Nel giacere, il senso del cimitero e la condizione del cittadino

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giacere, cimitero, cittadino, culla, cimelio

col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Stendersi, giacere, riposarsi, essere posti, trovare posto: sono verbi che, nel discorso e, più ancora, nella parlata, molto probabilmente, sono percepiti, accolti e classificati per una loro presunta e superficiale somiglianza. La rapidità con la quale, da parlanti, indichiamo parole, oggetti e atti, di fatto, è funzionale ai processi di aggregazione linguistica: insomma, ci si capisce, per paradosso, proprio grazie all’assenza di particolari, a una sorta di ‘risparmio energetico’ che il locutore adotta inconsapevolmente, procedendo, il più delle volte, per inferenza. A coloro che partecipano al dialogo manca, sempre e – è appena il caso di precisarlo – naturalmente, la visione di fonemi, morfemi, sintagmi e legami sintattici, che, tuttavia, costituiscono il substrato archetipico sul quale l’inferenza stessa si regge.

Di là dalla prossimità dei significati, che si possono intuire anche senza competenze lessicografico-etimologiche, l’ipotesi che stiamo lasciando intravedere più o meno limpidamente è questa: le radici indoeuropee e i fenomeni fonetici e morfologici che caratterizzano la loro evoluzione, dalla comunione greco-latina a quella italiana, attraverso quella romanza, rappresentano una sorta di senso inconscio dell’esistenza linguistica collettiva. In altri termini, il singolo parlante, in genere, non sa che cimelio, cimitero, cittadino e culla sono sostantivi che hanno in comune la stessa radice, ovverosia la radice indoeuropea *kei-, ma, nello stesso tempo, non fa alcuna fatica a usare con un certo equilibrio sinonimico i verbi che abbiamo esposti nella sequenza dell’incipit. Questi verbi, tuttavia, dipendono unicamente dalla radice appena esplicitata, essendone ciascuno una diversa accezione. È evidente, nello stesso tempo, che il tema del senso inconscio, generatore di unità funzionali di significato, dovrebbe essere ampliato e opportunamente documentato in un diverso contesto, giacché, qui, com’è ovvio, stiamo facendo un lavoro di ricostruzione filologico-semantica.

Per raggiungere questo obiettivo, che non sempre è d’immediata fruizione, come si pensa sfogliando un dizionario etimologico della lingua italiana, prendiamo le mosse dalla definizione che ci offre il GDLI a proposito di cimelio: “Oggetto, suppellettile preziosa o antica, che si conserva con cura; cosa rara che ricorda un’epoca, un avvenimento importante, che ha appartenuto a un personaggio illustre o a una persona cara”. Si tratta di un termine attestato nel latino tardo come voce dotta, ma che deriva dal greco κειμήλιον (keimèlion). Gli studiosi sono tutti concordi nel farlo risalire a *kei-; d’altronde, la sua struttura morfologica non desta alcun sospetto in merito. Se, unitamente a questa indicazione preliminare, prendiamo in esame un insieme di parole, verbi e sostantivi, appartenenti alla summenzionata comunione greco-latina, allora può risultare chiaro non solo il lavoro del lessicografo, ma anche e soprattutto il metodo di consultazione del vocabolario, in cui si può già trovare una specie di sinossi del continuum storico-linguistico lungo il quale si forma un lemma e se ne giustifica l’uso.

Sulla base di questo quadro semantico e acquisendo gli studi di Beeks (2010) e Boisacq (1916), secondo i quali il cimelio è un “bene, possesso, oggetto conservato in ricordo di qualcuno” (BOISACQ, E., 1916), possiamo affermare che l’oggetto, scrupolosamente custodito, è segno, elemento e simbolo del ricordo; il suo giacere è espressione d’un’altra forma del giacere, quella del possessore antico e scomparso, che solo così può esserci. Il legame simbolico-semantico ed emotivo, evocato dalla parola-oggetto, è generato e sostenuto dalla radice. Di qui, si sostanzia e si comprende appieno il pondus delle parole di Battaglia con le quali abbiamo avviato la discussione. Il riferimento essenziale dell’indagine in corso, ciò su cui abbiamo richiamato manifestamente l’attenzione, è – vogliamo ricordarlo – il senso che unisce gli elementi di un certo insieme semantico di cui i parlanti fanno uso e del cui legame radicale si servono inconsapevolmente.

