Odio e noia, sostantivi di processo

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col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Affermare che l’odio è un sentimento e provare a dimostrare il senso dell’affermazione è compito semplice e rapidamente eseguibile: la maggior parte dei lessicografi, di fatto, ci conforta con limpide proposizioni epesegetiche, alle quali, di rado, un lettore può opporsi. Sul TLIO, cui si accede comodamente online, si legge: “Sentimento di profonda avversione e ostilità verso qualcuno”. Sul Devoto-Oli, invece, il lemma è definito come “risoluta ostilità che implica generalmente un atteggiamento istintivo di condanna, di rifiuto, di ripugnanza, oppure un costante desiderio di nuocere”. Battaglia, nel GDLI, si esprime così: “Sentimento di vivissima ed esasperata ostilità nei confronti di qualcuno, di cui si desidera il danno, la rovina o anche la morte, per cui il male si opera attivamente (…)”. De Mauro, nel Grande dizionario italiano dell’uso, non si allontana affatto dal lavoro dei colleghi, descrivendo l’odio quale “sentimento di forte ostilità e avversità nei confronti di qualcuno di cui si desidera il male”. La messa a sistema di queste ‘notizie semantiche’ non sia considerata ridondate; anzi, sia accolta come la premessa epistemologica necessaria a un riesame della parola senza il quale la stessa consultazione dei dizionari potrebbe risultare insoddisfacente. Ci permettiamo di far notare, infatti, che le definizioni riportate finora, quantunque corrette, appaiono per lo meno incomplete. Qualcuno, a questo punto, avrà già gridato allo scandalo per l’improponibile baldanza con la quale osiamo revocare in dubbio il contenuto delle opere dei più illustri linguisti italiani; pertanto, consapevoli del rischio di linciaggio, chiediamo un po’ di pazienza e anticipiamo che, a nostro avviso, la più convincente delle descrizioni del sentimento in questione è quella che si trova sul Treccani online: “Sentimento di forte e persistente avversione”. Di primo acchito, sembra che non abbia alcunché di diverso dalle altre, ma, a ben vedere, essa si arricchisce dell’aggettivo participiale “persistente”, elemento del discorso con il quale l’atto del sentire acquisisce una durata. Odio, come scopriremo attraverso la letteratura di pertinenza e, soprattutto, lungo il continuum indoeuropeo e latino-romanzo, è un sostantivo di processo. Un sentimento d’odio, senza il tempo, sarebbe impossibile, costituirebbe un’inaccettabile contraddizione. Di conseguenza, l’odio non può essere un “atteggiamento istintivo”, come scrivono Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli; e non può essere un semplice sentimento di ostilità, come si scrive dai più. Non può esserlo, tranne che si sia disposti a occultare l’intero patrimonio filologico che ne ha determinato l’uso.

Già nel XIII secolo, Brunetto Latini ci proponeva un concetto d’odio grazie al quale ci rendiamo conto che la semantica di questo sostantivo era chiara fin dalle origini.

Odio non è altro se nno ira invecchiata [BRUNETTO LATINI, La Rettorica, 34, 1, a cura di F. Maggini, 1915, Galletti e Cocci, Firenze, p. 24].

Il nostro odio deriva indubbiamente dal latino ŏdĭum, che si traduce facilmente anche con avversione e antipatia, oltre che con odio, naturalmente, ma i Latini esprimevano questo sentimento di ostilità con un verbo resultativo, ōdi, ovverosia con un perfetto logico che, in quanto tale, mancava di presente. Dunque, ōdi non si deve tradurre al passato, ma dev’essere reso col presente: io odio, io ho in antipatia. In altri termini, io odio oppure ho in antipatia qualcuno perché è accaduto qualcosa che ha generato questo stato o questa condizione di avversione. Ciò che è accaduto in passato si esplica nel presente, cosicché l’uso del perfetto è funzione logica dell’azione, non già mera temporalità. A proposito di odio, sul web, si trova un pregevole contributo del glottologo Moreno Morani, il quale, oltre a documentare la valenza logico-perfettiva di ōdisse, ci conduce a una rilettura dell’arcinoto carme LXXXV di Catullo in cui “odi” (odio) e “amo” non sono affatto i termini della contrapposizione cui siamo stati abituati da una scuola troppo spesso pigra e vile: “(…) Provo dentro di me un sentimento di rancore e contemporaneamente ti amo: amo è un attivo che implica una posizione di apertura verso l’altro, mentre odi evoca una condizione di chiusura in sé stesso”. Se fosse ammissibile una diversa interpretazione di odio, simile a quella che sbrigativamente ci viene proposta oggi, il poeta non potrebbe completare il distico elegiaco con “Quare id faciam, fortasse requiris. / Nescio, sed fieri sentio et excrucior” (Mi chiedi forse perché io lo faccia. / Non lo so, ma sento che accade e mi tormento). Se si trattasse di una relazione di complementarità, per cui l’uno implica la negazione dell’altro, allora l’autore non avrebbe motivo di tormentarsi né troverebbe collocazione l’interrogazione indiretta. Molto probabilmente, l’intero carme non avrebbe potuto essere scritto.

