Compendio (minimo) di fonetica e fonologia

Se ti è piaciuto, condividi!

Redigere un compendio vuol dire fare un’esposizione sommaria, una specie di sintesi attraverso la quale il lettore, uno studente o un curioso, possa usufruire di una semplificazione degli argomenti che compongono la materia scelta. Gli esperti, diversamente, potrebbero trovare il presente contributo un po’ riduttivo. Sarà bontà loro rivalutarlo ed, eventualmente, utilizzarlo. In quanto all’obiettivo di snellimento e agevolazione, cui s’è fatto subito riferimento, è doveroso dire che non si tratta affatto di un compito facile, poiché si corre sempre il rischio, in questi casi, di indebolire o limitare la disciplina trattata. A tal proposito, per l’approfondimento, suggeriamo immediatamente il libro di Marina Nespor, Fonologia, pubblicato dal Mulino nel 1993. In realtà, in tutti i manuali di linguistica, si trova un capitolo dedicato ai suoni della nostra lingua e alla loro combinazione, ma per essi si ripropone, inevitabilmente, il problema della limitatezza.

Fatta questa rispettosa premessa, è il caso di prendere subito in esame un’espressione che abbiamo appena usata: “(…) i suoni e le loro combinazioni”. Ci sembra, infatti, che il più corretto tra i punti di partenza sia quello che ci permette di considerare i suoni della nostra lingua non già come componenti isolate di una determinata struttura, bensì quali strumenti di realizzazione di una certa funzione linguistica. In altri termini: le definizioni, pur essendo indubbiamente necessarie, devono essere sempre legate alla dimensione d’uso. Di conseguenza, bisogna cominciare a parlare di una caratteristica teorica della lingua: la doppia articolazione, dalla quale la nostra ‘visione della parola’ può, a poco a poco, prendere forma. Ogni significante richiede un duplice livello d’interpretazione. L’aggettivo “bello”, per esempio, a un primo livello, si può scomporre in bell- e -o, che hanno, rispettivamente, il significato di aggettivo e singolare maschile. Bell- e -o, in particolare, sono due morfemi, lessicale e grammaticale. A un secondo livello, invece, la scomposizione dà come esito b-e-l-l-o, cioè genera delle unità minime non più scomponibili e che, da sé, non hanno alcun significato: i fonemi. Se è vero che i fonemi sono privi di significato, è altrettanto vero, tuttavia, che essi hanno un’elevata potenza linguistico-combinatoria, essendo delle rappresentazioni distintive del nostro sistema sonoro. Da un punto di vista fonematico, in “bello”, noi abbiamo quindi cinque fonemi: /b/, /e/, /l/, /l/, /o/. A questo punto, è opportuno fare qualche precisazione in merito a differenze e definizioni. I fonemi costituiscono l’oggetto di studio della fonologia, ovverosia della disciplina che studia il modo in cui i suoni sono organizzati e usati. La fonetica, diversamente, concerne lo studio dei foni, cioè della realizzazione concreta dei fonemi, della loro caratterizzazione fisica all’interno del significante. La trascrizione dei foni avviene tra parentesi quadre: [b], [ɛ], [l], [l], [o]. Volendo trascrivere l’aggettivo “bello” nel rispetto della concreta realizzazione fonetica, ricorriamo al seguente metodo: [‘bɛllo]. Il lettore avrà già rilevato, a proposito delle trascrizioni fonetiche, alcuni simboli non proprio noti a tutti, quali sono l’apice prima di [b] ed [ɛ] in luogo di /e/. La differenza tra [ɛ] ed /e/ è la testimonianza paradigmatica della differenza tra fono e fonema: [ɛ] rappresenta, nell’alfabeto fonetico, la vocale aperta medio-bassa, cioè il fono o, in altri termini, l’allofono, variante fonematica, del fonema /e/. L’apice posto prima della [b] indica, invece, l’accento sulle parole plurisillabiche. Chiariremo meglio questi aspetti nel corso del compendio. Infatti, con l’esposizione del quadro fonetico e alcune nozioni basilari sul meccanismo di fonazione, sarà un po’ più semplice comprendere il fenomeno di combinazione di consonanti e vocali.

