Sposo e sposa, coloro che si prendono a garanti

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col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Anticamente, in Grecia, chi si accingeva ad affrontare un pericolo, un marinaio impaurito da un possibile naufragio o un condottiero impensierito dall’esito d’un’imminente battaglia, si premurava di fare sollecitamente le opportune libagioni in onore degli dei affinché questi fossero garanti della sua incolumità. In genere, una bevanda, vino, latte, acqua o anche miele, veniva versata su qualcosa che per la comunità aveva un sacro valore simbolico, come, per esempio, un altarino o un onfalo delfico, nell’ambito di una vera e propria cerimonia. In seguito alla celebrazione, si postulava, pertanto, una sorta di mistico accordo tra uomo e dio, si assumeva come effettiva, altresì, la responsabilità divina circa gli accadimenti. Il verbo con cui questa dimensione spiritual-esistenziale era espressa è σπένδειν (spèndein), cioè fare una libagione, versare, spargere e, in particolare, spargere alcune gocce di liquore sopra l’altare prima di bere.

Quest’ultima resa, indubbiamente, può destare qualche sospetto ermeneutico nel parlante contemporaneo, che non è affatto abituato a trarre dai vocabolari definizioni così ricche, complesse e che indichino un piano d’azione multiforme, ma bisogna tenere conto del fatto che il sistema verbale dell’epoca non aveva una stretta marcatura semantico-temporale, giacché in esso prevalevano la componente modale e quella aspettuale. Se, di conseguenza, restando nella sfera augurale, vogliamo fare un esempio in merito a tempi e modi adottati in quel sistema linguistico, dobbiamo fare uno sforzo per comprendere la natura del futuro greco. Molto probabilmente, il futuro greco si origina da una riformulazione di un congiuntivo aoristo con valore desiderativo. L’elemento desiderativo-ipotetico, proprio anche del congiuntivo latino-romanzo (“Voglia il cielo che…”), infatti, sposta l’atto linguistico oltre il presente, cosicché il futuro attivo σπείσω (speìso) passa dal significato di “io farei libagioni” a quello di “io farò libagioni”. Il lettore consideri, nello stesso tempo, che il condizionale, sia in greco sia in latino, non esisteva, essendo un’acquisizione delle lingue romanze. Non si si può spiegare altrimenti quel modo di pensare e scrivere; non a caso, per interpretare un testo greco ci si attiene alla consecutio modorum, non già alla consecutio temporum. Se così non fosse, non potremmo neppure riappropriarci continuamente di quella diatesi assai produttiva rappresentata dal medio, che, naturalmente, non appartiene più alle nostre grammatiche, ma che esprimeva interesse, riflessività o dinamicità e, talora, in funzione di un autentico processo morfo-semantico, introduceva pure concetti e significati nuovi.

Se, dunque, σπένδω (spèndo) vuol dire faccio una libagione, il medio σπένδομαι (spèndomai), invece, significa concludo un trattato. Di primo acchito, sembra che col medio si abbandoni del tutto la sfera religiosa, determinante fin dalla radice indoeuropea. In realtà, la parte suffissale del verbo, la desinenza del medio, al contrario, preserva proprio la garanzia divina, poiché chi conclude un accordo lo fa sempre prendendo a garanti gli dei, avvalendosi di un verbo che nasce dalla summenzionata radice, *spend-, fare una libagione.

La testimonianze letterarie che riportiamo di seguito ci permettono di ricostruire limpidamente il processo di significazione che da “fare libagioni” ci conduce al “concludere un accordo”.

Κὰδ δύναμιν δ’ ἔρδειν ἱέρ’ ἀθανάτοισι θεοῖσιν / ἁγνῶς καὶ καθαρῶς, ἐπὶ δ’ ἀγλαὰ μηρία καίειν· / ἄλλοτε δὲ σπονδῇσι θύεσσί τε ἱλάσκεσθαι: kàd dýnamin d’èrdein hièr’athanàtoisi theòisin /hagnòs kai katharòs, epì d’aglaà merìa kàiein; / àllote de spondèsi thýessì te hilàskesthai [Secondo le tue forze sacrifica le vittime agli dei immortali / in modo santo e puro e brucia le loro pingui cosce; / in un altro moneto rendili propizi con libagioni ed incenso (ESIODO, Opere e giorni, 336-338, in Opere, a cura di A. Colonna, 1977, UTET, Torino, p. 268-269)].

