Scuola, schema, epoca: i significanti della quiete e dello studio

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col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Per quanto ci impegniamo a descrivere i processi di inversione sintattica, la risemantizzazione, la suffissazione, la variazione diatopica o morfologica, i prestiti e tanti altri meccanismi di evoluzione della lingua, non possiamo ignorare che la nostra unità linguistica – senz’incomodare Dante col suo De vulgari eloquentia, citato per lo più a sproposito per accreditare tesi unitarie che l’autore non ha mai messe per iscritto – è molto ‘giovane’ e, per certi aspetti, si potrebbe definire immatura. Negli anni Sessanta del secolo scorso, l’80% degl’italiani parlava ancora in dialetto e la quota di dispersione scolastica era altissima, poiché l’obbligo scolastico, nonostante il dettato costituzionale, che garantiva fin dagli esordi repubblicani il diritto allo studio, era visto con sospetto: le famiglie lo giudicavano unicamente come sottrazione di forza lavoro. Tra le altre cose, solo nel 2007, l’età per l’obbligo è stata innalzata a 16 anni, così da garantire dieci anni di scuola. All’inizio degli anni Settanta, quindi, poco più di cinquant’anni fa, il 25% degli italiani non era in grado di scrivere e parlare in italiano. Tullio De Mauro [1999] ha documentato che, nell’epoca postunitaria, su 25 milioni di abitanti, solamente 160.000 parlavano in italiano: in pratica, un palermitano e un milanese non si capivano. Non esisteva una vera comunità d’italofoni. L’obbligo scolastico, in Italia, fu introdotto, per la prima volta, con la Legge Casati, entrata in vigore nel 1861, anche se si trattata di obbligo limitato ai primi due anni delle scuole elementari: sedici anni dopo, si giunse a tre anni, mediante la legge Coppino. L’istruzione secondaria, tuttavia, era presente solo nei capoluoghi di provincia. Bisognerà attendere la nota riforma Gentile del 1923 per riconoscere un percorso didattico simile a quello col quale sono cresciute le ultime generazioni di studenti, pur con le modifiche legislative ormai bell’e acquisite e – possiamo aggiungere senza tema di smentita – sempre in fieri.

Le origini della scuola sono assai lontane da noi e dalla nostra concezione; non è escluso, anzi è molto probabile, che la spinta alla strutturazione di un sistema d’educazione intellettuale, per così dire, sia nata da prette esigenze amministrativo-commerciali. Non a caso, la più antica tra le forme documentate risale al 3500 a.C. presso i Sumeri e coincide con la comparsa della scrittura cuneiforme, utilizzata proprio per tenere traccia delle derrate e, in generale, di tutti i prodotti in entrata e in uscita dal tempio. Naturalmente, potevano beneficiarne unicamente i figli delle classi agiate. Si ipotizza che, già nel 2500 a.C., in tutto il regno di Sumer, esistessero parecchie scuole di scrittura; ne sono testimonianza i numerosi ritrovamenti delle tavolette d’argilla con incisioni provenienti da Uruk. Dal materiale in possesso degli studiosi si evince che, se è vero che, in un primo tempo, la scuola sumerica si occupò solo di insegnare la scrittura a fini pratici, successivamente, essa divenne la sede di conservazione e trasmissione della cultura e del sapere. In essa, trovarono spazio docenti di ogni disciplina dello scibile dell’epoca: botanici, zoologi, esperti di mineralogia, geografi, matematici, grammatici et cetera. Molti tra coloro che conseguivano il diploma in queste scuole erano destinati a diventare scribi del tempio, di palazzo o di potenti signori, ma molti altri diventavano docenti e studiosi, che vivevano degli introiti derivanti da queste occupazioni. Il sistema di base dell’istruzione sumerica, dal punto di vista metodologico, consisteva per lo più nella compilazione di repertori, ovverosia di liste di parole e di espressioni, di forme verbali, di nozioni, di problemi e soluzioni, che venivano fatti imparare a memoria mediante continue copiature. Se c’era un addetto alla frusta, com’è attestato, evidentemente, la disciplina doveva essere molto rigida e la correzione degli errori, più che sull’incoraggiamento, verteva sulle busse. Lo scolaro frequentava la scuola dall’alba al tramonto, forse senza vacanze e per diversi anni, fino alla fine dell’adolescenza. Gli scavi nel territorio dei Sumeri hanno restituito, a Nippur, Sippar, Ur, degli edifici che potrebbero essere, con buona probabilità, delle scuole, anche se di ciò non si ha certezza, mentre è certamente una scuola – vista la presenza di file di banchi di pietra – quella portata alla luce a Mari sull’Eufrate [KRAMER, S. N., 1975].