Prima di esporre e illustrare il quadro fonetico della lingua italiana, occorre spendere qualche parola sul già annunciato meccanismo di fonazione, così da poter descrivere, subito dopo, modo e luogo di articolazione dei suoni. Lo faremo senza entrare nel dettaglio anatomofisiologico, la cui trattazione ci farebbe superare i limiti di un compendio minimo. Con uno sforzo di sintesi, che potrebbe apparire grezzo, possiamo affermare che ‘è tutta una questione di flussi d’aria’. Se il flusso d’aria egressivo, proveniente dai polmoni, non incontra alcun ostacolo, allora i suoni prodotti sono quelli delle vocali; se, diversamente, il flusso d’aria incontra degli ostacoli, allora i suoni prodotti sono quelli delle consonanti. Di fatto, non è difficile, almeno a livello teorico, distinguere un insieme di suoni dall’altro. Sul piano pratico, ci si può chiedere che cosa s’intenda per ostacolo. Insomma, sui manuali, si fa presto a parlare di barriere, ma bisogna anche mettersi nei panni di chi, per la prima volta, si avvicina alla materia. Facciamo subito un esempio affinché la teoria si muti in qualcosa di intelligibile e, soprattutto, evidente. Prendiamo in esame il fono [b] dell’aggettivo “bello”: si tratta di una consonante occlusiva bilabiale sonora perché il flusso d’aria, prima di essere liberato, viene momentaneamente bloccato dalle labbra. Dunque, l’occlusione rappresenta il modo di articolazione di [b], laddove le labbra, cioè gli organi che creano il blocco, ne costituiscono il luogo. Nel caso di [l], abbiamo, invece, una laterale alveolare sonora perché l’aria, pur essendo ostruita nella parte centrale della cavità orale, fluisce ai lati della lingua, mentre la pronuncia avviene con la parte anteriore della lingua schiacciata sulla cresta alveolare. Può giovare, a tal proposito, l’osservazione dell’immagine dell’apparato fonatorio umano.

(immagine tratta da NESPOR, M, 1993, Fonologia, il Mulino, Bologna, p. 33)

Per completezza d’informazione, con riferimento alla meccanica della fonazione, va detto, anzitutto, che non esiste soltanto un flusso polmonare egressivo, in cui l’aria dai polmoni, attraverso bronchi, trachea e laringe, giunge alla cavità orale o a quella nasale. Ne esistono altri tre, polmonare ingressivo, glottoidale egressivo e glottoidale ingressivo, sebbene quello polmonare egressivo sia quello più diffuso e che ci riguarda direttamente. Riteniamo si sia compreso, pertanto, che le consonanti sono suoni che si distinguono per tre caratteristiche fisiche fondamentali: modo di articolazione, luogo di articolazione e tipo di ostruzione. In genere, nei manuali di fonologia, quest’ultima caratteristica non viene menzionata in modo esplicito; si preferisce concentrarsi sulle prime due e descrivere il quadro fonetico. Noi, al contrario, riteniamo che debba avere la giusta evidenza, poiché, molto probabilmente, il fenomeno dell’ostruzione, che, più oltre, sarà sempre più limpido, è il fondamento sia del modo sia del luogo in cui un effetto sonoro diventa pronuncia. Dell’occlusione abbiamo già detto in forma d’esempio, come anche della lateralizzazione del flusso. Adesso, procediamo con l’esame del quadro fonetico mediante una tabella, in modo che sia possibile agevolare il processo di apprendimento di tutti i suoni consonantici. Precisiamo fin da ora che, nella tabella, vengono riportati solamente i suoni dell’italiano standard.

