L’ente superiore

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Da mesi, ormai, si crucciava nel tentativo di giustificare il proprio disagio economico; e bisogna dire, subito e chiaramente, che chiamare disagio economico quella condizione umana a causa della quale a una famiglia qualsiasi vengono a mancare pasti regolari, abbigliamento adatto alle stagioni fredde e, da ultimo, una certa libertà di movimento è già un vantaggio intellettuale, cioè un primato della specie che consiste nel poter fare della vita un racconto. Insomma, era prossimo all’indigenza. Non c’era molto da dire in merito, ma, ogni qual volta in cui ne faceva un resoconto narrativo, da elargire ad altri o anche solo sé stesso, qualcosa cambiava e la povertà diventava ora una questione morale ora una prova spirituale e così via. Tra le altre cose, l’uomo, in preda alla disperazione, è in grado di fare cose che un osservatore qualunque interpreta solamente in due modi: o con la derisione o con la feroce condanna. Ciò accade perché il povero, nei momenti di maggiore sconforto, è abilissimo a rendersi o comico, ridicolo e imbarazzante o aggressivo, imprudente e irascibile.

Nella vicenda che ci accingiamo a esporre, il protagonista, un disoccupato sulla cinquantina, con due figli minorenni da mantenere, aveva pure la cosiddetta aggravante, vale a dire il conseguimento di una laurea, obiettivo raggiunto dopo i quarant’anni e in virtù del quale si sentiva autorizzato a cercare spiegazioni, analizzare le parole, sviluppare processi logici. Si badi bene! Non era così sciocco da pensare che l’autorizzazione gli giungesse dall’acquisizione del titolo. Era solo orgoglioso d’avere studiato e, soprattutto, di continuare a farlo e, anche quando non conosceva la materia, non rinunciava a farsi delle domande e consultare testi e documenti. Come abbiamo già scritto, nell’ultimo periodo, ultimo rispetto al tempo di narrazione che abbiamo scelto, aveva un assillo molto preciso e che aveva il nome di “assegno unico”.

“Unico” ripeteva tra sé “in che senso? Non che non sappia che cos’è. Non lo sapevo fino a qualche tempo fa, ma adesso… boh! Comunque… unico nel suo genere? O nel senso che non ce ne saranno altri? Be’! Avrebbero scritto una tantum… mah! Può darsi che abbia un tale valore da essere unico. Allora, chissà quanto mi daranno!”. Sì, è vero, certe considerazioni erano davvero elementari, indubbiamente irrilevanti, forse, non del tutto adeguate all’esame di realtà. In fondo, egli stesso sapeva che l’eventuale risposta nulla avrebbe aggiunto all’attesa della pubblica assistenza. Era separato e l’ex moglie, non di rado, gli causava pure qualche grattacapo giudiziario, come se non conoscesse le sue entrate: di fatto, se lo aveva lasciato per questo, perché gli faceva pervenire così di frequente le ingiunzioni di pagamento? Ecco: se avesse percepito l’assegno unico, ne avrebbe dato una parte a lei. Nonostante tutto, egli era curioso, cosicché, durante una notte d’insonnia come tante altre, si rivolse alla rete, digitando l’insuperabile “che cos’è?”. Gli comparve immediatamente la possibilità di accesso a entesuperiore.gov. Cliccò, senza esitare, e ciò che stava cercando s’illuminò davanti ai suoi occhi: “L’Assegno è definito unico, poiché è finalizzato alla semplificazione e al contestuale potenziamento degli interventi diretti a sostenere la genitorialità e la natalità, e universale in quanto viene garantito in misura minima a tutte le famiglie con figli a carico”. Lesse due o tre volte il testo del “che cos’è?”, ma, a ogni lettura, s’incupiva sempre di più. Stava proprio per innervosirsi; la perplessità stava per mutarsi in vera e propria agitazione. “Dunque, l’assegno sarebbe definito unico perché semplifica e potenzia qualcosa? Quale sarebbe il legame tra l’unicità e la semplificazione o il potenziamento? Questa è una finta risposta. È inaccettabile!”. Probabilmente, il legislatore aveva avuto delle buone ragioni per produrre quel testo, ma egli era un cittadino semplice e voleva saperne di più, ne aveva il diritto. Non si diede per vinto, come si suol dire. Nel corpo del testo, più in basso, il redattore citava un acronimo: ISEE, sulla base del quale si stabiliva l’importo dell’assegno. Si sentì motivato ad esplicitarlo. “Chissà cosa significano queste lettere” si disse. Non fu difficile scoprirlo; fu sufficiente una piccola ricerca: “Indicatore della Situazione Economica Equivalente”. Per la seconda volta, fu sovrastato dall’incertezza: “Equivalente a cosa?”. Consultò subito un vocabolario online, nel timore d’avere delle mortificanti lacune, ma non ne trasse appagamento. Anzi, poco dopo, per sua fortuna, il sonno ebbe la meglio sull’interesse linguistico e il telefono gli cadde dalle mani.

