Il professore

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I

La sua mano scorreva garbatamente lungo tutto il corpo, dalla fronte, sulla quale si soffermava a picchiettare la pelle corrugata a guisa di amorevole massaggio, alle gambe, che possedeva in una stretta avida e, nello stesso tempo, solenne. Si moveva con studiata accuratezza, cosicché l’itinerario della carezza si compiva in armonia, non già con la verticale linearità di chi voglia frettolosamente coprire di sé le pudende, bensì con la saggezza consumata di chi sa di non dover privare l’amante d’alcun piacere o, in altre parole, di non poter trascurare alcuna parte di quanto gli è offerto in dono. Così, giunta sul collo, la mano si slargava aderendo perfettamente a esso e puntando le dita sul mento. Mai troppo licenziosa, strisciando verso il basso, col dorso, effettuava un movimento circolare intorno all’areola dell’uno e dell’altro dei capezzoli, senza invaderli o stropicciarli. Tra sfioramenti e toccamenti, risaliva per incontrare la gentile muscolatura del braccio. A quel punto, tornava indietro seguendo un percorso diverso: attraverso l’ascella, che baciava, prima di lasciarla, arrivava al fianco, su cui giocherellava pizzicandone le carni. In seguito, indice e medio, uniti, tratteggiavano il confine immaginario tra il basso addome e la peluria pelvica, mantenendo sempre una distanza minima dai genitali. Intorno all’inguine, le cinque dita tornavano ad essere compatte e si chiudevano sull’interno coscia, provocando, per esplicita espressione della volontà, un’eccitante mescolanza di piacere e dolore che si estendeva fino al gluteo, sul quale si ripeteva la stessa pratica erotica. All’altezza del ginocchio, la luce giallognola dell’abat-jour investiva una piccola porzione della mano, le falangette, facendone spiccare il rosso rubino delle unghie, che, poco dopo, si sarebbe nascosto in un groviglio di peli.

Tutt’intorno, il mobilio antico e tarlato sembrava appiccicato alle pareti per coprire le maleodoranti macchie di muffa. Dal tetto pendeva, retta da due fili, una lampada di sessanta watt fulminata da anni. La stanza era quadrata, sempre fredda per via dell’umidità, disadorna e disarmonica in tutti gli elementi: la porta ridipinta più volte, a strati sovrapposti, d’un grigio scuro; lo scrittoio era fatto d’un legno truciolare marrone chiaro che contrastava nettamente col marrone scuro dell’armadio ed era collocato accanto alla porta, tanto da limitarne l’apertura; qua e là, sparsi sul pavimento, indumenti ammonticchiati. Al di sopra del capezzale, dominava una ricostruzione grafica dell’arte bizantina: il Cristo Pantocratore. Di fronte al letto, a poco meno di mezzo metro da esso, le ante dell’armadio, chiudendosi, realizzavano uno specchio a misura d’uomo.

Il rosso rubino delle unghie combaciò col pene. L’immagine riflessa trasformò il movimento del colore in crescente sensualità. L’orgasmo fu rapido: ci vollero meno di due minuti. Ne seguirono ansia ed estenuazione. Il professore, reclinato il capo all’indietro, si voltò alla propria sinistra e, con sguardo spento, individuò il flacone degli ansiolitici; la qual cosa fu sufficiente a quietarlo. Poi si rivolse allo specchio, fissandolo intensamente. Alzò la mano destra e la contemplò, un po’ imbronciato. Era solito masturbarsi, dipingendo le unghie della mano di rosso rubino, un colore molto caro alla moglie, morta da una ventina d’anni. In questo modo, si sottraeva alla solitudine sessuale, soddisfatto e orgoglioso. In genere, non si limitava a smaltare le unghie; abbelliva un intero lato del proprio corpo con ornamenti e tolettatura femminili. Per le unghie del piede destro rispettava la tinta di quelle della mano destra. Secondo lo stesso principio, toglieva i peli in tutta la parte destra del corpo. Aveva anche cucito un paio di mutande per metà femminili e per metà maschili. Rossetto e quant’altro per il make-up del viso completavano l’opera. Occorreva rievocare la figura della moglie, altrimenti non c’era modo di godere. Il contrappeso negativo gli era dato dall’incontrastabile ricordo del terribile lutto; per la donna che aveva sposato aveva nutrito una passione smodata. Dunque, viveva da solo, in una casa a pigione. E, per lo più, faceva sesso da solo.

