L’ufficio tecnico

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Da tempo ormai, rinviava quell’impegno; s’era insinuato in lui un innominabile rifiuto che lo portava spesso alla dimenticanza e al quale seguiva un inspiegabile disgusto o, diversamente, una specie di apatia che rendeva le sue giornate faticose e poco sopportabili. Sì, è vero, di fatto, non brillava di certo per dinamismo e preferiva trascorrere il proprio tempo sul divano con un libro tra le mani che pensare a guadagnarsi da vivere; tuttavia, non era un vero e proprio scansafatiche. Faceva quanto gli bastava per vivere e non pretendeva che l’esistenza gli riservasse particolari o inaspettate fortune. Aveva cinquant’anni circa, un lavoro da impiegato, come ce n’erano tanti, una compagna alla quale negava sistematicamente la convivenza con una serie ben organizzata di menzogne ed espedienti; era pure normopeso e ciò era sufficiente perché l’esercizio fisico restasse un ricordo legato all’adolescenza. Gli amici non gli mancavano, ma, come si può intuire facilmente, non eccelleva nella cura delle relazioni. Insomma, chi l’avesse conosciuto intimamente, almeno di primo acchito, ne avrebbe detto male, laddove, in realtà, non era molto diverso dai più. A differenza dei più, però, era per lo meno consapevole della propria indolenza, qualcosa che egli difendeva eroicamente come pura filosofia dell’essere. Uno dei suoi passatempi preferiti, per esempio, si consumava davanti alla finestra del quinto piano del condominio in cui abitava e da cui si trasformava molto di frequente in un fine osservatore, riuscendo a cogliere ciò che altri non vedeva neppure da vicino. Quali che fossero le condizioni meteorologiche, egli incrociava le braccia sul davanzale interno e cominciava a fissare ciò che accadeva da basso. Non ignorava del tutto il volo degli uccelli, ma aveva una chiara predilezione per gli esseri della propria specie. Così, se, per esempio, una coppia, passeggiando, attraversava anche solo per due volte l’angolo del viale alberato che costituiva il suo campo d’osservazione, egli cominciava a scrutarne attentamente ogni dettaglio, fino a rilevarne le costanti. Non di rado, prendeva pure degli appunti. Si chiedeva, dapprima, quale potesse essere la loro relazione, senza farsi condizionare troppo dall’aspetto fisico e dalle cosiddette prime impressioni. In pratica, si disponeva ad attendere che un fenomeno si ripetesse almeno un paio di volte, prima di tentare di formulare un qualche giudizio. Naturalmente, anche l’aspetto fisico entrava a far parte della sua valutazione. Per esempio, nel periodo in cui parecchie persone scambiavano una semplice camminata per attività sportiva, egli si chiedeva con insistenza perché mai tanta gente impiegasse più tempo ed energie a vestirsi come un atleta provetto che a sudare per perdere peso, laddove il senso dell’attività avrebbe dovuto essere totalmente sovvertito. Gli strumenti e l’aspetto prevalevano sulla tecnica e sul fine. “C’è da diventare matti” commentava spesso tra sé, seguendo le false traiettorie olimpiche dei camminatori surreali. Dopo una lunga osservazione di fenomeni di questo genere, s’era convinto che la sussistenza della specie umana fosse garantita dal paradosso e dal conflitto. “L’essere umano – diceva – ha bisogno d’incoerenza, di una sorta di sofferenza logica, di cui è inconsapevole, ma che sperimenta ogni giorno. Ciò gli permette di non rendersi conto della propria esasperante stupidità. Il conflitto che lo costringe all’ottusità, invece, gli fa credere di essere il più delle volte di essere un eroe romantico e, non di rado, di poter diventare uno scienziato, un esploratore, un poeta…”. Insomma, la sua teoria, in soldoni, era la seguente: dalla dabbenaggine a causa della quale l’uomo non è in grado di riconoscere la semplicità, talora, può nascere un genio; tuttavia, il più delle volte, nasce un cretino.

Da un po’ di tempo, però, come abbiamo già detto, qualcosa lo infastidiva; lo infastidiva a tal punto che il suo amato svago s’era fatto penoso. Ne era distolto e s’avvedeva di non riuscire ad avere continuità di riflessione. Il suo taccuino n’era la prova: pressoché vuoto, fatta eccezione per qualche scarabocchio. Doveva recarsi da quasi un mese all’ufficio tecnico per consegnare una qualche pratica edilizia e ottenere una qualche autorizzazione: non solo non era ben conscio di tutto il da farsi, ma non voleva neppure avere a che fare con coscienza del fenomeno. Gli uffici pubblici lo innervosivano, attivavano in lui chissà quale indicibile e arcano trauma e lo rendevano pure intrattabile. Avrebbe voluto affidare la gestione di tutto a un consulente, ma le sue risorse economiche erano esigue; di conseguenza, aveva preferito sentire crescere dentro di sé quel dolore oscuro e profondo che pagare una parcella.

La decisione, insomma, era diventata presto inevitabile. La notte che precedette l’appuntamento presso l’ufficio tecnico fu un inestricabile e tumultuoso complesso di disagi. Naturalmente, non riuscì a chiudere gli occhi neppure per un istante. Dopo aver trascorso un paio d’ore a guardare passivamente e distrattamente la tv, rimuginando incessantemente su pensieri astrusi e paradossali, cominciò a sentire un lancinante dolore epigastrico. Provò a cambiare posizione un paio di volte, ma fu costretto ad alzarsi per mangiare qualcosa a scopo terapeutico. Tostò rapidamente una fetta di pane, la ricoperse di marmellata e la ingollò nervosamente. Attese per quasi un’ora sul divano, ma non riuscì a rinunciare alla compagnia di una sigaretta, che, naturalmente, peggiorò di colpo le cose. Stanco di sopportare il dolore, afferrò una siringa, aspirò l’antispastico e se lo iniettò in vena con sapiente disinvoltura. Dopodiché, si mise a passeggiare per casa, quasi volesse misurare il tempo d’azione del farmaco, il cui effetto s’avvertì lentamente. Confortato dalla nuova condizione, si distese nuovamente, senza neppure guardare l’orologio, ma neppure questa volta sentì il sonno scendere su di lui. Di fatto, erano già le quattro del mattino, quando s’addormentò. La sveglia era fissata per le sei. Ciascun lettore può immaginare, a questo punto, quanto sia stato sconvolgente il suo risveglio. Le prime luci, dunque, non gli furono affatto di sollievo. Lasciato a fatica il letto, andò di corsa a svuotare la vescica. Appoggiò una mano alla parete, come se fosse difficile reggersi in piedi, mentre, con l’altra, afferrò un pene stranamente ripiegato su sé stesso. Tentò più volte di srotolarlo, ma non riuscì a farlo in tempo né, di conseguenza, evitò di orinare sulla parte superiore del pigiama, malamente abbassato. Non se ne curò e uscì in fretta dal bagno. Andò direttamente alla finestra. Le prime ore del mattino, di solito, erano quelle della grande commedia umana: alcuni andavano talmente di corsa da sembrare manovrati da un invisibile burattinaio, laddove altri procedevano in modo talmente ozioso da sembrare in procinto di svanire. Questa contrapposizione l’aveva sempre affascinato, anche se si rammaricava, nel contempo, di non potere osservare ciò che accadeva dentro il bar, dove, forse, avrebbe riconosciuto un’altra categoria. Quel giorno, tuttavia, non trovò elementi d’interesse. Si stropicciò gli occhi, storse le labbra e si lasciò invadere dall’angoscia. In questo stato, abbandonò la postazione e andò a vestirsi. Nello stesso tempo, decise – non si sa per quale motivo – di non lavarsi neppure i denti: una sorta di dispetto che faceva a sé stesso per essersi sottoposto a questa tortura. Ancora una volta, dopo avere indossato il primo maglione e i primi pantaloni trovati per caso su qualche sedia, si mise a gironzolare tra le stanze, senza un preciso fine. In cucina, sembrava intento a predisporre qualcosa per il pranzo; nel salotto, assumeva l’aspetto di uno che volesse mettere un po’ d’ordine; nello studio, dava un’occhiata al pc, come se stesse per arrivargli un importante documento per e-mail; di fatto, nessun proposito era reale e nessuna attività iniziata veniva portata a termine. Un solo pensiero alleviò per un istante la sua tensione: gli sarebbe piaciuto parecchio essere oggetto della propria osservazione; egli stesso sarebbe stato, in quelle circostanze, un personaggio ideale da studiare. Naturalmente, il rilassamento fu di brevissima durata. Diede un’occhiataccia al telefono e si accorse che l’ora fatidica era giunta. Afferrò il cappotto, si diresse risoluto all’uscio, aprì energicamente la porta e rimase per qualche secondo sulla soglia. Anche in questo caso, nulla lo tratteneva né egli sapeva spiegarsi l’improvvisa immobilità. Resosene conto, infatti, si chiuse la porta alle spalle con una certa violenza e andò via.