A molti di noi, tutto questo potrebbe sembrare singolare o stravagante; tuttavia, l’atteggiamento di quest’uomo, in sostanza, era l’esito umano e intellettuale di circa otto mesi di telefonate, appuntamenti, rinvii, equivoci ed errori con i quali l’Ente Superiore gli aveva sempre garantito l’assegno, senza mai accreditare sul suo conto corrente la somma che, per definizione, avrebbe dovuto essere equivalente. Tutti coloro ai quali chiedeva consiglio rispondevano che era impossibile. Quasi stentavano a credere alla sua narrazione; al contrario, il più delle volte, erano più che convinti che fosse stato lui stesso a sbagliare qualcosa. In verità, sebbene molto di rado l’uomo sia capace di riportare fedelmente i fatti, giacché, pure in buona fede, ciascuno di noi tende ad estendere al mondo circostante il proprio malessere o il proprio benessere, almeno in questo caso il pover’uomo non aveva rielaborato in alcun modo la cronistoria, soprattutto perché sarebbe stato impossibile rielaborare una trama che, di fatto, non esisteva.

Nel mese di marzo, cioè quand’erano già trascorsi quasi due mesi dalla richiesta, era andato, un po’ preoccupato, a chiedere aiuto a un sindacato. Lungo la strada, a dire il vero, si era poste le solite insidiose domande, non potendone fare a meno. D’altronde, era fatto così. Anche il sindacato, tra le altre cose, era noto a tutti mediante un acronimo e questo acronimo conteneva la prima lettera della parola “lavoratori”. Se, dunque, egli era un disoccupato, non gli spettava quel tipo di assistenza: erano scherzi della logica, ne era consapevole, tutto sommato, ma era quasi mai riuscito a sottrarsi a essi. A ogni modo, varcata la soglia della sede del sindacato, il desiderio di trovare una soluzione gli aveva fatto dimenticare ogni dilemma. Aveva esposto, quindi, con estrema cura i fatti alla persona che lo aveva accolto e che aveva il suo nome in agenda. In pratica, aveva parlato del modo in cui aveva fatto la richiesta, del proprio stato di divorziato e, non senza imbarazzo, aveva reso partecipe l’impiegata delle proprie difficoltà: non perché volesse farne mostra, ma perché il bisogno era tale da sopraffare, talora, la ragione e la discrezione. La signora del sindacato, che probabilmente era più che abituata a ricevere gli sfoghi degli utenti, non aveva degnato di particolare attenzione quello dell’ultimo e si era affrettata a rispondere unicamente nel merito della questione: “Purtroppo, noi stessi abbiamo ricevuto direttive fumose dall’ente superiore…”. “Direttive fumose”, “Ente Superiore”: a sentire queste parole, l’uomo aveva avuto una strana e preoccupante sensazione di nausea e stordimento, a tal punto da non riuscire neppure a controbattere. Con evidente mestizia, aveva lasciato il sindacato per fare ritorno a casa. Si era sentito oltremodo frustrato anche perché, per la prima volta, aveva intuito che, almeno in quel momento, non si poteva fare altro che attendere.

Attendere, però, per chi ha fame significa non sapere dove sbattere la testa. Il tempo – bisogna dirlo – non è una categoria di cui i bisognosi si possono servire facilmente.