Nῦν δὲ δὴ ἐξαπόλωλε δόμων κειμήλια καλά, / πολλὰ δὲ δὴ Φρυγίην καὶ Μῃονίην ἐρατεινὴν / κτήματα περνάμεν’ ἵκει, ἐπεὶ μέγας ὠδύσατο Ζεύς: nun de de exapòlole dòmon keimèlia kalà, / pollà de de phryghìen kai Meonìen erateinèn / ktèmata pernàmen’hìkei, epèi mègas odỳsato Zeus [Adesso sono scomparsi i tesori delle nostre case, / e molte ricchezze sono vendute in Frigia / o nella bella Meonia, da quando Zeus ci ha preso in odio (OMERO, Iliade, XVIII, 290-292, a cura di G. Paduano, 2007, Mondadori, Milano, pp. 590-591)].

“Abbellivano ancora i sacri tempj di lampadi di varie e diverse specie, di candelieri, d’incensieri, di vasi e di corone, e di altri cimelj, o utensili, i quali erano fatti di metalli preziosi.” (BUONARROTI, F., 1716, Osservazioni sopra alcuni frammenti di vasi antichi di vetro ornati di figure trovate ne’ cimiteri di Roma, Stamperia di SAR, Firenze, p. 260).

Nei duemilacinquecento anni trascorsi, suppergiù, tra la stesura dell’Iliade e quella della molto meno nota opera di Buonarroti, il valore di cimelio, come si può facilmente notare, s’è conservato immutato e forte quale tesoro, come cosa che giace e, in quanto preziosa, è conservata tra mura di protezione, tanto che la sua scomparsa provoca disagio e afflizione. Le mura di protezione, a ben vedere, sono quelle che troviamo ricorrendo, ancora una volta, al GDLI per ottenere la definizione di cimitero: “luogo consacrato, cintato da muri o compreso nei sagrati delle chiese (nei primitivi tempi cristiani, nelle catacombe), ove si dà sepoltura ai morti”. Il senso e il valore di ciò che giace si stima opportunamente in relazione a ciò che si costruisce attorno a esso, alle opere architettoniche che l’uomo realizza affinché il giacere sia pregevole e non appaia come un abbandono. La protezione garantita dalle mura ci riporta all’idea di accurata conservazione di qualcosa. Se, infatti, prendiamo in considerazione il sagrato delle chiese, dove, principalmente nell’alto Medioevo, si dava sepoltura ai fedeli cristiani, e ne osserviamo la struttura, scopriamo agevolmente che esso è un piano elevato rispetto alla strada, ma soprattutto che costituisce un elemento di separazione tra un luogo profano e un luogo sacro. Insomma, non era, specie nel periodo indicato, un semplice portico d’ingresso.

Il termine giunge a noi dal latino tardo, coemitirium e cimiterium, che, a propria volta, deriva dal greco κοιμητήριον (koimetèrion), luogo dove si dorme. Quest’ultimo significato nasce in seno al verbo κοιμᾶν (koimàn), pongo a dormire, faccio addormentare, che abbiamo incluso nel riquadro pubblicato in precedenza. È bene dire che il cimitero, nel senso attuale del termine, nasce relativamente tardi: nel XIX secolo (1804, in Italia 1806), con l’Editto di Saint-Cloud, Napoleone stabiliva che i morti non fossero più seppelliti sotto i pavimenti delle chiese, ma trovassero alloggio in appositi luoghi costruiti fuori delle mura delle città e ben esposti all’aria e al sole. Tuttavia, la pratica della sepoltura dei morti ha origine antichissima e risalirebbe, secondo gli studiosi, già all’Homo Neanderthalensis (Paleolitico medio, 200.000-40.000 anni fa), il primo che avrebbe sviluppato il senso della spiritualità e che avrebbe avvertito, oltre al bisogno di riti religiosi, appunto anche quello di dare sepoltura ai morti (prima di allora, venivano abbandonati più o meno come le carcasse degli animali). Gli archeologi hanno indicato col nome di necropoli – letteralmente, città dei morti – i ‘cimiteri’ dell’antichità sorti in età precristiana. Ovviamente, non si possono annoverare tra le necropoli i casi di tombe isolate (si pensi, per esempio, alle monumentali tombe di alcuni faraoni in Egitto o a tombe individuali greche e romane poste lungo le strade). Il termine necropoli implica, infatti, l’idea del raggruppamento di sepolture in un dato luogo. In tal senso, necropoli sono, per esempio, quelle egizie di età predinastica, costituite da umili fosse, con cadaveri rannicchiati avvolti in stuoie e con corredi primitivi (anteriori all’età dei metalli). Altrettanto antiche sono le necropoli rinvenute in Mesopotamia – si vedano, per esempio, quelle di Ur e Kish! –, sviluppatesi ai limiti dei centri urbani, prive di ordine, con tombe addossate le une alle altre e spesso sovrapposte fino a formare delle collinette. In questo contesto, naturalmente, è impossibile dare conto d’una esaustiva storia della ritualità delle sepolture perché ci allontanerebbe parecchio dal progetto di scrittura. Le note suesposte, pertanto, sono da considerarsi come spunto per un possibile approfondimento o, diversamente, come termine di paragone.