Davanti all’ingresso dell’ufficio tecnico, accadde esattamente l’opposto di quanto era accaduto sulla soglia di casa: non ebbe alcuna esitazione; la qual cosa lo insospettì parecchio. Entrò con un tale vigore che, a vederlo, lo si sarebbe considerato non solo uno del mestiere, ma anche un cittadino felice. In effetti, il primo evento, cioè quello legato all’inaspettata comparsa del vigore, non fu l’unico. Immediatamente dopo, infatti, seguì una prodigiosa e, per ciò stessa, sensazione di benessere, come se le sventure della notte appena trascorsa non gli appartenessero affatto o fossero l’effimero ricordo di un’esperienza come tante e nulla di più. “È meglio vivere le cose che immaginarle” si disse e, subito, si compiacque della riflessione, non perché fosse particolarmente originale, ma perché egli si compiaceva spesso dei propri pensieri. Con questo stato d’animo, s’infilò nell’ufficio, la cui prima stanza era costituita da un grande emiciclo. Questo, a propria volta, si articolava in tre serie di quattro sportelli, inframmezzate da due rampe di scale. Davanti a ognuna di esse, era esposto in bella vista un cartello bianco con delle scritte blu indicanti le varie sezioni della struttura. Puntò a caso uno dei dodici sportelli oltre il cui vetro stava seduto un impiegato e vi si diresse canticchiando.

“Buongiorno! Devo consegnare questa pratica per ottenere l’autorizzazione” disse all’uomo che si trovò innanzi. L’impiegato sollevò gli occhiali, esaminò i fogli con sprezzante superficialità e spiccicò solamente due parole: “Sportello accanto!”.

Il nostro, che d’ora in poi chiameremo l’osservatore per distinguerlo chiaramente dagli altri personaggi, certo, non se ne dispiacque, ma, abituato, com’era, a osservare e riflettere si chiese perché quell’impiegato non usasse verbi e cortesia e si limitasse a delle parole asfittiche. La ritrovata pace, però, lo spinse in modo naturale a non indugiare sulle possibili risposte, cosicché procedette oltre e interrogò l’altro impiegato: “Buongiorno! Devo consegnare questa pratica per ottenere l’autorizzazione” ripeté, aggiungendo subito: “Il suo collega mi ha detto di rivolgermi a questo sportello”.

“Quale collega?” chiese l’impiegato, senza neppure dare un’occhiata alle carte.

“Che importa?” disse tra sé l’osservatore, pur non rinunciando a rispondere con l’indice della mano destra teso verso lo sportello precedente. Per contro, l’impiegato che aveva appena posto la domanda, disinteressandosi totalmente della risposta, stava già leggendo la prima pagina del documento. “Ottimo!” pensò l’osservatore, pur essendo perplesso per l’anomalo comportamento del proprio interlocutore. Ma non fece in tempo a sentirsi appagato per l’andamento delle cose che l’impiegato ribadì: “Sportello accanto!”.

“Com’è possibile?” ribatté l’osservatore, alzando la voce e sentendosi un po’ preso in giro. “Sono già presso lo sportello accanto!”.

“Questo è lo sportello accanto di sinistra. Deve rivolgersi a quello di destra.” disse imperturbabile l’impiegato.

“Non capisco. Questi non sono degli sportelli d’informazione? Perché occorre spostarsi da uno sportello all’altro come delle trottole?”