Per facilitare la comprensione dello schema di pronuncia, elaborato secondo la convenzione dell’alfabeto fonetico internazionale, abbiamo inserito degli esempi. Di conseguenza, il lettore trova, al posto di “invito”, la trascrizione [iɱ’vi:to], [‘ɲɔkko] al posto di “gnocco”, [ʤe’la:to] al posto di “gelato”, [‘wɔ:vo] al posto di “uovo” e così via. I due punti servono, nel nostro caso, a indicare la sillaba tonica aperta. Con riguardo al loro modo di articolazione, abbiamo detto, nel caso delle occlusive, che gli organi bloccano per un istante l’aria, prima di consentirne il deflusso e, nel caso delle laterali, che l’aria fluisce ai lati della lingua. Adesso, vediamo cosa accade nelle altre circostanze di emissione delle consonanti. Quando gli organi si avvicinano, senza toccarsi, così da ridurre lo spazio di deflusso e generare un effetto di frizione, i suoni prodotti prendono il nome di fricativi. Se, invece, tra gli organi avviene il contatto, ma questo si muta presto in separazione, allora i suoni diventano affricati. Più facile a intendersi risulta sicuramente il caso delle nasali, giacché l’aria, anziché fluire dalla cavità orale, fluisce da quella nasale. Se la lingua vibra contro un altro organo, per esempio contro la cresta alveolare, allora si produce la /r/, unica polivibrante italiana. Ci resta da chiarire il meccanismo delle semivocali o semiconsonanti, cioè dei suoni approssimanti: come si può vedere nella tabella, abbiamo solamente due approssimanti, /j/ e /w/, che corrispondono o alla /i/ e alla /u/ atone seguite da vocale, come nel caso dei dittonghi ascendenti, o alla /i/ e alla /u/ atone precedute da vocale, come nel caso dei dittonghi discendenti. Le loro condizioni di emissione non sono determinate da un eccessivo restringimento della cavità orale, pertanto non siamo in presenza di particolari alterazioni del flusso d’aria. D’altronde, la loro realizzazione fonetica è intermedia fra quella di una vocale e quella di una consonante.

Per quanto riguarda il vocalismo tonico della nostra lingua, ci si può affidare a una rappresentazione grafica molto efficace e sul cui uso sembra unanime la comunità dei fonetisti: il trapezio vocalico, che noi, qui, riportiamo in forma essenziale e che il lettore deve immaginare proprio all’interno della cavità orale.

Non è difficile accorgersi di due fatti essenziali: anzitutto, nel grafico, le vocali sono distribuite secondo posizione e altezza; il che implica che siano prodotte allo stesso modo all’interno della cavità orale; in secondo luogo, i grafemi utilizzati sono sette: /a/, /ɛ/ e /ɔ/ sono vocali aperte, mentre /e/, /o/, /i/ e /u/ sono vocali chiuse. Apparentemente, la differenza tra una /e/ aperta e una chiusa può essere considerata irrilevante. Di fatto, nella maggior parte dei casi, il fine comunicativo non viene compromesso da un errore di pronuncia, per carità. Non è così, però, per gli attori, che studiano scrupolosamente la dizione, prima di andare sulla scena. Un attore conosce bene la differenza tra pèsca (frutto) e pésca (attività), accètta (verbo) e accétta (strumento), bòtte (percosse) e bótte (contenitore) et similia. Abbiamo scelto dei termini universalmente noti, tra i più usati dai redattori di manuali e articoli di pertinenza, ma ce ne sono parecchi, come si può immaginare. A ogni modo, è bene sapere che per produrre alcune vocali, anziché altre, la lingua e le labbra cambiano posizione. Infatti, le vocali possono essere arrotondate o non arrotondate, secondo che le labbra siano, per l’appunto, arrotondate o meno. Si può intuire facilmente, cioè pronunciando le parole, che, per esempio, la /a/ di “albero” non è arrotondata, mentre la /u/ di “muro” lo è. Se, invece, proviamo a pronunciare le vocali con la stessa semplicità con cui ce le facevano ripetere alle scuole elementari, /a/, /e/, /i/ et cetera, ci rendiamo conto che la lingua passa da una posizione di distensione e riposo per la /a/, che, quindi, è bassa, a quella di tensione ed elevazione per la /i/, che, di conseguenza, è alta, attraverso una posizione media per la /e/. Naturalmente, /e/ e /o/ aperte sono da considerarsi medio-basse, mentre /e/ e /o/ chiuse sono da considerarsi medio-alte. In sostanza, l’osservazione del trapezio ci permette non solo di comprenderne l’aspetto dinamico, ma anche di capire se le vocali siano anteriori o posteriori: nessuno farà fatica a notare che la /a/ è media, laddove la /i/ è anteriore e la /u/ è posteriore.

