La felicità per la prima volta

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“Io non ho mentito. No! Non ho mentito.” ripeteva con logorante insistenza, esponendosi con l’intero corpo a lui, quasi s’immolasse a una verità ignota e dalla quale ella stessa era ormai avulsa. Era molto probabile che i fatti le fossero stati estranei, forse indifferenti, pure nell’esatto istante in cui si erano verificati. “Il più delle volte, non ero lucida. Ciò che racconto, spesso, è una specie di approssimazione alla verità, verità che io, tuttavia, non cerco più. Tu mi costringi a parlare di una donna che non esiste più. Perché devo farlo? Perché t’interessa tanto? Quella donna, certe volte, mi disgusta pure.”.

Raccontandosi, dunque, era infedele a sé stessa, si sdoppiava e alterava involontariamente il contenuto della propria narrazione: affermava e contraddiceva qualcosa con una naturalezza e una spigliatezza tali che, di primo acchito, giudicarla una mistificatrice seducente e diabolica sarebbe stato inevitabile. A pensarci bene, la descrizione delle grandi sciagure, di quelle che non ci riguardano direttamente, ha un potere fortemente seduttivo su di noi. Le disgrazie, una volta messe in parola, specie se dal protagonista, ci catturano, ci danno un’opportunità di vita che non immaginavamo neppure lontanamente di avere: fare esperienza di qualcosa, senza correre il rischio che l’esperienza stessa comporta. È comodo. Tuttavia, nel momento in cui ci rendiamo conto d’essere incapaci di dominare il male o il dolore che il discorso può provocare, lasciamo agire, al nostro posto, un giudice severo e, insieme, goffamente inconcludente, che molto di frequente, finisce col rovinare tutto. Bene e male, per così dire, restano perfettamente slegati l’uno dall’altro e il conflitto che avevamo, ancora prima che la storia sia palesata, si fa imperioso e ci assoggetta.

Egli le aveva chiesto di ricostruire una giornata tipo del disgraziatissimo periodo. Lo sforzo per lei era enorme, anche se, in apparenza, era serena, quasi divertita. In effetti, possedeva uno strano talento nel dissimulare elegantemente e insospettabilmente ogni genere di disagio. A ogni modo, la trama si formò prima di quanto entrambi riuscissero a prevedere.

All’epoca, era poco più che ventenne. Era una giovane ed esuberante donna di discrete letture e aveva un morboso interesse per il punk rock. Volgeva appassionatamente lo sguardo a tutto ciò che la incuriosiva, mostrandosi sempre pronta a snaturarsi, senza mai tirarsi indietro, a qualsiasi costo, a tal punto da non avere un brillante rendimento negli studi universitari intrapresi dopo il liceo. Era accaduto un po’ per caso e un po’ per ribellione, per quella smania di libertà che, talora, un ragazzo non riesce ad esprimere nella rettitudine e nell’abnegazione intellettuale, di solito sentite, al contrario, come oppressive. Così, in piena e innominabile disobbedienza, lo aveva fatto, un sabato sera come tanti altri. In bocca, aveva sentito immediatamente un che di amarognolo, le era parso pure che la gola le si fosse ristretta; la nausea, accompagnata da alcuni moderati conati di vomito, l’aveva impaurita, oltre che disgustata, naturalmente. Questi fastidi, però, erano durati pochi minuti; in pratica, non aveva avuto il tempo di accorgersene che una vasta sensazione di benessere, onnipotenza e disinibizione aveva spazzato via ogni ostacolo emotivo. D’un subito, aveva fatto pace col mondo intero, i suoi muscoli erano diventati tentacoli così lunghi ed elastici da potere abbracciare e quasi accarezzare tutto ciò che incontravano. Per un paio d’ore circa, il suo inconscio non aveva fatto altro che espandersi.

In quel periodo, ci volevano tanti soldi, almeno tutto ciò che guadagnava vendendo libri e cd porta a porta. Non era poco, ma di certo non era sufficiente a coprire i costi della ribellione. Una mattina, per esempio, si svegliò in preda alla nevrastenia, a un maniacale e implacabile bisogno di onnipotenza e felicità, ma la mancava il denaro. Non poteva andare a lavorare: se ne rese conto subito dopo che ebbe aperto gli occhi. Aveva pure degli spasmi muscolari che le impedivano addirittura di camminare regolarmente; sudava tanto che fu costretta a cambiarsi d’abito un paio di volte; il naso le gocciolava; andava su e giù per la stanza in cerca d’una soluzione. Mentre tentava d’inventarsi qualcosa, doveva pure impegnarsi a contenere le palpitazioni e i crampi addominali. Le sembrava che il cuore stesse per sbucarle fuori dalla bocca. Sarebbe stato impossibile restare a casa a subire il supplizio. Uscì di corsa e senza una meta precisa. I luoghi, d’altronde, erano sempre gli stessi, non occorrevano logica e ingegno. In sella a un motorino, percorse le vie cittadine in stato confusionale; le strade erano tutte uguali, decolorate, spoglie, desertiche: almeno così le vedeva. Dopo una ventina di minuti, si ritrovò davanti a una sgangherata porticina di legno. Suonò più volte e con rabbia, ma fu costretta ad attendere un tempo di poco inferiore a quello che le era stato necessario per arrivare; la qual cosa fu oltremodo irritante. Sapeva che erano lì. Non avrebbero potuto essere altrove. Quando qualcuno ebbe aperto, si guardò alle spalle con grande circospezione e s’infilò dentro di scatto. La scena che s’impose al suo sguardo era miserabile, una di quelle che la giovane donna aveva fatto di tutto per evitare. Tra pavimento e divano, erano tutti sovrastati e annientati dall’onnipotenza e dalla felicità. Le loro palpebre si movevano assai lentamente e, in questi movimenti edonistici e trascendentali, bisognava cogliere il senso d’un dialogo senza tempo.