Nel mondo greco, la scuola era, letteralmente, tempo libero, riposo, ozio, ma non in senso deteriore: l’ozio cui fa riferimento il termine greco era il tempo non dedicato agli affari, quello in cui ci si poteva dedicare alle attività intellettuali, soprattutto alla retorica e alla dialettica, le arti che, garantendo il dominio del lògos, consentivano al polìtes di partecipare alle assemblee e, di conseguenza, alla vita pubblica. Si trattava, evidentemente, di un’attività privilegiata, dato che la maggior parte degli uomini era costretta, per poter sopravvivere, a praticare lavori pesanti o, addirittura, la guerra. Scuola e occupazione, a differenza di quanto si è deciso di fare ai nostri giorni con l’istituzione della cosiddetta ‘alternanza scuola-lavoro’, nel mondo greco, erano impensabili insieme; si contrapponevano radicalmente: chi zappava rimaneva soggiogato per sempre dalla fatica, mentre chi poteva dedicarsi alla scholè, al tempo libero destinato alla formazione, si rendeva libero dalla schiavitù della fatica. Forcellini ricorda [1761], a scanso di equivoci, che il grammatico Festo, nel II secolo d. C., volle precisare che scholè non era l’ozio improduttivo, cioè una vacatio, ma era un tempo pieno in cui lo studente, non impegnato in fatiche materiali, si poteva dedicare agli studi, all’attività intellettuale. E se la scuola, a Roma, era chiamata anche ludus, essa non aveva comunque a che fare col gioco: il termine ludus andava inteso nel senso di esercizio, allenamento. Il nome di questo impegno intellettuale era otium, contrapposto a nec-otium, negotium, ovverosia alle attività manuali che tenevano lontani da quelle mentali.

Dunque, la scuola delle origini è, anzitutto, un luogo in cui si forma il cittadino educandolo al commercio, all’amministrazione della cosa pubblica, e si muta, indubbiamente, nel tempo dell’occupazione studiosa, come si legge nei dizionari di Rocci e Montanari, ma il suo processo di significazione si sostanzia immediatamente, come s’è anticipato, in ozio, tregua, sollievo, riposo, assumendo anche i valori di trattazione, dissertazione, lezione, tesi, argomento.

Σχολὴν μὲν οὖν αὐτοῖς καὶ διατριβὴν τὸ περὶ Μίεζαν Νυμφαῖον ἀπέδειξεν, ὅπου μέχρι νῦν Ἀριστοτέλους ἕδρας τε λιθίνας καὶ ὑποσκίους περιπάτους δεικνύουσιν: Scholèn men oun autòis kai diatribèn to perì Mìezan Numphàion apèdeixen, hòpou mèchri nyn Aristotèlous hèdras te lithìnas kai hyposkìous deiknỳousin [Come luogo per gli studi assegnò loro il Ninfeo di Mieza, ove sino ad oggi indicano i sedili marmorei di Aristotele e gli ombrosi viali del passeggio (PLUTARCO, Alessandro, VII, 4, Vite, vol. IV, a cura di D. Magnino, 1996, UTET, Torino, pp. 336-337)].

Sono valori, non solo semplici significati, perché chi frequentava una scuola entrava in possesso di una sorta di capacità d’intuire la natura composita dei fenomeni ricavandone un modello d’ordine e armonia, arrestando, in qualche modo, il tempo. La dimensione del possesso e, nello stesso tempo, dell’avere, l’acquisizione di un modello e la sospensione del tempo, sulle prime, possono apparire quali concettualizzazioni eccessive o inadeguate per descrivere il ruolo degli educandi originari. In realtà, però, non bisogna mai dimenticare che ogni parola è uno dei tanti e dicibili epifenomeni della propria radice, dalla cui espansione semantica si sviluppano le fabulae e gl’intrecci delle lingue dei popoli. Basta leggere con attenzione alcune testimonianze letterarie del mondo greco e di quello latino per averne contezza.

Ἐπ’ ἀμφότερα δέ τοι φέρει ταῦτα ποιέειν, καὶ ἵνα σφέων Πέρσαι ἐπίστωνται ἄνδρα εἶναι τὸν προεστεῶτα καὶ ἵνα τρίβωνται πολέμῳ μηδὲ σχολὴν ἄγοντες ἐπιβουλεύωσί τοι: Ep’amphòtera de toi phèrei tàuta poièein, kai hìna sphèon Pèrsai epìstontai àndra èinai ton proesteòta kai hìna tri’bontai polèmo medè scholèn àgontes epiboulèuosì toi [Ti conviene agire così per due motivi: sia perché i Persiani sappiano che è un uomo a governarli sia perché la guerra li logori ed essi, rimanendo oziosi, non comincino a complottare contro di te (ERODOTO, Storie, III, 134, a cura di D. Asheri e S. M. Medaglia, trad. it. di A. Fraschetti, 1990 Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, pp. 168-169)].

