L’uomo e il frigorifero

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Si guardò intorno con estrema prudenza, prima di afferrare la maniglia. Sapeva d’essere solo; d’altronde, in quella stanza, tre metri per tre metri, non ci voleva mica un’indagine accurata per capirlo. Eppure, a causa del nervosismo che lo attanagliava ormai da giorni, aveva una sorta di turbamento paranoide che gl’impediva di svolgere con naturalezza anche le operazioni routinarie. Dunque, si sentiva osservato; il che, pur non sfociando in un vero e proprio morbo, appesantiva parecchio le sue giornate. Perché si comprenda appieno questo fenomeno è necessario mettere in chiaro alcuni elementi essenziali della sua esistenza.

Prima di tutto, bisogna dire che non era più un giovincello: quasi sessantenne, aveva sufficiente esperienza di vita per dare un nome ai propri stati d’animo. O, per lo meno, si presumeva ne avesse. Quest’ultima considerazione sia fatta perché, com’è noto, tutti noi perdiamo l’equilibrio proprio quando siamo convinti d’averlo raggiunto. Insomma, basta dire ad alta voce “finalmente, ce l’ho fatta!”, facendo pure roteare un bel pugno per aria, per scoprire miseramente di dovere ricominciare immediatamente da capo. È molto probabile che a lui fosse capitato proprio questo, ma, adesso, è davvero difficile a dirsi. Il suo aspetto era gradevolissimo. Sempre in buona forma fisica, che curava senza fanatismo, dedicava almeno due ore al giorno agli studi di filologia, materia in cui aveva conseguito una laurea, seguiva con moderata e, insieme, assidua passione la politica economica del proprio paese e si considerava un democristiano della prima ora. Non ci è dato sapere sulla base di quale principio. La combinazione di questi fattori, intellettuali e socio-politici, dava come risultato, però, un certo disagio, disagio che, tuttavia, egli era abilissimo a dissimulare, mostrandosi sempre fiero, sorridente e disinvolto. In realtà, aveva solo un’elevata capacità di resistenza. Era nato, molto probabilmente, per fare opposizione a sé stesso. E lo faceva con impareggiabile maestria.

Fino a una decina d’anni prima, aveva ancora il coraggio di pubblicare l’esito delle proprie ricerche: ne venivano fuori testi che solamente alcuni parenti e pochi amici devoti leggevano, per lo più senza capirne molto, ma che la comunità scientifica ignorava, sapendo a malapena della sua esistenza. Infatti, non era un accademico; era solo un appassionato. E si sa bene come vanno certe cose: se non si ha un’adeguata denominazione d’origine, è assai difficile far passare per buone le proprie teorie. Tra le altre cose, egli non era neppure un docente dei licei. Aveva fatto qualche supplenza nel corso della propria carriera, più per inerzia e, di conseguenza, perché era stato impossibile evitarla che per qualsiasi altro motivo. A questo punto, dunque, occorre fermarsi un attimo e riflettere sul termine “carriera”, essendo lecito chiedersi quale fosse la sua occupazione o, diversamente, come si guadagnasse da vivere.

No, non aveva una precisa occupazione; non l’aveva mai avuta e non si sa di chi fosse la colpa o quale fosse la causa. Forse, la colpa era sua, dal momento che si era sempre contraddistinto per una raffinata e stoica apatia nei confronti del mondo. Era arrivato, così, a un passo dai sessant’anni arrabattandosi continuamente per racimolare spiccioli e sopravvivere alla meno peggio, come si suol dire. Certo, non era la condizione ideale per prepararsi ad affrontare la vecchiaia con serenità: questo va detto, per quanto sia ovvio. Il fatto è che il suo vero cruccio, il più delle volte, si traduceva non già nel timore di non poter fare la spesa, sebbene la spesa fosse un problema autentico, bensì nell’offrire un’immagine di sé agli altri. Chi era e cosa faceva? I più lo chiamavano professore e, tutto sommato, questo appellativo, gli stava bene, ma egli sapeva benissimo di non essere un professore, tranne che quelle avventurine fossero sufficienti ad accreditarlo come tale. Nello stesso tempo, le lezioni private di latino e greco, che impartiva con estrema sofferenza a degli studentelli svogliati e incorreggibili, non gli procuravano tanto appagamento da consentirgli per lo meno di avviare un processo d’identificazione professionale e acquisire una visione identitaria del proprio essere. In quanto alle altre numerose pratiche di raccolta del denaro, ora in un ruolo ora in un altro della precarietà, faceva di tutto per nasconderle e, chissà, forse, non aveva tutti i torti. Già una normalissima sera in pizzeria con gli amici, per lui, diventava un bel grattacapo, lo stesso invito da parte di qualcuno era il principio di una scocciatura, ma soprattutto di un inconveniente che si sarebbe mutato presto in disavventura. Dopo mangiato, gli toccava sperare che uno dei commensali di buon cuore si facesse carico del conto da pagare. Ciò accadeva non perché volesse profittare senza ritegno della liberalità degli amici, anzi avrebbe voluto dar prova della propria generosità, ma perché il giorno dopo l’eventuale pagamento si sarebbe trovato nei guai e non avrebbe saputo come rimediare. In alcune circostanze, proprio nel tentativo di mostrare la purezza del proprio animo e, soprattutto, per il desiderio di apparire perfettamente integrato nel tessuto economico della comunità civile e non sfigurare, dava fondo a tutti i propri risparmi e pagava la cena per tutti. Non si fa alcuna fatica, pertanto, a immaginare le ricadute nei giorni successivi all’infausta scelta.