πυνθανόμενοι δὲ οἱ Κερκυραῖοι τὴν παρασκευὴν αὐτῶν ἐφοβοῦντο, καί (ἦσαν γὰρ οὐδενὸς Ἑλλήνων ἔνσπονδοι οὐδὲ ἐσεγράψαντο ἑαυτοὺς οὔτε ἐς τὰς Ἀθηναίων σπονδὰς οὔτε ἐς τὰς Λακεδαιμονίων) ἔδοξεν αὐτοῖς ἐλθοῦσιν ὡς τοὺς Ἀθηναίους ξυμμάχους γενέσθαι: pynthanòmenoi de hoi Kerkyràioi ten paraskeuèn autòn ephoboùnto, kai (èsan gar oudenòs Ellènon ènspondoi oudè esegràpsanto heautoùs oùte es tas Athenàion spondàs oùte es tas Lakedaimonìon) èdoxen autòis eltoùsin hos tous Athenàious xymmàchous ghenèsthai [Quando i Corciresi seppero dei loro preparativi (dei Corinzi n.d.r.), presero paura e (poiché non avevano rapporti di alleanza con nessuno dei Greci e non si erano fatti iscrivere né nel patto di alleanza degli Ateniesi né in quello dei Lacedemoni) decisero di recarsi presso gli Ateniesi e di divenire loro alleati (TUCIDIDE, Storie, I, 31, 2, in Le Storie, a cura di G. Donini, vol. I, 1982, UTET, Torino, pp. 134-135)].

Καταινέσαντος δ’ ἐπὶ τούτοισι Ὀτάνεω καὶ σπεισαμένου τῶν Περσέων οἱ πλείστου ἄξιοι θρόνους θέμενοι κατεναντίον τῆς ἀκροπόλιος κατέατο: Katainèsantos d’epì toùtoisi Otanèo kai speisamènou ton Persèon hoi plèistou àxioi thrònous thèmenoi katenantìon tes akropòlios katèato [Otane a questo assentì e, quando ebbe concluso l’accordo, i Persiani di rango più elevato, posti seggi di fronte all’ acropoli, si sedettero (ERODOTO, Storie, III, 144, a cura di D. Asheri e S. Medaglia, trad. it di A. Fraschetti, Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, pp. 180-181)].

Il ricorso a tre frammenti può apparire come un eccesso documentario, una sorta di ampliamento lessicale volto a rassicurare con troppo zelo il lettore, tuttavia, a ben vedere, con una rapida analisi grammaticale, ci rendiamo conto del fatto che questa scelta è essenziale alla compiutezza del metodo. Le prime due occorrenze, σπονδῇσι (spondèsi) e σπονδὰς (spondàs), sono, rispettivamente, il dativo plurale e l’accusativo plurale del sostantivo σπονδή (spondè), mentre σπεισαμένου (speisamènou) è il participio aoristo medio di σπένδεσθαι (spèndesthai). In sostanza, la loro traduzione, libagioni, patto d’alleanza e ebbe concluso un accordo, ci consente, in poche righe, di ricostruire l’intero insieme semantico studiato e descritto finora. Questo ‘insieme’ è quello entro il quale troviamo sposo e sposa, sebbene sia necessario percorrere il sentiero classico della lingua latina e considerare che i loro significati originari sono lontani dal nostro modo d’intendere oggi i protagonisti del matrimonio per giungere alla scoperta annunciata. Il latino spondēre, promettere solennemente, obbligarsi, promettere in matrimonio et similia, quantunque legato al greco, è privo della ritualità indoeuropea e greca e costituisce, evidentemente, l’esito di uno slittamento totale verso l’accezione giuridica dell’atto linguistico. Lo sponsus e la sponsa, il promesso sposo e la promessa sposa, di fatto e per la stessa natura morfologica, derivano proprio dalle voci participiali di spondēre, sono coloro che si obbligano o che – per dirla alla maniera dei Greci – si prendono reciprocamente a garanti. Lo sponsus e la sponsa, in altri termini, non sono semplicemente lo sposo e la sposa a noi noti. Così, nel contesto romano, la sponsĭo era la garanzia che il padre della ragazza dava al pretendente, l’impegno in funzione del quale gli avrebbe dato in moglie la propria figlia.