Fatta questa doverosa escursione narrativa, necessaria a che si comprendesse il rapporto tra l’inizio del fatto letterario e quello della storia, ci concediamo adesso una licenza di metodo: sostituiremo il trapassato prossimo col passato remoto e con l’imperfetto narrativo, così da rendere più efficace e puntuale il discorso. Confidiamo, pertanto, che, grazie a questo stratagemma, il lettore possa ricostruire, più o meno agilmente e piacevolmente, ciclo e ritmo della vicenda, in una parola, la durata.

Stanco, svogliato e avvilito, l’uomo non si curò più del proprio credito. Si limitava, di tanto in tanto, a dare un’occhiata al conto corrente, senza tuttavia preoccuparsi troppo dei continui insuccessi. Un giorno, però, quando meno se l’aspettava, anche se sarebbe più corretto dire che non s’aspettava più alcunché, ricevette una telefonata dal sindacato. Non ci volle poco a farle ardere di speranza ancora una volta. Era già entrato il mese di giugno; tre mesi gli parvero sufficienti, cosicché si convinse immediatamente che quella fosse la volta buona. A chiedergli come avesse fatto a tirare avanti, non si sarebbe mica ottenuta una risposta limpida, poiché egli stesso non lo sapeva. Viveva di stenti. Lavoricchiava. Di conseguenza, il denaro dell’assegno, poche centinaia di euro, che per alcuni sarebbero stati irrilevanti, per lui erano decisivi. Null’altro. Naturalmente, subito dopo la telefonata, si precipitò al sindacato con tutto l’impeto di cui era capace, tanto che vi giunse col fiato corto e il cuore in gola. L’appuntamento, questa volta, non fu immediato, ma egli non se ne preoccupò. Era talmente felice che avrebbe potuto attendere anche per ore. Non era conscio del fatto, però, che avrebbe atteso davvero per ore. A ogni modo, ne valeva pena, anche se il tempo passava, non protestava. Come uno scolaretto diligente, restò al proprio posto e, lentamente, si addormentò. Dopo quasi due ore, qualcuno lo stava scotendo; si svegliò di colpo e, frastornato, seguì meccanicamente le indicazioni della voce che lo guidava. Entrò nella stanza che aveva già esplorata nel mese di marzo e si piazzò sorridente al cospetto dell’impiegata, sua vecchia conoscenza.

“Secondo le nuove disposizioni dell’ente superiore, adesso occorre che lei faccia una richiesta specifica per avere l’assegno” annunciò con fredda professionalità la donna.

“Io ho già fatto la richiesta, signora” rispose sbigottito l’uomo “Lei dovrebbe ricordarlo. Controlli pure in archivio! Guardi! Ho con me la copia.”

“Sì, ricordo bene, ma adesso ce ne vuole un’altra, una specifica, in modo che il suo profilo risulti completo.”

In pochi istanti, fu preso e stritolato dalla delusione Ciò nonostante, acconsentì: “D’accordo. Facciamo questa richiesta specifica!”

Rimase in quella stanza per quindici minuti circa, rispondendo alle domande, mostrando documenti e mettendo delle firme qua e là. Alla fine, si sentì dire: “Quarantasette euro e cinquanta.”

“Quanto?” chiese con un certo stupore.

“Quarantasette euro e cinquanta.” ripeté la donna.

“Ehm… signora… io… sì, ecco a lei!” disse quasi balbettando. Dopodiché, afferrò il resto e andò via.

Com’era possibile che un uomo senza denaro dovesse avere del denaro per fare una richiesta per l’ottenimento del denaro di cui aveva bisogno per vivere? Con quei quarantasette euro e cinquanta avrebbe fatto la spesa. E adesso? Bisognava rimediare, farseli prestare. Nel fine-settimana sarebbero arrivati i figli. Non aveva il tempo per guadagnarseli. Il tempo, ancora una volta: o come attesa e, di conseguenza, speranza, o come ricordo di qualcosa di rasserenante. Ricordare qualcosa, però, significava affliggersi e rischiare di diventare inattivi, laddove l’attesa, di per sé, era già una dorma d’inattività.