Se restano ancora dubbi sul contenuto della nostra trattazione, si legga il frammento di Cicerone, cui sembra rifarsi Brunetto Latini e in cui l’occorrenza appare paradigmatica!

Odium est ira inveterata [L’odio è una collera a lungo covata (CICERONE, Le Tusculane, a cura di A. Di Virginio, 1962, A. Mondadori, Milano, p. 304-305)].

Anche se gli studenti, in genere, imparano a conoscere presto ōdi e solo di questa forma hanno memoria, Ernout e Meillet [2001] dimostrano sia che la lingua arcaica possedeva anche osus sum sia che da ōdi è stato tratto un presente odio, usato successivamente nella latinità della Chiesa. La radice su cui questo sostantivo è costruito e sulla quale sono d’accordo tutti gli studiosi è *od– (avere disgusto, odiare), la cui natura morfematica consente pure a un lettore inesperto di glottologia di rilevare certi legami tra le parole. In greco, il verbo di riferimento, non a caso, è ὀδύσσομαι (odỳssomai, sono adirato, mi adiro), attestato, come scrive Montanari [1995], solo nell’aoristo medio-passivo e nel perfetto medio.

τῷ μὲν ἔπειτ’ ὀδύσαντο θεοὶ ῥεῖα ζώοντες, / καί μιν τυφλὸν ἔθηκε Κρόνου πάϊς· οὐδ’ ἄρ’ ἔτι δὴν / ἦν, ἐπεὶ ἀθανάτοισιν ἀπήχθετο πᾶσι θεοῖσιν: to men èpeit’odsanto theòi hrèia zòntes, / kai min typhlòn ètheke Krònou pàis; oud’ar’èti den / en, epèi athanàtoisin apèchtheto pàsi theòisin [Per questa ragione lo odiarono (scil. Licurgo, re di Tracia) gli dei che hanno facile vita: / il figlio di Crono lo accecò e non visse a lungo, / perché era venuto in odio a tutti gli immortali (OMERO, Iliade, VI, 138, a cura di G. Paduano, 2007, Mondadori, Milano, p. 182-183)].

Chi mai, nella Medea di Euripide, potrebbe ricostruire una vera e propria storia dell’odio, sentimento che la protagonista mostra come implacabile e che, per noi, si fa d’un subito indicibile, senza accoglierne la fenomenologia, quel modo di sentire che esclude qualsiasi altra affezione dell’animo? Medea uccide il proprio fratello per avere Giasone, l’uomo del quale s’innamora e della cui ventura è complice; uccide il re di Corinto e la figlia di lui, ma, soprattutto, uccide propri figli per vendetta, dopo essere stata abbandonata proprio da Giasone. In poche righe, per quanto ingenerose e spoglie, si ha il senso dell’espressione che, in precedenza abbiamo usata per contestare il primato di alcune definizioni: sostantivo di processo.