Nell’ambito delle relazioni umane, cui abbiamo appena fatto cenno, le domande che più lo infastidivano, mettendolo in serio imbarazzo, erano le seguenti: “Che lavoro fai?” oppure “Di cosa ti occupi?” o, ancora, “Quale sarà il tuo prossimo libro?”. Ogni qual volta in cui qualcuno gli rivolgeva un quesito del genere, che fa parte della chiacchiera amena cui nessuno di noi si sottrae, talora anche per dovere di aggregazione, egli si sentiva invaso da un moto di rabbia che, nel giro di pochi giorni, gli avrebbe causato qualche attacco di gastrite. All’origine del suo stato, si poteva scorgere un vecchio postulato filosofico, un postulato che alcuni romanzieri hanno trattato con grande acume: nessun uomo è definibile, fuorché attraverso il corpo sociale che gli riconosce determinate proprietà. Ebbene? Si può affermare che tale era la condizione del protagonista della nostra storia.

Molto di rado, in effetti, gli capitava di darsi pena delle proprie deficienze materiali, a meno di doverne dare giustificazione ad altri. S’è già detto, per esempio, della spesa. Non s’è detto, tuttavia, che ciò di cui meno ci preoccupiamo, di frequente, ci sorprende per l’intensità con cui sconvolge la nostra tenacia e la nostra capacità di sopportazione. Afferrando quella maniglia, quella mattina di agosto, s’era addirittura sentito male, anche se il malessere non era affatto identificabile, come tante altre cose della sua vita, d’altronde. Aveva tirato a sé lo sportello molto lentamente, quasi avesse la bizzarra e insolita paura di scoprire il contenuto dell’elettrodomestico. Così, ebbe paura di questa paura. “Che cosa mi succede?” disse tra sé, senza riuscire ad abbozzare una risposta minima e distraendosi presto dall’interrogazione. L’esitazione, in realtà, era più che giustificata, giacché non era la prima volta in cui andava incontro a questo tipo di disagio. Di recente, aprendo il frigorifero, aveva avvertito dei sintomi simili a quelli dell’attacco di panico. In ogni circostanza, era riuscito perfettamente a dominarli, ma, tutte le volte, era stato costretto a chinarsi molto lentamente e prelevare l’oggetto con particolare cautela. Tutte queste precauzioni, però, non lo mettevano al riparo da tremori, respiro affannoso e stato confusionale. Nel pieno dell’estate, sicuramente a causa della frequenza con cui si apre il frigorifero, il disturbo era peggiorato. Adesso, nel presente storico della mattina cui abbiamo fatto riferimento, era immobile e sentiva addirittura delle voci dentro la testa, le quali voci non costituivano dei suoni distinti, ma giungevano come lontanissima eco.

Pover’uomo! Il frigorifero era pressoché vuoto: una bottiglia d’acqua, un pezzo di formaggio, un residuo d’anguria, un fondo di prosciutto e uno yogurt. Il contenuto poteva variare di giorno in giorno e a seconda dell’urgenza, ma la lista è sempre assai ridotta. Lo sconforto che tale visione gli creava era tale da spingerlo verso momenti di cocente e incontrastabile frustrazione. Dalla frustrazione all’ansia e, da ultimo, all’attacco di panico, quantunque questo fosse moderato, ci voleva poco. Ancora una volta, la causa scatenante non era di certo la fame – o la sete, poco cambiava -, ma l’indescrivibile e soffocante sensazione d’impotenza e il vasto senso di fallimento che lo annientavano in pochi secondi. Il frigorifero, ormai, non era più un oggetto, come ce ne sono tanti altri, non era un elettrodomestico qualunque, ma era la misura della sua pretta identità, il confine approssimandosi al quale l’uomo diventava cosa tra le cose e si lasciava schiacciare dagli eventi, fino a scomparire.

Eh, sì, se ne rese conto: avrebbe avuto bisogno di un po’ di psicoterapia. Dentro di sé, fin dal primo pensiero in materia, non aveva fatto alcuna opposizione, anzi ne sarebbe stato più che felice. Poi, però, penso di dover pagare le sedute e, a quel punto, si ricredette.

Sarebbe stato più semplice imparare a dialogare col frigorifero. Ma in che modo? L’unico significato possibile del linguaggio di un frigorifero sta nelle cose di cui lo si riempie.

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