Da quel giorno le cose cambiarono; fino ad allora, tutto sommato, aveva gestito la questione con una certa flemma: rassegnazione e consapevolezza avevano fatto, per così dire, la propria parte, quali suggeritrici occulte, ma dinamiche e molto produttive. Dopo l’ultimo colloquio, tuttavia, e l’affronto dei quarantasette euro e cinquanta, non s’era dato pace. Non faceva altro che pensare all’unicità di quell’assegno.

“Ecco! Dev’essere questa l’unicità.” si diceva prendendosi gioco di sé stesso “È talmente difficile averlo che, quando arriva, per forza lo consideri unico!”. In realtà, i conti non tornavano perché tante altre persone lo avevano ricevuto in tempi più o meno regolari, cosicché si lasciava catturare pure dalla superstizione, che non aveva mai fatto parte della sua concezione di vita. E i giorni passavano. Al sindacato, dicevano sempre che dipendeva tutto dall’Ente Superiore: non gli restava altro da fare che provare a mettersi in contatto con l’Ente Superiore. Così fece. Una mattina del mese di luglio, compose il numero trovato, ancora una volta, su internet. La voce preregistrata che gli rispose lo guidò attraverso una quantità asfissiante di numeri da digitare a seconda del tipo di richiesta: una prova dura per chi ha i nervi a pezzi, ma la superò. Fu pervaso dalla gioia, quando ebbe capito che, dall’altra parte, un essere umano s’era reso disponibile. La gioia, però, si mutò presto in amarezza. La linea fu interrotta quasi subito; il che quasi gli tolse il respiro. Rimase immobile per qualche istante; dopodiché, senza perdersi d’animo, compose il numero per la seconda volta, pronto a sopportare la prova: musichetta, registrazioni vocali, numeri da digitare. Anche la seconda volta, arrivò a sentire una voce umana, anzi, adesso, ebbe il tempo di esporre i fatti all’operatore. Ne fu appagato e rassicurato, ma, quando l’operatore stava per chiedergli il numero della pratica, la linea s’interruppe nuovamente. A questo punto, ogni descrizione del suo stato d’animo sarebbe vana e inadeguata, oltre ad apparire irreale. Pertanto, passiamo oltre e raccontiamo del terzo tentativo. Sì, fece un terzo tentativo, sottoponendosi all’estenuante ricerca d’un essere umano. A quanto pare, la terza volta fu quella giusta, almeno in parte. Fece di nuovo una sorta di radiocronaca dei fatti dell’assegno unico mancante e fornì tutti i dati richiesti. Ciò che fu costretto ad ascoltare alla fine della conversazione gli procurò un dispiacere simile quasi a un lutto per intensità.

“Signore, noi non abbiamo accesso a certi documenti. In materia di assegno unico, non sappiamo neppure noi…”

“Non abbiamo accesso?”, “Non sappiamo neppure noi?”, “Cosa?”: la mente gli echeggiava di queste e altre sferzanti domande, tutte simili e tutte sferzanti. In altri termini, bastava riformulare i dubbi con un banalissimo “Cioè?” per generare una crisi paralizzante e in cui entrambi gli interlocutori diventavano vittime, entrambi condannati a scontare una forma di povertà: l’uno, l’operatore, era annientato dalla povertà delle proprie funzioni; l’altro, invece, dalla povertà dei beni primari. Rimasero in silenzio per dieci o quindici secondi, come se qualcuno, da un momento all’altro, potesse dire qualcosa di confortante, poi la linea, per l’ennesima volta, s’interruppe, privandoli anche d’un saluto cordiale.

Ne seguì l’estate  di un uomo cui riesce agevole interpretare solo il senso di abbandono, per quanto questo fosse ricco di espedienti e sforzi d’ogni genere per sbarcare il lunario. Di tanto in tanto, si recava presso un ATM qualsiasi, altro acronimo che, se esplicitato, farebbe impallidire la più parte di coloro che lo usano, Automated Teller Machine, e che tutti noi conosciamo come sportello bancomat. Era perfettamente conscio del fatto che sul conto avrebbe trovato pochi euro, ma non riusciva mai a sottrarsi a non farsi del male, a non mortificarsi.