οὐκέτ’ εἰμὶ προσβλέπειν / οἵα τε πρὸς ὑμᾶς†ἀλλὰ νικῶμαι κακοῖς. / καὶ μανθάνω μὲν οἷα δρᾶν μέλλω κακά, / θυμὸς δὲ κρείσσων τῶν ἐμῶν βουλευμάτων, / ὅσπερ μεγίστων αἴτιος κακῶν βροτοῖς: oukèt’eimì prosblèpein / hòia te pros hymàs†allà nikòmai kakòis. / kai manthàno men hòia dran mèllo kakà, / thymòs de krèisson ton emòn bouleumàton, / hòsper meghìston àitios kakòn brotòis [Non sono più in grado di posare su di voi il mio sguardo: / le sciagure mi hanno sconfitta. / E mi accorgo del male che sto per compiere, / ma più potente dei miei piani è la furia del cuore, / che per i mortali è causa delle più grandi sventure (EURIPIDE, Medea, 1076-1080, in Eschilo, Sofocle, Euripide Tutte le tragedie, a cura di A. Tonelli, 2011-2013, Bompiani, Milano, pp. 1536-1537)].

Non sarebbe faticoso, a questo punto, allestire una sorta di scenografia lessicale sul cui sfondo prendessero forma le raffigurazioni di quella Grecia tragica in cui domina incontrastata la letterarietà della sentenza di Medea: “più potente di certi piani è la furia del cuore”. Questa furia del cuore, che si produce e si manifesta nel tempo, è, in sostanza, sofferenza e insofferenza, turbamento indeterminato e, di conseguenza, è anche disagio spirituale, condizione di pena di chi, odiando, è anzitutto vittima di sé stesso.

Il lettore, adesso, non può immaginare che, stando così le cose, abbiamo già introdotto un termine strettamente imparentato con odio, un sostantivo che dell’odio reca in sé il nucleo semantico-radicale: noia, che, non a caso, è così definito sul dizionario: “Senso di insoddisfazione, di fastidio, di tristezza, che proviene dalla mancanza di attività” (Treccani online). Non può sfuggire che la noia viene posta in relazione alla mancanza di attività; non è qualcosa di statico e invariabile; anzi, è caratterizzata da una certa fluidità, sebbene questa, talora, sia dannosa. Non tragga in inganno lo stato del cosiddetto ‘far niente’, che non corrisponde all’assenza di processo! Noia deriva dal tardo latino inodiare, che dev’essere interpretato come l’esito dell’espressione in odio habere, cioè avere in antipatia, avversare. Nella nostra lingua è giunto attraverso il francese ennuyer e il provenzale enojar, ma la sua fortuna, come si dice nella lingua di settore, è dovuta al presupposto fenomenologico di odio nato in seno alla latinità classica e mai perduto del tutto, a dispetto dello slittamento semantico dell’età moderna. Noia è termine che compare nel Medioevo, durante il quale fu, innanzitutto, un genere letterario mutuato dalla poesia provenzale. L’enueg era un componimento recante elenchi di cose fastidiose dell’esistenza. In Italia, Girardo Patecchio fu autore di una Frotula noiae moralis, meglio nota come Libro delle noie, un testo di 86 versi in cui il poeta, alle tante cose che gli procurano noia trova altrettante soluzioni comiche. Nel Trecento, ancora, il noto poeta popolare Antonio Pucci scrisse delle sarcastiche Noie. Ma nella poesia provenzale, noia fu anche termine-chiave a indicare l’inquietudine e, spesso, anche il dolore per l’assenza dell’amata. Per comprendere appieno il modo in cui la noia è stata intesa e vissuta in letteratura, di cui potrebbe essere un esempio emblematico il concetto tassiano d’indissolubile legame tra dolore e, per l’appunto, noia, occorre rifarsi al pensiero greco. Per i Greci, l’equivalente semantico era ἀκηδία (akedìa), cioè una parola composta da ἀ privativo e κῆδος (kèdos, cura, dolore), che indicava l’assenza di dolore o cura e, di conseguenza, trascuratezza, noncuranza. La malinconia e la tristezza, per il pensatore puro, corrispondevano all’assenza del πάσχειν (pàschein, soffrire, emozionarsi), da cui deriva il più noto πάθος (pàthos). I Romani, diversamente, usavano il sostantivo taedium, che si rende con fastidio e disagio, ma anche ripugnanza, disgusto e avversione. È facile notare, insomma, che neppure in questo caso si può parlare di semplice insoddisfazione. Lucrezio, nel De rerum natura, con raffinata abilità poetica, descrive una ‘malattia’, un tormento che sembra quasi anticipare, pur se da una prospettiva opposta, quello romantico o quello del Giacomo Leopardi che, nei Pensieri, scrive che “la noia è in qualche modo il più sublime di tutti i sentimenti umani”. [LEOPARDI, G., Pensieri, LXVIII, in Opere, tomo I, a cura di S. Solmi, 2005, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 731]

Hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit, / effugere haud potis est, ingratis haeret et odit / propterea, morbi quia causam non tenet aeger; / quam bene si videat, iam rebus quisque relictis / naturam primum studeat cognoscere rerum, / temporis aeterni quoniam, non unius horae, / ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis / aetas, post mortem quae restat cumque, manenda [Così ognuno fugge sé stesso; ma a quell’io, cui, / s’intende, di fatto non può sfuggire, più / dispettosamente sta avvinto e lo aborre perché / è malato e non sa la causa del sul male; se la / vedesse ben chiaro, ciascuno, lasciata ogni cosa, / si studierebbe di conoscer prima la natura del / tutto, perché dell’eternità, non di un’ora, è in / gioco la condizione, in cui sarà per gli uomini / tutto il tempo che resta dopo la morte, / per durar sempre uguale (LUCREZIO, De rerum natura, III, 1068-1075, a cura di A. Fellin, 2004, UTET, Torino, pp. 258-261)].

Potrebbe apparire quasi irriverente e inappropriato associare Lucrezio coi romantici o con Leopardi, ma l’irriverenza e l’inappropriatezza dipendono solo dall’immobilità della nostra ‘pigrizia terminologica’, per così dire, a causa della quale non ci rendiamo conto che, in circostanze simili, le parole indicano un moto interiore per il quale la sinonimia esplicativa è insufficiente. Tra le altre cose, adesso, siamo davvero in imbarazzo rispetto alle testimonianze da offrire al lettore, giacché non si sa a chi si faccia un torto citando un frammento, anziché un altro. Forse, Seneca, che, nel De tranquillitate animi [II, 13, 15], ripropone l’hoc se quisque modo semper fugit di Lucrezio, non meriterebbe d’essere citato? E Petrarca, homo dimidiatus per eccellenza? E Boccaccio, che, nell’introdurre il Decamerone, rivolge una dedica alle donne, augurandosi che, grazie alla narrazione, non subiscano “passamento di noia” [BOCCACCIO, G., Decameron, Filocolo, Ameto, Fiammetta, a cura di E. Bianchi, C. Salinari, N. Sapegno, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 5]? Che dire, allora, di Tasso, che, nell’Aminta, mette a confronto il “ben passato” e la “presente noia” [TASSO, T., Aminta, II, 2, 199-202, in Poesie, a cura di F. Flora, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 640]? E di Robert Burton, autore di un Trattato della malinconia? E di Locke, Pascal, Voltaire, Sterne o del giovin signore del Parini? Ecco: l’imbarazzo diventa difficoltà, a tal punto che ci concediamo una scelta di gusto per dare un valore di compimento all’analisi del termine in questione: un frammento tratto dai Quaderni di Cioran e uno tratto da Oblomov di Goncarov.

La noia ha quasi sempre cause interiori, che riuscivo a neutralizzare nel periodo in cui bevevo; da quando sono sobrio, mi domina, sono in sua balìa, è come una forma impersonale che mi soggioga e mi atterra. Ha un’essenza diabolica. È per scacciarla che mi sono impegnato in quel poco che ho ‘realizzato’, ma le enormi lacune, i notevoli vuoti che caratterizzano la mia ‘carriera’, è ad essa che li devo. La sento nelle viscere, in tutto l’organismo, nel più profondo della mia fisiologia. Il male inestirpabile per eccellenza. L’uomo che si annoia potrà anche spostare le montagne, fare meglio dell’uomo di fede, ma non riuscirà mai a evitare di annoiarsi. Come definire la noia? Un misto di cattiva digestione e di catastrofe cosmica [CIORAN, E. M., Cahiers 1957 1972, trad. it. di T. Turolla, Quaderni 1957 – 1972, 2001, Adelphi, Milano, p. 940].

Il’ja Il’iè si è afflosciato, la noia gli traspare dagli occhi, vi si è radicata come una malattia. Egli va su e giù per la stanza, poi si sdraia e guarda il soffitto; prende un libro dallo scaffale, ne scorre con gli occhi alcune righe, sbadiglia e comincia a tamburellare le dita sul tavolo [GONCAROV, I. A., 1859, Oblòmov, trad. it. di E. Guercetti, 2010, Mondadori, Milano, p. 350].

Le incursioni narrative, per brevi e slegate che siano, hanno sempre una particolare funzione, che consiste, il più delle volte, nel farci trasferire senza forzature sul piano d’un’esperienza di contatto tra i nostri bisogni e l’ambiente in cui, anche indirettamente, li esprimiamo o speriamo di soddisfarli. Grazie ai personaggi e ai loro intrecci esistenziali, diventiamo partecipi di qualcosa che, fino a poco prima, neppure vedevamo, ma che, forse, era sotto i nostri stessi occhi. Così, Cioran, parlando di “essenza diabolica” e dei propri problemi di alcolismo, ci induce ad accettare che la noia è essa stessa un’esperienza, essendo caratterizzata da una serie di azioni di contrasto. Noi, in pratica, non leggiamo il racconto di un’assenza. Diversamente, Oblòmov si fa elemento tra gli elementi di un’elencazione che, tuttavia, si svolge anch’essa per azioni di contrasto. A ogni modo, ciò che domina entrambe le tracce narrative è un movimento incessante, ma insopportabile, un che d’inarrestabile e odioso, tale che non è difficile detestarne il δρᾶμα (dràma, fatto, azione). Nella lingua latina, esiste un aggettivo, un participio perfettivo, col quale si può efficacemente rappresentare la sensazione appena descritta: si tratta di exōsus, che possiamo tradurre, per l’appunto, semplicemente, con odioso, ma anche con l’espressione relativa che odia profondamente o si fa odiare. Ciò non implica che non esistano altri termini, forse anche più adatti, ma abbiamo preferito proporre questo sia perché appartiene alla famiglia semantica studiata finora sia perché, quando, nell’italiano contemporaneo, usiamo l’aggettivo esoso, siamo ben lontani dall’immaginarne il significato originario, limitandoci a riferirlo o a una persona avara e gretta o a una richiesta eccessiva. Dalla lettura della voce di riferimento del GDLI apprendiamo, invece, che esoso è chi “si fa malvolere, si fa odiare per i suoi modi, la sua condotta, il suo carattere” e, con valore attenuato, “antipatico, noioso, fastidioso”. Sarebbe oltremodo ripetitivo e inelegante illustrarne, ancora una volta, la formazione, giacché abbiamo illustrato ampiamente il processo che dalla radice *od– ci ha condotti a odio e noia. Esoso, naturalmente, nasce proprio da ōdi, cui si antepone il prefisso ex-.

Iuppiter omnipotens, si nondum exosus ad unum / Troianos, si quid pietas antiqua labores / respicit humanos, da flammam evadere classi / nunc, pater, et tenuis Teucrum res eripe leto [O Giove onnipotente, se tu ancora non odii / tutti i Troiani sino all’estremo, se guardi / alle umane fatiche con l’antica pietà, / fa’ che la flotta scampi al fuoco, salva le poche / nostre sostanze, padre (VIRGILIO, Eneide, V, 687-690, trad. it di C. Vivaldi, 2001, Garzanti, Milano, pp. 234-235)].

Verum, cum ob scelera universis exosus esse coepisset, interfectus est suorum coniuratione in Palatio anno aetatis quadragesimo quinto, imperii quinto decimo. Funus eius ingenti dedecore per vespillones exportatum et ignobiliter est sepultum [Invero, quando (scil. Vespasiano) cominciò a essere odioso a tutti per le scelleratezze, fu ucciso da una congiura dei suoi nel palazzo a quarantacinque anni di età e quindici di governo. Il suo cadavere con grande vergogna fu trasportato tramite i becchini e sepolto ignobilmente (EUTROPII, Breviarium ab urbe condita, VII, 23, a cura di C. Santini, 1979, Teubner, Lipsia, trad. nostra p. 49)].

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