A Roma, avviare le procedure per le nozze era un atto formale, costituiva un’obbligazione che aveva una precisa funzione sociale: essa serviva a garantire la procreazione costante di cives romani. Ecco perché non deve stupirci il fatto che, talora, si potesse addirittura concedere la propria moglie, purché fosse ‘certificata’ come donna prolifica. In buona sostanza, la donna che aveva già partorito per il proprio marito un numero sufficiente di figli ed era nella condizione di generarne altri, ‘in prestito’, per così dire, era la candidata ideale. E ciò accadeva tanto più facilmente quanto più si trattava di esponenti dell’élite cittadina. Di un caso famoso ci narra Plutarco, nel proprio Cato Minor [25, 4-9]: Catone, il trionfatore di Utica, aveva, tra i propri estimatori, anche il famoso oratore e avvocato Quinto Ortensio Ortalo, il quale, volendo stringere con lui un vincolo di parentela, ne aveva chiesto la figlia Porzia in moglie. Catone gliel’aveva negata, dato che la ragazza era già maritata al suo alleato politico Marco Calpurnio Bibulo e aveva avuto da questo due figli (È appena il caso di ricordare che Porzia, rimasta vedova del marito, andò sposa, in seconde nozze, al cesaricida Bruto e, quando questi perse la vita a Filippi, nel 42 a. C., ella si suicidò ingoiando dei carboni ardenti) [Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium, IV, 6, 5]. A quel punto, Ortensio, non rassegnandosi a quel rifiuto, chiese a Catone di sposare sua moglie Marzia e questi gliela concesse! Marzia sposò Ortensio, gli diede dei figli e, alla morte di Ortensio, tornò sposa a Catone! Inutile dire che, per noi, questa storia ha dell’assurdo, ma, lo ripetiamo, essa non è affatto strana all’interno del contesto nel quale si verificò, anche se – va detto – la storia ebbe, a Roma, una certa eco e divenne oggetto di dissertazione nelle scuole di retorica, dove, come testimonia Quintiliano (Istitutio oratoria, III, 5, 11; X, 5, 13), si discuteva an Cato recte Marciam Ortensio tradiderit (se Catone abbia consegnato giustamente Marzia a Ortensio).

Quis spopondisse me dicit? Nemo [Chi afferma che io mi sono obbligato? Nessuno (CICERONE, Pro Roscio Comoedo, 5, 13-14, in Le orazioni, vol. I, a cura di G. Bellardi, 2002, UTET, Torino, pp. 316-317)].

Phaed. Spondesne, miles, mihi hanc uxorem? Ther. Spondeo [FEDROMO: Me la prometti, o soldato, in moglie? TERAPONTIGONO: La prometto (PLAUTO, Curculio, V, II, 674, in Commedie di Marco Accio Plauto, a cura di P. Donini, vol. III, 1846, Manini, Cremona, pp. 200-201)].

Hunc sensum Vibius Rufus subtiliter dixit: volo tibi malam gratiam cum sponso tuo facere: habet amicam [Vibio Rufo espresse astutamente questo concetto: voglio mettere discordia fra te e il tuo fidanzato: ha un’amante (SENECA il Retore, Controversiae, I, 5, 9, in The Older Seneca, Declamations, vol. I, Controversiae, a cura di M. Winterbottom, 1974, Harvard University press, Cambridge – W. Heinemann, trad. nostra, London, p. 134)].

CH. Scis, Pamphilam meam inventam civem?

PA. Audivi

CH. Scis, sponsam mihi?

[CHEREA: Sai che si è scoperto che la mia Panfila è di nascita libera?

PARMENIONE: L’ho sentito

CHEREA: Sai che è la mia promessa? (TERENZIO, Eunuchus, V, VIII, 1036, Commedie, a cura di O. Bianco, 1993, UTET, Torino, p. 532 TRAD. NOSTRA)].

Non è difficile notare che, in ogni circostanza, la lettura dei classici ci fa acquisire il senso dell’obbligazione o, diversamente, del vincolo giuridico che i Romani solevano indicare ora con spondĕo ora con sponsus. Tra le altre cose, avendo arricchito il contenuto antologico, abbiamo anche la consapevolezza della fenomenologia del matrimonio e dei suoi significati. Nell’indoeuropeo, infatti, non esisteva, un termine specifico per designare il matrimonio nel senso in cui lo intendiamo oggi, come in parte abbiamo già scritto. L’Enciclopedia delle scienze sociali Treccani riporta, addirittura, che le gl’indoeuropei nel fare riferimento a questa istituzione, utilizzavano termini diversi, a seconda che essa fosse riferita all’uomo o alla donna: per l’uomo, si usavano verbi derivati dalla radice *wedh-, condurre una donna nella propria casa, mentre, per la donna, non erano usati verbi, ma sostantivi, a indicare che ella non compiva l’atto di sposarsi, ma lo subiva. A Roma, invece, lo sposalizio vero e proprio era indicato col termine nuptĭae, che, derivando nūbĕre, velare, coprire, esprimeva un forte valore figurativo: allo stesso modo in cui una nube copre il cielo, così la donna è coperta dal velo. Il riferimento è al velo giallo o arancione – il flammĕum – che veniva posto sul capo della sposa e che scendeva a velare il volto.