Trascorsero esattamente altri due mesi, senza che egli si decidesse a fare qualcosa. Il problema, semmai, consisteva nel non sapere cosa fare o a chi rivolgersi. Sindacato ed Ente Superiore sembravano essere degli spettri pericolosi. Il denaro che racimolava sobbarcandosi a ogni genere di fatica non bastava mai. Non c’era proprio alcunché da fare, benché il far nulla fosse alquanto deprecabile. Al nulla, infatti, poteva opporre solo un’altra telefonata all’Ente Superiore. Giunto il mese di settembre, per qualche giorno, si lasciò tormentare dall’indecisione; da ultimo, scelse di donare altre due ore, almeno due, alla terribile prova. Qualcosa era cambiato. Lo percepiva. E se n’avvide subito. Sì, dovette superare i soliti ostacoli e i tranelli numerici, ma, durante la conversazione, la linea reggeva e l’operatore appariva affabile e accogliente. Gli parve quasi di sognare. Il fatto è che l’essere umano bisognoso, a meno d’essere stato vessato e spossato a lungo, s’illude facilmente e s’accontenta di molto poco: basta un po’ di tenerezza oppure una raffinata porzione di finta compassione per fargli dimenticare la sventura. Infatti, il pover’uomo fu costretto a ricredersi molto presto.

“Signore, la sua domanda è stata rigettata a causa di un codice fiscale non corretto. Il sindacato era stato messo al corrente del fatto che la domanda non era andata a buon fine già a fine luglio.”

Finito che ebbe di ascoltare quel messaggio, lasciò cadere il telefono dalle mani, quasi senz’accorgersene. Ormai, in realtà, il bisogno aveva ceduto il posto a una vera e propria battaglia ideale, la cui angosciante e alienante contraddizione consisteva nell’assenza d’un nemico. Andare per le strade a urlare i torti subiti sarebbe stato, forse, più efficace che continuare stupidamente a tentare d’assegnarsi un ruolo e un compito lungo la linea telefonica. In effetti, sarebbe potuto tornare al sindacato a coprire d’insulti la signora che, secondo l’Ente Superiore, l’aveva ingannato. Dare in escandescenze, tuttavia, avrebbe comportato un rischio superiore a quello corso fino a quel momento: essere privo del sostegno economico pubblico, che gli spettava. Adesso, cominciava pure a sentirsi derubato, non altrimenti che se il denaro gli fosse stato fatto scomparire da qualcuno che egli aveva accolto gentilmente nella propria casa. Dunque, non era più disposto a desistere. E gli era ormai chiaro che l’unica cosa da fare era, purtroppo, tornare al sindacato. Non sapeva quando e perché, ma era sicuro che lo avrebbe fatto. Aspettava solo di calmarsi per avere la certezza di non fare sciocchezze.

Era sempre stato un uomo ammodo ed estremamente pacato. Neppure la disgrazia economica, che insisteva su di lui ormai da anni, aveva mai alterato il suo equilibrio o il suo buon senso. Dopo aver perso il lavoro, era stato lasciato dalla moglie; aveva versato qualche lacrima, ma se n’era fatto una ragione; anzi, aveva sempre tentato di mantenere un rapporto sano con l’ex per sottrarre i figli ai traumi causati dalle separazioni disastrose. S’era sempre dato da fare, non rinunciando mai ad alcuna opportunità di lavoro, foss’anche mezza giornata come lavapiatti a pochi euro. Insomma, se affermiamo che era davvero una splendida persona, siamo certi che l’aggettivo “splendida” non sarà mai vuoto né inappropriato.

Al sindacato, non potevano passarla liscia: questa era per lui un’incrollabile certezza… anche perché non gli restava altro che il sindacato. Di conseguenza, un paio di giorni dopo l’ultima esasperante comunicazione dell’Ente Superiore, vi si recò. Questa volta, tuttavia, non chiese un appuntamento, come aveva sempre fatto nel rispetto delle regole indicategli. Si presentò sul posto come una specie d’incursore, risoluto e implacabile. Lo si intuiva già dall’andatura. La sala d’ingresso era piena di gente in attesa; l’uomo filò dritto come un carrarmato verso una specie d’accettazione disposta di fronte all’accesso principale.