L’ultimo argomento da trattare per dare un valore di compiutezza a questo compendio è costituito dall’accento. La questione non è semplice, come potrebbe sembrare sulla base dei resoconti che si trovano sulla rete. L’italiano è caratterizzato da un accento dinamico-intensivo mediante il quale siamo soliti dare prominenza uditiva a una sillaba all’interno della parola, ma l’accento, di per sé, ha una struttura fisica complessa e che si compone di intensità, lunghezza e altezza tonale. Qui, faremo di tutto per fornire al lettore le nozioni essenziali in funzione dell’obiettivo di semplificazione annunciato fin dall’inizio, ma ci sia lecito avvertirlo, ancora una volta, che un processo di apprendimento completo impone l’approfondimento. Tutti noi, fin da piccoli, impariamo presto a usare l’accento grafico, in specie quello sulle parole tronche; non siamo altrettanto scrupolosi nel corretto uso del tipo di accento, grave (`) o acuto (´). L’accento grave, posto sulla /e/ o sulla /o/ indica che queste sono aperte, mentre l’accento acuto, posto sempre sulla /e/ o sulla /o/, indica che queste sono chiuse. Sulla base della sillaba sulla quale cade l’accento, le parole sono così classificate:

  • tronche o ossitone (accento sull’ultima): città;
  • piane o parossitone (accento sulla penultima): lavóro;
  • sdrucciole o proparossitone (accento sulla terzultima): invisìbile;
  • bisdrucciole (accento sulla quartultima): ridàmmelo;
  • trisdrucciole (accento sulla quintultima): órdinaglielo.

È evidente e risaputo che, in fatto di grafia, esiste una norma inviolabile: alcune parole vanno scritte con l’accento: le parole tronche; ventitré, nontiscordardimé; alcuni monosillabi, come ciò, giù, può et similia; la terza persona del verbo dare ; gli avverbi di luogo là, lì; la congiunzione ; il pronome . In alcune circostanze, l’elemento grafico, per quanto non obbligatorio, serve a distinguere, per esempio, un nome comune da un nome astratto, prìncipi da princìpi, o un avverbio da un sostantivo, sùbito da subìto. L’accento, dunque, non è solo un elemento soprasegmentale che possiamo vedere, ma è anche e, soprattutto, qualcosa che sentiamo; il che ci fa capire che l’aspetto prosodico non dovrebbe mai essere confuso con quello tonico. Il ritmo di un discorso, infatti, è dato proprio dalla successione di sillabe toniche e sillabe atone, cioè forti e deboli. In precedenza, quando abbiamo indicato la complessità della struttura dell’accento, abbiamo fatto cenno a intensità, lunghezza e altezza tonale; adesso, è un po’ più agevole comprendere che cosa sono. Una sillaba tonica è più forte di una sillaba atona, cioè più intensa, e la sua durata, vale a dire la lunghezza, è superiore a quella di una sillaba atona. Quando, diversamente, si parla di curva melodica, invece, ci si riferisce all’altezza tonale, ovverosia alla frequenza di vibrazione delle corde vocali, che, ancora una volta, per una sillaba tonica è superiore che per una sillaba atona. Come si può notare, in modo sbrigativo, si potrebbe distinguere un accento grafico da un accento tonico e riassumere l’intera questione in due grandi insiemi, come accade spesso, ma, così facendo, in pratica, la resa del sistema vocalico sarebbe parziale e un po’ lontana dalla nostra lingua.

Se vuoi leggere le ultime pubblicazioni dell’autore, clicca qui o sull’immagine

Bibliografia minima

BERRUTO, G., CERRUTI, M., 2017, La linguistica, UTET, Torino

BERTINETTO, P. M., 1981, Strutture prosodiche dell’italiano, in Studi di grammatica, Accademia della Crusca, Firenze

BORTOLINI, U., 1976, Tipologia sillabica dell’italiano Studio statistico, in Studi di fonetica e fonologia di Simone, R., Vignuzzi, U., Ruggiero, G., Bulzoni, Roma

CANEPARI, L., 1979, Introduzione alla fonetica, Einaudi, Torino

DE SAUSSURE, F., 1922, Cours de linguistique générale, trad. it. di T. De Mauro, 1962, Corso di linguistica generale, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari

MAROTTA, G., Modelli e misure ritmiche, Zanichelli, Bologna

MIONI, A. M., 2001, Elementi di fonetica, Unipress, Padova

NESPOR, M., 1993, Fonologia, il Mulino, Bologna

SERIANNI, L., 1989, Grammatica italiana, UTET, Torino

SOBRERO, A. A., MIGLIETTA, A., 2006, Introduzione alla linguistica, Laterza, Roma-Bari

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *