La democrazia

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Un bel giorno, un tizio, alto, ossuto, spocchioso e con passo da segugio, s’introdusse furtivamente in casa altrui: molto probabilmente, dalla finestra del ballatoio, che il proprietario, a pensarci bene, non chiudeva mai; si diceva sempre che sarebbe stato impossibile rubare qualcosa a un povero. D’altronde, che cosa si può togliere alla miseria? A ogni modo, torniamo ai fatti! E proviamo a raccontare come andarono le cose: in pratica, il proprietario trovò quest’uomo comodamente seduto sul divano della sua sala da pranzo e, per giunta, con le gambe accavallate: fumava avidamente e con elegante disinvoltura un grosso sigaro. Sulle prime, la sua presenza non generò cattive impressioni, sebbene il timore dello sconosciuto fosse quasi tangibile. E inoltre, il proprietario – bisogna dirlo – era un tipo caritatevole e accogliente. Talora, sembrava stupido o ingenuo. Molto spesso, egli stesso pensava d’esserlo.

Era cresciuto per le strade, secondo costumi antichi, era stato educato al senso della semplicità e dell’ospitalità; insomma, non era abituato a vedere il male dappertutto. Quand’era piccolo, rientrando a casa all’ora dei pasti, portava sempre con sé qualche compagnetto di giochi. Sua madre, buon’anima, non se ne lamentava mai; anzi,  riusciva a far bastare quelle poche pietanze di cui disponevano, saziando tutti, anche coloro che non erano attesi. Eppure, erano quasi indigenti. Era un adolescente come tanti altri: sognava a occhi aperti, anche se… sì, gli mancava il padre. Era morto già da un pezzo. Il ragazzino aveva avuto solo il tempo di conoscerlo per fissarne l’immagine nella memoria e, in seguito, non s’era mai rassegnato all’idea d’essere orfano, costretto a lavorare per aiutare la madre, per quanto lavorare gli piacesse: lo inorgogliva. Si sentiva un grande uomo.

Per passatempo, il ragazzino e gli amici si prendevamo a sassate giocando a “guardia e ladri”. Qualche testa si rompeva. Eccome se si rompeva! Ma crescevano ugualmente sani e robusti. Be’! Non tutti: alcuni non ce l’hanno fatta. Non per le sassate. Sono morti durante una guerra che non hanno mai capita. Come suo padre. Come suo fratello. Come sua sorella, che però non aveva mai combattuto. Sì, a proposito di guerra, era un po’ deficiente. Si era laureato in scienze politiche perché voleva saperne di più. Doveva dire grazie a quella santa donna di sua madre, scomparsa anche lei prematuramente. Se fosse sopravvissuta, si sarebbe vergognato un po’ nei suoi confronti; le sarebbe toccato dirle che, anzitutto, pur avendo letto molti libri, non era mai riuscito a capire un accidente di questa storia dei confini territoriali. Le sarebbe toccato pure dirle che era diventato fabbro, nonostante gli studi. Però, aveva ereditato l’arte dal padre, che, tuttavia, non aveva mai potuto insegnargliela.

Il suo mestiere gli aveva consentito, a ogni modo, di costruire una modesta casetta, pochi metri quadrati – intendiamoci! -, ma simbolo di grande appagamento. Non era una villa o una tenuta, ma non gl’importava. Per lui lo era. Lo era a tal punto che, quel giorno in cui trovò l’anomalo visitatore, una piccola parte di lui si sentiva quasi onorata. Chi mai – si chiedeva – sarebbe potuto venire a fargli visita?  Se ne stava lì, lo studiava ed egli non sapeva se accennare a un sorriso o a una smorfia di severità.

Lo sconosciuto, pur vedendolo perplesso, non gli rivolse alcuna parola e lo fissò per alcuni lunghi e raggelanti minuti. Per contro, il proprietario, animato dalla volontà d’accoglienza, andava convincendosi che, forse, quell’uomo gli era stato inviato da Dio affinché desse prova del suo santo spirito di comunione e fratellanza. Il suo sguardo trasmetteva una certa superbia, ma non se ne curò. Era ben vestito e composto; la sua postura lasciava intravvedere una naturale disposizione alla quiete e al rilassamento.

Quando il proprietario si fu deciso a parlare, egli, con un gesto solenne e perentorio della mano, della quale fu mostrato il palmo, lo tacitò per esordire al suo posto. Gli disse che, nel segno della democrazia mondiale, sarebbe stato corretto che, con effetto immediato, la camera da letto e la stanza da bagno gli venissero cedute. Il proprietario fece fatica ad ascoltare quella sentenza che lo privava brutalmente di alcuni elementi della sua umile dimora, guadagnata in parecchi anni di sacrificio, ma si votò a saggezza e temperanza, considerando che non sarebbe stato disdicevole dormire sul divano e urinare o defecare in giardino. Accettò in nome di Dio e della Democrazia. Col tempo, la situazione si complicò terribilmente, anche perché lo sconosciuto si rifiutava d’instaurare col proprietario una qualsivoglia relazione, anzi, non lo degnava neppure d’attenzione.

Tre mesi dopo il proprio ingresso, lo sconosciuto fece sapere, attraverso una specie di documento stracolmo di bolli e firme, prodotto con calligrafia incomprensibile e depositato in bella vista sulla tavola delle vivande, che anche la cucina e i due vani restanti sarebbero diventati sua proprietà: al proprietario sarebbe stato concesso una sorta d’imprecisato comodato d’uso. A quel punto, protestò con veemenza. Gli riusciva difficile credere che lo volesse il cielo. C’era qualcosa di ingannevole. La sua protesta sortì una conseguenza devastante: fu minacciato di espulsione da tutti i processi democratici! All’idea di rinunciare ai valori d’una vita fu pervaso da disgusto e nausea, cosicché si rassegnò, se ne fece una ragione, come si suol dire, e andò a vivere nel garage di fronte alla casa… ex casa. Il garage, di fatto, non gli apparteneva, tuttavia, seguendo la nuova logica, gli parve naturale occupare un luogo che, di fatto, era vuoto, disadorno e anche disabitato.

Da quel posto, tuttavia, cominciò a covare collera e voglia di vendetta. Se ne vergognava, è vero, ma, quanto più tentava di darsi un contegno, tanto più diventava furioso. Nello stesso tempo, era alquanto terrorizzato dalla figura ipnotica dell’usurpatore. Si rese conto, in alcune circostanze, che doveva essere un tipo piuttosto facoltoso e potente perché riceveva spesso in visita oscuri personaggi in doppiopetto armati fino ai denti. “La Democrazia va difesa col sangue” pensava, di tanto in tanto.

In quei giorni, si chiedeva come avrebbe potuto far valere i propri diritti. Ci voleva un’azione di forza, ne era conscio. Con una certa operosità e col sangue agli occhi per la rabbia, raccattò delle pietre e, all’alba d’una mattina qualunque, cominciò a scagliarle contro la finestra dalla quale lo sconosciuto era entrato. Non voleva diventare antidemocratico, ma era persuaso che riconquistare una casa guadagnata con fatica e dolore fosse un supremo atto eroico-democratico. Al frangersi del primo vetro, però, vide comparire – sarebbe meglio dire “materializzarsi dal nulla” – una squadra di energumeni in divisa mimetica, che imbracciavano ciascuno un fucile. Non ebbe neppure il tempo di provare paura: fu subissato da calci e pugni e scaraventato sanguinante sulla strada. Riavutosi, decise di fingersi morto per un po’ o, per lo meno, di lasciare intendere che la sua persona non costituiva più una minaccia per la nuova Democrazia. Essi, soddisfatti dall’efficacia dell’intervento, lo abbandonarono sulla strada ed egli intuì, a quel punto, di essere nuovamente libero.