Ciò che, invece, c’interessa esplorare ulteriormente è il piano di significazione entro cui s’è sviluppata la radice *kei-, la quale, dal primitivo e definito valore di giacere, riposare, esser posti et similia, è giunta ai concetti e alle opere di conservazione, cura, difesa, protezione, salvaguardia, tutela, che, nella lingua italiana, sono rappresentati ora da un oggetto (cimelio) ora da un luogo (cimitero). Adesso, possiamo, di conseguenza, prendere in esame un sostantivo che contiene sia la natura dell’oggetto sia quella del luogo, la culla. In realtà, alcuni studiosi, tra i quali Ernout e Meillet (2001), hanno respinto l’ipotesi che potesse derivare da *kei-. Tuttavia, rifacendoci al protoindoeuropeo *koi-no-, possiamo considerare più che corretta, oltre che legittima, la nostra proposta, che, comunque, trova riscontro presso molti filologi. Il suo etimo, in altri termini, è un derivato con grado forte della radice. A ogni modo, nel latino classico, è presente tra i nomina pluralia tantum: cūnae, cunārum, culla, nido. Tuttavia, il singolare, passato poi nelle lingue romanze, si trova in Varrone.

Propter cunam capulum positum / nutrix tradit pollictori (…) [La bara è posta presso la culla, / la nutrice la consegna al becchino (VARRONE, Satire menippee, 222, trad. nostra, in Etyma Latina di E. R. Wharton, 1890, Rivington, Londra)].

La nostra letteratura è piena di occorrenze con le quali si può apprezzare inequivocabilmente l’uso del sostantivo cuna. Ne riportiamo solamente alcune tra le più note per evitare di cedere a un’escursione antologica.

“Rëa la scelse già per cuna fida” (DANTE, Inferno, XIV, 100).

“Frattanto altri gli odori, altri le fasce / ricche prepari, altri la nobil cuna, / ove al bambino i dolci sonni alletti” (TASSO, T., Rime, 780, A donna Marfisa d’Este Cybo per il suo parto prossimo, 12-14).

“Dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale” (LEOPARDI, G., Canti, 23, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 142-143).

“La sua cunella con le sue lenzuola” (PASCOLI, G., Nuovi Poemi, 189, 12)

In ognuna delle testimonianze, risalta prepotentemente il senso di contenimento di un bisogno o di rigenerazione della vita, quand’anche questo stesso senso sia trasposto per metafora o negato per contrapposizione esistenziale, come avviene nel caso del testo poetico leopardiano. Il giacere e il custodire, che qui riscopriamo, implicano la cura premurosa di chi se ne dia pensiero, una cura che adesso è maggiore che nella circostanza linguistica del cimelio, per il quale ci si deve limitare unicamente ad assicurare un’immobilità inviolabile. Nel caso in specie, emerge, oltre l’oggetto e il luogo, una netta e duplice condizione di vita: quella di chi si prende cura e quella di chi è destinatario del prendersi cura. La meravigliosa opportunità della lingua consiste proprio in questo: la funzionalità morfologico-semantica di una sola radice, nell’espandersi, ci permette di accogliere, nello stesso dominio di sussistenza logico-discorsiva, sia le caratteristiche e il valore di un oggetto sia la pragmatica di un soggetto, sia la feconda immobilità delle cose – “immobili” almeno dal punto di vista linguistico – sia l’inevitabile dinamicità delle persone che le nominano e ne fanno uso.

L’elemento linguistico che reca in sé un particolare potere sinottico-rappresentativo, che riunisce cioè i valori fin qui espressi, è il cīvis, il cittadino, colui per il quale la cīvĭtās, cittadinanza, è, prima di tutto, una condizione, colui che sceglie una dimora fissa, lasciandosi contenere da confini e agendo in costante spirito di aggregazione. Il cīvis, in sostanza, giace in un luogo sicuro e si unisce ad altri cives per la difesa dei propri luoghi e dei propri valori; il cīvis è, altresì, soggetto, in quanto protagonista della vita della cīvĭtās, ed è oggetto, in quanto fine ultimo non solo delle proprie ‘azioni di cura’, ma anche di quelle altrui.

Quod si parentes carissimos habere debemus, quod ab iis vita, patrimonium, libertas, civitas tradita est [E se assai grande deve essere il nostro affetto per i genitori, cui dobbiamo la vita, il patrimonio, la libertà, la cittadinanza (CICERONE, Le orazioni, vol. III, Post reditum in senatu, I, 2, a cura di G. Bellardi, 1975, UTET, Torino, pp. 90-91)].

 

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