Nell’espressione σχολὴν ἄγοντες, non si rintraccia alcun significato prossimo al nostro modo di vedere e pensare o vivere la scuola. Ci resta, semmai, l’omofonia tra la morfologia lessicale italiana scuol-, col fenomeno di dittongazione della vocale tonica [o], e il greco σχολή (ozio, riposo), da cui si ha anche σχολάζω, cioè cesso dal lavoro, indugio, esito, mi fermo, come scrive Forcellini [1761]. Il latino schŏla, che deriva proprio dal greco σχολή, si può rendere con studio, ricerca, trattazione, ma, propriamente, è anch’esso tempo libero, quiete, riposo. Quest’appropriatezza lessicografica va accolta, comunque, con cautela, poiché gli autori latini, rielaborando il calco greco, hanno generato un definitivo slittamento di significato: da “tempo libero” a “dissertazione”, “lezione” et similia.

Σχολή e, inevitabilmente, schŏla, che adesso possiamo ridefinire come significanti della quiete e dello studio, includono uno schema, un modello, un’idea di ordine; e tale inclusione è possibile grazie alla radice indoeuropea *seĝh-, seĝhi-, seĝhu-, che si rende con tenere, possedere, superare. Di qui, ci rendiamo conto facilmente che le concettualizzazioni che, da principio, sembravano forzate sono, al contrario, per lo meno pertinenti e, al più, l’esito, sempre rivedibile, d’un naturale e legittimo processo ermeneutico. Uno schema, come scrive Battaglia nel GDLI, è “modello convenzionalmente semplificato di un fenomeno  complesso o  variabile secondo  modalità  che  si  ripetono,  di  un  apparecchio,  di  un  impianto,  di  un  procedimento;  l’insieme  dei  punti  essenziali  di  un  problema,  delle tappe  determinanti  di  un  divenire  storico;  forma essenziale  di  qualcosa,  astratta  dai  particolari  accidentali”. Il latino schemă, che si traduce con figura, forma, disegno, atteggiamento, abito, deriva dal greco σχῆμα (schèma), che, a propria volta, significa proprio forma, figura, maniera o qualcosa che, per l’appunto, rende l’idea di ordine e ripetitività. Questa radice di comunione tra scuola e schema, di fatto, c’induce a raccontare una ‘storia’ diversa da quella che conosciamo come parlanti contemporanei e in funzione della quale nessuno di noi, nell’associare scuola con schema, parlerebbe di forma o figura posseduta nell’occupazione studiosa. Eppure, noi frequentiamo una scuola e facciamo uno schema proprio per superare dei livelli di difficoltà rispetto a ciò che non conosciamo e possedere nuovi argomenti. Insomma, quale che sia la perifrasi scelta con riferimento alle proprietà ‘insiemistiche’ della suddetta comunione, è davvero difficile allontanarsi dalle collocazioni semantiche finora formulate. Se, infatti, in precedenza, abbiamo parlato della dimensione dell’avere, ciò è accaduto perché, come scrive Chantraine [1968], σχῆμα (schèma) rimanda a ἔχω (ècho), il verbo che i Greci hanno adottato dalle tavolette micenee e da Omero per dire avere.

ΞΑ. Οὐ μὴ διατρίψεις, ἀλλὰ γεῦσαι τῆς θύρας, / καθ’ Ἡρακλέα τὸ σχῆμα καὶ τὸ λῆμ’ ἔχων: Sa. Ou me diatrìpseis, allà ghèusai tes thỳras, / kath’Heraklèa to schèma kai to lèm’èchon [Sa(ntia). Non perdere tempo. Saggia la porta / alla maniera di Eracle: di lui hai l’aspetto e lo spirito (ARISTOFANE, Rane, 462-463, in Commedie, a cura di G. Mastromarco e P. Totaro, vol. 2, UTET, Torino, p. 606-607)].

Ἡμεῖς δὲ τοῦ ξύμπαντος προέστημεν, δικαιοῦντες ἐν ᾧ σχήματι μεγίστη ἡ πόλις ἐτύγχανε καὶ ἐλευθερωτάτη οὖσα: Hemèis de tou xỳmpantos proèstemen, dikaioùntes en o schèmati meghìste he pòlis etỳnchane kai eleutherotàte oùsa [Ma noi guidavamo lo stato intero e consideravamo nostro dovere il contribuire a conservare quella forma di governo in cui la nostra città era effettivamente più potente e meno soggetta alle altre città (TUCIDIDE, Storie, VI, 89, 6, a cura di G. Donini, vol. 2, UTET, Torino, pp. 1040-1041)].

 

La forma ottenuta, che noi fissiamo tra νόησις (nòesis, atto dell’intelletto, intuizione) e διάνοια (diànoia, facoltà del pensiero argomentativo) e sottraiamo al tempo, tratteniamo come un che di sospeso, inscritto, ancora una volta, nella dimensione dell’avere, qui polidocumentata per necessità filologica, prende il nome di ἐποχή (epochè), che si configura come nomen rei actae e indica la sospensione del giudizio. Nell’italiano contemporaneo, epoca è ormai una sorta di calco greco che non reca più alcuna traccia dei significati delle origini: usando “epoca”, i parlanti intendono riferirsi a un ampio periodo di tempo segnato da precisi avvenimenti o classificato dal lavoro degli storiografi. Il sostantivo ἐποχή (epochè), invece, deriva dal verbo ἐπέχω (epècho, trattenere) e si è formato dal grado apofonico forte di ἔχω (ècho, ho). Di qui, il significato, già anticipato, di sospensione come qualcosa che si trattiene, si sottrae al tempo.

Di fatto, il termine ἐποχή compare tardi, precisamente nel III sec. a.C. in ambito stoico, quando Crisippo di Soli lo usa col significato di sospensione dell’assenso di fronte a ciò che non è comprensibile (AA.VV., 1995). In seguito, fu ripreso, sempre nel III sec. a.C., da Arcesilao di Pitane, fondatore della Media Accademia, col significato di sospensione di giudizio verso ogni tipo di sapere. Anche gli scettici lo utilizzarono, intendendo, con esso, la sospensione del giudizio come mezzo per raggiungere l’atarassia. Polibio, nel II sec. a.C., utilizzò il termine col significato di arresto, fermata, sospensione. Plutarco, nello stesso secolo, oltre a usarlo nell’accezione adottata da Polibio, lo usa anche in senso astronomico, come punto di fermata degli astri nel cielo (Plutarco, Vita di Romolo, 12, 6). A partire da questo significato, con Claudio Tolomeo, si sviluppò quello di punto fisso del cielo utile per il calcolo cronologico. L’italiano epoca deriva da un’estensione di quest’ultimo significato che designa un periodo più o meno lungo di tempo considerato come un insieme, ovverosia un punto di fermata del flusso cronologico, con propri caratteri e segnato da eventi che si possono ricondurre a unità. Esiste poi, in italiano, un’accezione propriamente astronomica di epoca, nota per lo più agli addetti ai lavori, introdotta da Daniello Bartoli nel 1685, che è la derivazione diretta del greco ἐποχή (epochè): essa indica il “momento nel quale s’incomincia a calcolare il valore della longitudine media di un astro” e rappresenta la più diretta prosecuzione semantica del senso astronomico del greco.

Τὸ δὲ τέλος τῆς ἀπωλείας ἠνύσθη τοιῷδέ τινι τρόπῳ. παραγενομένων γὰρ εἰς τὴν Τεγέαν τῶν περὶ τὸν Σέξτον καὶ τοὺς Λακεδαιμονίους ἐπισπασαμένων χάριν τοῦ σύμφωνον αὐτοῖς γενέσθαι πρὸς τοὺς Ἀχαιοὺς τήν τε περὶ τῶν προγεγονότων ἐγκλημάτων δικαιοδοσίαν (καὶ) τὴν κατὰ τὸν πόλεμον ἐποχήν: To de tèlos tes apolèias enỳsthe toiòdè tini tròpo. Paraghenomènon gar eis ten Teghèan ton perì ton Sèxton kai tous Lakedaimonìous epispasamènon chàrin tou sỳmphonon autòis ghenèsthai pros tous Achaioùs ten te perì ton proghegonòton enklemàton dikaiodosìan (kai) ten katà ton pòlemon epochèn [La fine della rovina fu attuata in questo modo: giunti infatti a Tegea quelli al seguito di Sesto e persuasi gli Spartani di avere un accordo con gli Achei in merito al pagamento delle offese precedenti e alla sospensione della guerra (POLIBIO, Storie, XXXVIII, 3, 2, vol. IV, a cura di L. Dindorf, 1868, Teubner, Lipsia, vol. IV, a cura di L. Dindorf, 1868, Teubner, Lipsia, trad. nostra, p. 117)].

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