“Datemi la roba! Subito!”

Nessuno le rispose. Chi mai avrebbe avuto il coraggio di lasciare, anche per un solo istante, la beatitudine ricercata e meritatamente conquistata? D’altronde, come dar loro torto? Di conseguenza, animata da un’incontenibile furia, si mise a frugare dappertutto: nelle tasche dei loro pantaloni; dal che ottenne unicamente insignificanti spasmi di corpi ingovernabili; nei cassetti, pressoché vuoti, quasi tutti; nella dispensa, dove tutto si trovava fuorché cibarie; negli armadi, che chissà come o per quale prodigio stavano ancora in piedi; tra le lenzuola, ingiallite e con l’aspetto di cartapecora, come se avessero avvolto, nel tempo, mutilati d’una guerra sanguinosa; e così via, fino a mettere a soqquadro l’intera casa. Quando ormai sembrava che ogni speranza fosse perduta, diede un’occhiata alla tavola della sala da pranzo, allestita alla bell’e meglio per un simposio di felicità: cucchiaio, acqua, cotone, accendino, siringhe. Non mancava proprio nulla. E la dose era lì, in bella vista, a riprova del fatto che, molto spesso, ciò che cerchiamo è a portata di sguardo, uno sguardo che non dovrebbe essere tradito facilmente.

Con immensa gioia, srotolò la bustina di plastica: avrebbe voluto contemplare la polvere bianca in essa contenuta, ma la frenesia glielo impedì. Ne riempì il cucchiaio, dove versò anche dell’acqua. Le tremava la mano. Lo aveva visto fare parecchie volte, ma non lo aveva mai fatto su di sé, preferendo aspirare l’eroina col naso. Adesso, però, stava a ruota, se ne rendeva conto. “Una sola volta, ne posso fare a meno” si disse, ma capì subito d’avere detto una sciocchezza. Lo capì soprattutto nel momento in cui formulò, dentro di sé, l’espressione “stare a ruota”, propria del gergo di coloro che hanno un’incoercibile tossicodipendenza. Fino a quel momento, nel sentirla pronunciare, aveva avuto un moto di repulsione. Procedette risoluta. Strinse attorno al braccio sinistro una cintura e si affrettò a scaldare il cucchiaio sopra la fiamma per sciogliere la sostanza e, finalmente, poterla iniettare. Ogni fase della preparazione fu eseguita in modo esemplare, nonostante l’ansia opprimente. Portando l’ago vicino alla pelle, tuttavia, si sentì terribilmente impedita. Non era in grado di centrare la vena e inoltre i tremori rendevano impossibile ogni approccio ulteriore. Di fatto, si era bucata, ma non aveva iniettato alcunché e le mancava il coraggio di andare oltre. A un certo punto, intuì il pericolo: l’ago si sarebbe potuto otturare; sarebbe stato un grosso guaio.

Scoppiò in un pianto improvviso e dirotto: scultorea nella posa, la siringa nella mano destra, il braccio sinistro disteso e pulsante, era immobile e disperata. Disperava del nulla perché nulla aveva senso. Era scossa da un dolore immenso, invasa da una potentissima marea d’afflizione e angoscia, pur essendo completamente priva di discernimento. La sensazione d’inadeguatezza, generata casualmente dal non saper fare, commisurata a una certa opportunità di benessere, le aveva appena fatto scoprire una delle più mortificanti tra le debolezze della specie umana: soffrire senza motivo, anche quando si ottiene ciò che si desidera.

Rimase in questo stato di ottundimento per diversi minuti. Si può comprendere, pertanto, che la misura del tempo sia un elemento della narrazione attuale, dal momento che per lei, spesso e quel giorno più che in qualsiasi altra circostanza, un minuto non differiva molto da un’ora o, addirittura, anche da una settimana. Attorno a lei, le cose, infatti, non avevano neppure confini, sussistevano in una tale contiguità logica e fisica che la geometria dello spazio era più che smarrita in una buia lontananza. In quest’oscura dimensione del corpo e della mente, tuttavia, qualcosa prese forma. Delle mani s’erano appena posate su di lei; lentamente e delicatamente, la siringa le era stata tolta. Adesso, infatti, sentiva scivolare qualcosa sul proprio braccio sinistro, qualcosa che, nello stesso tempo, esercitava una certa pressione. Sentiva, ma non vedeva. D’improvviso, sussultò e, per un attimo, si riebbe. L’ago era entrato dentro di lei. Non ci vollero che pochi secondi perché spuntasse un arcobaleno di pura e sublime luminosità. La felicità, adesso, era visibile. Giganteschi e sgargianti fiori sbocciarono dappertutto, mutandosi ora in luccicanti girandole ora in fogliame sospeso a mezz’aria da un venticello riposante e carezzevole.

“Solo una volta…” bisbigliò, persuasa d’avere recitato un verso dei lirici greci.

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