Può sembrare paradossale, ma gli si gonfiò il petto di gioia alla sola idea di pianificare una vera e propria fuga dal paese. E così fu: corse via e si diede al vagabondaggio per un po’; da ultimo, quantunque privato di tutto, ebbe l’impressione di toccare con mano la libertà. Presso un porto qualunque, del quale non conosceva neppure il nome, riuscì ad evitare la sorveglianza e ad infilarsi in un container diretto all’estero. Il viaggio fu lungo e, a un certo punto, anche tormentoso. Fu assalito, naturalmente, da angoscia e abbattimento: mille e più pensieri lo assillavano. Che tipo di Democrazia avrebbe trovato nel nuovo paese? Come lo avrebbero accolto? Avrebbe potuto ricominciare a lavorare? Avrebbe potuto ricostruire la propria casetta? E se avesse trovato un’altra guerra ancora più ambigua e cruenta di quella del suo paese?

Stava per perdersi d’animo, quando si rese conto che la nave era già approdata a destinazione. Dove si trovava? Udì un rumore assordante e fu invaso da una luce che lo accecò. Lo stordimento fu tale che non riuscì a percepire neppure la propria collocazione nello spazio e nel tempo. Qualcuno lo prese sottobraccio ed egli trasalì dalla paura. Poco dopo, capì che la presa non era affatto violenta. Anzi, qualcun altro aveva pure provveduto a mettergli una coperta sulle spalle. A poco a poco, fu in grado di aprire gli occhi. Notò subito l’immensa diversità di uomini e cose, una diversità che aveva solo studiata sui libri. Venne fatto salire su un pullman assieme ad altri conterranei che, con grande stupore, si ritrovò accanto. In tutto quel caos, cominciava a percepire qualcosa di familiare. Il viaggio su strada non fu lungo. O, forse, sì. Era talmente immerso nei pensieri da non riuscire ad averne coscienza. Non più di un’ora dopo, gli venne offerto un pasto caldo: spalancò gli occhi e ricominciò a pensare alla Democrazia tanto studiata. La gente che lo aveva accolto stava per restituirgli ciò che gli era stato tolto con la forza.

Era sempre stato un ottimista inguaribile, un sognatore, pertanto, in quelle circostanze, il suo primo pensiero fu la casetta che era stato costretto a lasciare. Chissà per quale strano motivo, pensò che qualcuno, di lì a poco, avrebbe provveduto a cacciare gl’invasori. D’altronde, le buone letture gli davano ragione, i giornali altrettanto: c’erano le risoluzioni e gli accordi internazionali che vietavano l’occupazione territoriale. Ne era certo: qualche governo avrebbe, prima o poi, inviato le proprie truppe di liberazione in una vera missione di pace.

I giorni passarono tra attese snervanti; non capiva ancora dove si trovava, soprattutto perché era obbligato a stare all’interno di una struttura le cui mura e i cui varchi d’ingresso erano sorvegliati da militari armati. Nessuno gli faceva del male, è vero, com’è vero che non gli era consentito uscire o fare domande. Chiese un paio di volte di poter parlare con un responsabile, ma l’interprete, un suo connazionale, gli riferì che non era possibile e, solo in alcuni giorni, uno o due al mese, i funzionari si sarebbero fatti vedere per interrogarli. “Perché dovrebbero interrogarci? Quali sono le nostre colpe? Io sono stato picchiato, privato della mia proprietà e… dovrei pure subire un interrogatorio?” si chiedeva con insistenza. Capì, a poco a poco, d’essere troppo ingenuo e benevolo verso quelle persone, così da far maturare dentro di sé la voglia di fuggire da quel posto.