Mentre l’osservatore s’affannava a porre queste domande, l’impiegato era già chino su altri documenti e ignorava qualsiasi stimolo proveniente dall’esterno. In effetti, l’atmosfera, sulle prime, appariva surreale. Se, tuttavia, egli si fosse distaccato, anche solo per un istante, dalla vicenda che lo riguardava e si fosse sporto idealmente dalla finestra, per così dire, avrebbe notato che parecchie persone andavano da uno sportello all’altro come delle imbarcazioni che beccheggiano nella tempesta. Ovviamente, era troppo coinvolto per potere anche solo concepire un distacco filosofico. Così, non gli restò altro da fare che recarsi al terzo sportello.

“Buongiorno! Devo consegnare questa pratica per ottenere l’autorizzazione. Il collega alla sua sinistra mi ha detto di rivolgermi a questo sportello”. Fu deliberatamente preciso nell’indicare la provenienza dell’informazione, nel timore d’imbattersi in un’altra assurda conversazione. Lo sportello, questa volta, era quello giusto.

“Sì, disse l’impiegato” e continuò: “Prenda la scala A, al piano zero troverà l’ascensore. Vada al quinto piano. Uscendo, segua il corridoio, poi, terza a destra, sempre dritto, ultima a destra.”

Pur essendo stordito dalla spiegazione, cominciò a ripassare mentalmente il percorso. “Piano zero?” si chiese? “Qual è la differenza tra il piano zero e il pianterreno? Forse, si tratta di un seminterrato? No, non può essere. Va bene, vedremo!”. Nel frattempo, essendo già dentro l’ascensore, pensò fosse opportuno ripetere ad alta voce le tappe del percorso: “Quinto piano, corridoio, ultima a destra, sempre dritto, terza a destra”. È evidente che aveva scambiato la terza a destra con l’ultima a destra ed è intuibile che l’errore gli sarebbe costato parecchio in termini psicologici. In effetti, dopo che ebbe aperto l’ultima porta a destra, quella sbagliata, si trovò dentro una sala d’attesa stracolma di gente. Siccome era convinto, a quel punto, di dovere aprire la terza porta a destra, procedette con risolutezza. Quando stava per afferrare la maniglia, però, qualcuno glielo impedì: “Signore, c’è un turno! Ha preso il numeretto?”.

“Il numeretto? Quale numeretto?” chiese sbalordito.

La stessa persona che gli aveva appena impedito di entrare gli rispose cordialmente, ma non senza il malevolo piacere  di chi sa d’avere appena inflitto all’avversario un colpo letale: “Deve tornare da basso a prenderlo. Troverà l’eliminacode”.

“La ringrazio” disse sul punto di sbottare per i nervi. Perché quei maledetti impiegati non gliel’avevano detto? Nonostante la rabbia, che, a quel punto, aveva già sovrastato tutti i buoni sentimenti, tornò al pianterreno per interrogare l’ultimo dei tre i impiegati.

“Mi perdoni! Al quinto piano, mi hanno detto che occorre il numeretto… Perché lei non me l’ha detto? Così, mi tocca fare su e giù inutilmente”.

“Signore, dov’è andato? A lei non serve un numeretto” rispose l’impiegato con inattesa gentilezza.

“Ma… mi hanno detto… Guardi! Io sono andato…” disse l’osservatore, quasi balbettando per lo stordimento e la rabbia.

“Signore, è semplice: ha sbagliato. Non ultima a destra e terza a destra, ma terza a destra e ultima a destra”

“Grazie, grazie, grazie!” esclamò con ineguagliabile ardore. Era stato talmente rincuorato dalle parole dell’impiegato che, se avesse potuto, l’avrebbe pure abbracciato. Rianimato, tornò al quinto piano e, finalmente, seguì il giusto percorso. La stanza cui si accedeva aprendo la porta corretta era ampia, bianca, disadorna, vuota e completamente immersa nel silenzio. In fondo, dietro una grossolana scrivania grigia, nascosto da un grosso schermo, era seduto il funzionario, ovverosia la soluzione dei suoi problemi. Un timbro e tutto sarebbe tornato come prima.

“Buongiorno!”

Il funzionario, anzianotto, paffuto e con degli occhialini piccoli e rotondi, spostò la testa, scrutò l’avventore e, annuendo, ricambiò il saluto: “Buongiorno al lei! Mi dica!”.

Questo “mi dica” provocò nell’osservatore una tale fiducia e una tale distensione che quell’ufficio cominciava a sembrargli un luogo accogliente e gradevole e gli equivoci, che fino a poco prima l’avevano afflitto potevano essere considerati normali.

“Ecco! Sì, grazie… Io ho bisogno di un’autorizzazione per questa pratica” esordì e, immediatamente dopo, consegnò il plico nelle mani del funzionario, il quale, con eccellente sollecitudine, iniziò subito a studiarla. Il silenzio piombò nuovamente nella stanza. Il funzionario non staccava gli occhi dalle carte; l’osservatore tentava di curiosare con cautela, stirando, di tanto in tanto, il collo e tentando di cogliere qualche espressione di approvazione del funzionario, il quale s’era rintanato di nuovo dietro lo schermo del computer.

L’attesa durò poco, non più di dieci minuti, anche se parve infinita.

“Signore, certo, nessun problema per l’autorizzazione, ma la pratica è incompleta.”

“La pratica è incompleta” ripeté dentro di sé l’osservatore percependo il suono come un’impetuosa vibrazione, qualcosa che lo scuoteva dall’interno e gli provocava pure dei tremori.

“Che vuol dire incompleta?” si limitò a dire.

“Non è difficile, signore. Manca un documento.” ironizzò il funzionario.

Mancava un altro documento. Questo cosa comportava? Fare il pellegrinaggio verso un altro ufficio della città? Attendere un altro mese? Soffrire per altre notti? Fu assalito di colpo dallo sconforto, ma non poté fare a meno di chiedere: “Che documento? Dove dovrei richiederlo?”.

Il funzionario si rivelò molto disponibile: “È un documento che rilasciamo noi. Serve a rendere idonea la pratica agli effetti della nuova normativa.”.

“Bene! Allora, è tutto risolto? Basta una firmetta?” chiese pimpante l’osservatore.

“No, non è proprio così. Deve rivolgersi a un’altra sezione dell’ufficio tecnico, fare la richiesta e attendere di essere ricontattato.” spiegò il funzionario.

“Mi scusi! Mi sfugge un passaggio!” disse perplesso l’osservatore, aggiungendo, dopo qualche secondo d’incertezza: “Io devo fare una richiesta all’ufficio tecnico per ottenere un certificato che poi devo consegnare sempre all’ufficio tecnico? Ho capito bene? Le cose stanno proprio così?”.

Il funzionario fissò il proprio sguardo sull’osservatore, non altrimenti che se volesse studiarne il profilo e il comportamento, e, con un’aria di saggezza, gli disse: “Caro signore, questa è l’incoerenza del sistema; viviamo in una sorta di ottusità logica; ne soffriamo, ma ne abbiamo bisogno…”.

Sentire riformulare quei pensieri che erano stati il fondamento della sua filosofia gli fece crollare il mondo addosso. Si sentì perduto, povero, come se qualcuno gli avesse rubato tutto ciò che possedeva. Ciò che rese ancora più penosa e, a tratti, lacerante quell’esperienza di disinganno fu il rendersi conto che egli stesso era vittima dell’ottusità che, fin a quel momento, era da attribuirsi all’essere umano. Sì, è vero, egli era un essere umano, ne era consapevole, ma l’essere umano era, di fatto, una categoria del pensiero, non una persona in carne e ossa. Questo, per lui, fu sconvolgente, a tal punto che si alzò improvvisamente e lasciò la stanza del funzionario, senza un cenno di saluto, senza una parola, senza ritirare la pratica per la quale, come sappiamo, aveva patito molto. Vagò per i corridoi della struttura in preda a pensieri orribili, tormentandosi, ma non riuscendo a isolare una precisa causa del tormento. Alla sua destra, le finestre scorrevano lentamente, come fotogrammi d’un vecchio e rassicurante proiettore. Si avvicinò a una di esse. Mai come in quel momento ne aveva bisogno. Il piano d’altronde era lo stesso della sua abitazione. La spalancò e provò a riempire lo sguardo. A quell’ora, le strade brulicavano di gente; se ne rallegrò e sul volto gli si disegnò un sorriso. Si sporse più avanti e pianse, mentre il vento deviava il corso delle lacrime. Attese che arrivassero alle labbra, le assaporò con la lingua e si gettò giù.

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