi si prospetta all’improvviso la possibilità di meravigliarmi, ancora una volta, davanti a chi mi conferma che “so pensare”. Qualche anno fa formulai, tra me e me ovviamente, un pensiero senza righe, improponibile ad altrui umani; la donzelletta…chissà se Giacomo la osservava mentre coglieva le viole e se un cespuglietto all’ombra potesse fungere da cameretta… Felice di aver fatto la Sua conoscenza, e condivido, Rosanna.

    Lico Rosanna says:
    1. Gentilissima Rosanna,
      la ringrazio del riscontro e mi dolgo d’essere stato intempestivo nella risposta. Di fatto, bisognerebbe smettere di idolatrare i grandi autori e privarli d’umana identità anche perché si rischia di snaturarne il profilo intellettuale. Ciò non implica, infatti, che la qualità delle loro opere sia inficiata. Mi permetto, a tal proposito, di consigliarle – se non lo ha già letto – “il genio della menzogna” di Noudelmann

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