Di conseguenza, non ci si meravigli che il significato originario di rispondere, specie alla luce della fenomenologia studiata, non sia semplicemente quello di dire qualcosa a chi ci ha fatto una richiesta! Sulla base della glossa primeva, rispondere va inteso anzitutto come un (re)spondēre, cui, nel tempo, è subentrato l’evidente mutamento di coniugazione. Il (re)spondēre dà adito, dunque, prevalentemente,  al dire a propria volta, impegnandosi, al ripromettere e, addirittura, al mostrarsi degno.

ERG. Sponden’tu istud?

HE. Spondeo

ERG. At ego tuum tibi advenisse filium, respondeo.

[ERGASILO: Lo prometti?

EGIONE: Lo prometto

ERGASILO: E io ti riprometto (ti dico a mia volta) che tuo figlio è arrivato (PLAUTO, Captivi, IV, II, 118, in Comoediae, a cura di G. Goetz e F. Schoell, 1896, Teubner, Lipsia, trad. nostra, p. 101)].

 

Istuc serva, et verbum verbo, par pari ut respondeas [Ecco, conserva questa espressione e ribatti, tenendogli testa parola per parola (TERENZIO, Phormio, I, IV, 212, in Commedie, a cura di O. Bianco, 1993, UTET, Torino, p. 571)].

Lungo la linea terminologica tracciata fin qui, incontriamo un altro termine che merita di essere esplorato e documentato, per quanto non comporti particolari fatiche: si tratta di responsabile. La sua derivazione è ormai limpida e inequivocabile, dato che abbiamo appena introdotto e analizzato (re)spondēre. Come spesso diciamo, anche il lettore che non conoscesse la linguistica romanza potrebbe, grazie a taluni fenomeni di ‘prossimità graico-fonetica’, intuirne l’origine, ma il suo ingresso nella nostra lingua differisce un po’ da quello degli altri elementi del discorso studiati. Responsabile, infatti, è un prestito dal francese e ha il significato di colui che risponde di qualcosa, facendosene garante. A tal proposito, non aggiungiamo altro per non generare ridondanza, fatta eccezione per una brevissima nota sul deaggettivale responsabilità, che arriva fino a noi attraverso l’inglese responsability. D’altronde, abbiamo parlato a sufficienza degli sviluppi di pragmatica del linguaggio della radice *spend-.

A questo punto, pur essendo consci del fatto che nessun contributo sarà mai esaustivo, ci sembra utile concludere con una curiosità generata dal web, ovverosia da quella comunità all’interno della quale la lingua, talora, subisce violente e transitorie metamorfosi. ‘Circola liberamente’ l’idea che sponsor sia un termine d’origine inglese: accade qualcosa di simile per plus, media et cetera. Fermo restando che l’espressione “d’origine inglese” è impropria e assai infelice. Si potrebbe parlare, semmai, di ramo germanico e origini indoeuropee, sponsor è un termine prettamente latino e deriva, anch’esso, da spondēre. Significa garante, padrino ed è colui che assume un impegno. In quanto alla sua evoluzione, è noto a tutti che è entrato a far parte pienamente del registro linguistico delle attività commerciali, con riferimento, in specie, a soggetti economici che finanziano dei progetti, ma ciò non ne indebolisce l’etimo.

Unde ergo, inquitis, tantum de vobis Famae licuit, cuius testimonium suffecerit forsitan conditoribus legum? quis, oro, sponsor aut illis tunc aut exinde vobis de fide? Nonne haec est Fama malum, quo non aliud velocius ullum? [Donde (cioè: come mai) dunque, dite, intorno a voi (scil. cristiani) crebbe una tale fama (cioè: potere), la cui testimonianza bastò ai promulgatori delle leggi? Chi, (vi) chiedo, fu garante per loro a quel tempo e per voi nel tempo presente (scil. della veridicità di questa fama)? Non è forse vero che questa la Fama, un male di cui null’altro è più rapido? [TERTULLIANO, Ad nationes, I, 7, in Opera, vol. I, a cura di A. Reifferscheid e G. Wissowa, 1890, Tempsky, Praga-Vienna-Lipsia, trad. nostra, p. 67)].

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