Non poteva stare rinchiuso in quell’ambiguo alloggio, mentre qualcuno disponeva a proprio piacimento della sua casa. Ingenuo sì, ma codardo no. Una notte, approfittando della distrazione delle guardie, oltrepassò la recinzione e corse via. Non era da solo. Alcuni suoi compagni d’avventura avevano pianificato tutto già da tempo. Li seguì senza esitazione. Era talmente grato per questo dono di libertà da prestare loro ogni servizio necessario. Per il resto, era un alleato silenzioso. Vagabondarono per qualche giorno. Poi, incontrarono altri fuggitivi, che sembravano aspettarli. Erano furbi i suoi nuovi amici. A stare con loro s’imparava molto. Sapevano cavarsela in tutte le complesse situazioni in cui, loro malgrado, si trovavano. Da quell’incontro, tuttavia, le cose cambiarono. Infatti, cominciò a sentire discorsi molto strani e inquietanti, tanto da esserne allarmato e sconcertato. Il più anziano del gruppo tirò fuori delle cartine per istruirli sul percorso da seguire; poi, mostrò le armi in loro possesso e ordinò di sparare a chiunque avesse sbarrato loro la via. Impallidì. L’obiettivo non gli era noto, ma quanto più si procedeva, tanto meno voleva saperne. Aveva visto troppe armi nella sua vita, ma non ne aveva mai usata una né intendeva usare quella che gli era stata assegnata. Eppure, per gli altri, egli aveva già un ruolo.

“Perché dev’esserci sempre qualcuno a decidere per me? Prima, occupano la mia casa, poi mi rinchiudono in un posto che non conosco e, per giunta, mi devono interrogare… da ultimo, mi danno un ruolo da protagonista in un progetto criminale. Io non voglio uccidere, rivoglio la mia casa e la mia quiete, la mia semplicità, voglio sposarmi e avere dei figli. Null’altro. Io non sono un eroe.”

Così, per la terza volta in pochi mesi, gi toccò scappare. Voleva tornare nella propria terra. Era stato uno stupido a lasciarla. S’incamminò verso il nulla, ormai reietto, ma sempre più risoluto. Non sapeva ancora che lo attendevano più o meno tre mesi di viaggio, oltre a una serie di sventure e peripezie inevitabili per sottrarsi alle varie polizie. Insomma, non sapeva d’essere in cammino verso il rischio di morire. Col tempo, però, sentiva crescere in sé la collera e la voglia di vendetta. Sulle prime, considerò insoliti e occasionali quei sentimenti di odio, ma, a poco a poco, non poté più fare a meno di accettarli come parti del proprio essere. Ogni qual volta in cui l’abbattimento stava per avere la meglio su di lui, gli comparivano innanzi le immagini del tizio seduto sul suo divano, dei soldati che lo avevano pestato a sangue, di quelli che sorvegliano la struttura di accoglienza. A nessuno di loro importava della sua casa, della sua libertà. Si convinse che, forse, i suoi compagni di fuga avevano delle buone ragioni per essere così aggressivi e violenti. Queste congetture e queste sensazioni lo accompagnarono proprio fino a un passo dalla sua casa. Vi giunse con entusiasmo e grinta, pronto anche a morire, pur di riprendersela.

Ma non la trovò.

L’intera zona era stata spianata, attorno a essa spiccava lucente il filo spinato e, ancora una volta, uno schieramento di soldati era piazzato lì a scoraggiare chiunque volesse introdurvisi di soppiatto. In quel momento, decise di abbandonare la pace e la speranza.

Era certo, a quel punto, che sarebbe riuscito a uccidere.

“Oggi, sono ciò che non avrei mai immaginato di essere, sono ciò che non so di essere; io non ho molta coscienza di me. Sono a capo di una milizia clandestina armata. Noi uccidiamo al solo scopo di uccidere. Noi uccidiamo coloro che ci hanno uccisi tempo fa perché… noi non siamo vivi. Non abbiamo una famiglia, non abbiamo una casa, non apparteniamo più ad alcuna realtà. Chi ci cerca vuole la nostra stessa morte. Viviamo di morte e di morti.”

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