“Prego, signore, mi dica!” esordì una giovane donna con affettata cortesia.

“Non faccia finta di non conoscermi” ribatté lui severo e con un leggero tremito nella voce.

La giovane ne fu talmente spaventata che, pur simulando tranquillità, non poté fare a meno di cambiare registro: “Sì, in effetti, mi ricordo di lei, ma… aspetti un attimo! Ecco… vedo che oggi lei non ha un appuntamento. Non possiamo riceverla.”

“Invece, mi riceverete, ne sono certo!”

I due si guardarono per qualche istante con indefinibile intensità; poi, la giovane donna disse: “Si accomodi! La metterò in coda. Ma dovrà attendere un po’.”

“Attenderò” aggiunse lui, anche se questa aggiunta sembrava più una minaccia che una forma di consenso.

L’attesa fu lunga, incalcolabile, estenuante: due, forse tre ore. Rimase immobile per tutto il tempo, come fosse inchiodato alla sedia, lo sguardo vitreo, impenetrabile, il viso privo di smorfie che potessero, in qualche modo, rivelarne i pensieri.

Il suo momento arrivò in questo modo: né più né meno che fare un’altra telefonata all’Ente Superiore e vagare tra mondi sconosciuti. Arrivò, tuttavia, non perché qualcuno gli avesse detto che toccava a lui, ma perché aveva deciso, a un certo punto, che meritava d’entrare. L’attesa era stata sufficiente; e nessuno tentò di ostacolarne l’avanzata. Si precipitò nella stanza della solita signora e, senza salutare né introdurre l’argomento, le urlò in faccia: “Voi sapevate che la domanda era stata rigettata perché il codice fiscale era sbagliato. Perché non me l’avete detto?”

La signora, esterrefatta e impaurita, lo fissò con gli occhi spalancati, non sapendo come rispondere. Poi, gli disse: “Non so di cosa sta parlando. Si calmi! Mi faccia capire! Se posso aiutarla…”.

“Se posso aiutarla? Mi sta prendendo in giro? Va bene. Quelli dell’Ente Superiore dicono di avervi comunicato che la domanda è stata respinta lo scorso luglio a causa di una errore nel codice fiscale e dicono pure di avervi informati tempestivamente. Io ho pure pagato quarantasette euro e cinquanta… Insomma, adesso lei mi deve dare delle spiegazioni chiare.”

“Signore, controllo subito…”

Bisognava attendere ancora una volta; forse, non molto, ma la sostanza era sempre la stessa. Picchiettando sul tavolo con le dita, non toglieva gli occhi di dosso alla signora, tutta sprofondata nello schermo del computer.

“Signore, io ho controllato attentamente, se vuole glielo posso mostrare. Il codice fiscale è correttissimo.”

“Come? Correttissimo…” replicò con un filo di voce, incredulo e stanco.

“Sì, è corretto e noi non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione.”

Vedendo l’uomo afflitto, la signora aggiunse: “Facciamo una cosa! Proviamo a chiamare l’Ente Superiore da qui! Che ne dice?”

L’uomo non rispose, ma il silenzio autorizzò la signora a comporre il numero. La conversazione, stranamente, durò meno del previsto. Chissà, forse, quelli del sindacato avevano un canale preferenziale. Egli, pur essendo rimasto a meno di un metro, s’era isolato del tutto, senza percepire altro suono, fuorché quello irriconoscibile d’un ronzio mentale che gli aveva pure provocato sonnolenza.

“Signore, l’operatore mi ha riferito che la sua pratica sarà inviata al governo centrale dell’Ente Superiore… Nessuno, al momento, riesce a capire che cosa è successo. Ci assicurano che presto ci daranno delle informazioni. Signore, signore? Mi sta ascoltando?”

No, non la stava ascoltando. Non aveva ascoltato neppure una sillaba. In effetti, a un certo punto, volse lo sguardo verso di lei, ma non pensava affatto alle sue parole né intendeva comunicarle qualcosa. Di scatto, infatti, si alzò e andò via. Non telefonò più all’Ente Superiore né si fece vedere altre volte al sindacato. Dell’assegno unico non si ebbero altre notizie. Forse, col tempo, lo ricevette. Forse, no.

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