Era un uomo di bell’aspetto, curato ed elegante, di altezza superiore alla media, magro e con una calvizie che non gli impediva di far crescere i bianchi capelli fino a una lunghezza regale. Era taciturno e un po’ scontroso, mai scorbutico o inopportuno. Aveva dedicato la vita alla letteratura, senza svago né divagazioni, per anni aveva tradotto i classici greci e latini per delle edizioni scolastiche e, col tempo, complice il lutto, s’era fatto un po’ misantropo. Una delle sue massime era, grosso modo, la seguente: “l’altro di me stesso sono soprattutto io, quindi il mio primo sforzo consiste nel non essere altro da me nel momento in cui sono per l’appunto l’altro di me”. Nonostante questi pensieri, era un uomo assai semplice e che conduceva una vita altrettale. S’era cimentato nella narrativa, con una raccolta di racconti e un romanzo, ma, in seguito alla pubblicazione del romanzo, che aveva riscosso notevole successo di pubblico, s’era rifiutato di prendere parte al programma di promozione preparato dalla casa editrice e da lui sottoscritto per contratto, contratto che, molto probabilmente, non aveva mai letto. Di conseguenza, era stato stroncato nel giro di tre mesi. In una delle rarissime interviste rilasciate ad un valoroso e zelante giornalista d’un quotidiano nazionale che lo aveva inseguito per settimane, aveva dichiarato, in merito al proprio rifiuto: “Io promuovo i libri in classe, durante il ginnasio perché interpreto il ruolo dell’educatore. Già al liceo, smetto di fare il promotore, specie se ho fatto un buon lavoro negli anni precedenti. Ho, anzitutto, il dovere di aiutare gli studenti a scoprire il mondo della letteratura. Quindi, se i lettori hanno bisogno di un promotore, di qualcuno che li aiuti a scoprire il mondo della letteratura, è necessario che tornino sui banchi di scuola. Oppure si tratta di una specie di supplica? Dovrei supplicare il lettore di leggere il mio libro? Non sono sufficienti le recensioni pubblicate sui giornali? Insomma, io sono pagato per fare il professore di lettere, lei è pagato per fare le recensioni. Mi sembra che il discorso non faccia una grinza. In quanto al resto… qual è l’altra accusa? Gioco a fare l’artista pazzo? Dicono questo di me? Tenuto conto che il gioco è sempre divertente, bisogna dire che le presentazioni dei libri sono assai noiose. Descrivere un proprio personaggio significa fare autoesaltazione; ascoltare qualcuno che lo descriva è rischioso perché sarebbe come osservare qualcuno che voglia picchiare tuo figlio. Se lei è padre, sa cosa intendo dire. Non mi guardi così! Non mi riferisco a mia figlia. Ho anche i miei personaggi da curare… be’… lasci perdere! Lei non è in grado di capire!”. Le ultime parole della dichiarazione, naturalmente, s’erano immediatamente tradotte nella cacciata metaforica del giornalista, il quale, pur pubblicando fedelmente il pezzo, non aveva di certo rassicurato i lettori sulla qualità umana dell’autore. Il professore, in effetti, non godeva di buona reputazione; il guaio era che la requisitoria sociale contro di lui era assai debole. Uno dei suoi principali difetti per i suoi giudici, per esempio, era la vedovanza; o, meglio, non la vedovanza in quanto stato, ma la sua incapacità di riammogliarsi che ne derivava. I colleghi gli perdonavano pure l’irredimibile voglia di disertare i consigli di classe, ma non tolleravano di buon grado la sua solitudine. Di lui si raccontava che aveva il vizietto di frequentare i transessuali; e anche in questo caso il problema stava non tanto nella diversità sessuale, che, stranamente o fintamente, veniva quasi accettata, quanto piuttosto nel fatto che egli non ne faceva mistero, tanto da rispondere nel seguente modo alla domanda impertinente di un collega che voleva ragguagli circa una diceria: “Il transessuale rappresenta la più alta espressione della sessualità, è un lascito dell’eros greco-platonico…”. Un’altra abitudine che infastidiva alquanto le poche persone che gli giravano attorno era il pasto delle dodici e trenta o delle tredici e trenta, a seconda dell’orario della fine delle lezioni. Il professore soleva recarsi al bar che si trovava di fronte al liceo classico tutti i giorni lavorativi; ordinava un’insalata di lattuga, pomodoro e mozzarella, la condiva con sale, pepe, olio e aceto balsamico e la mangiava con un paio di fette di pane nero. Gli altri professori lo guardavano di sbieco, quasi con sdegno, non perché non si unisse a loro nel pranzo, ma perché era rigorosamente metodico e instancabile nel consumare tutti i giorni, da anni, lo stesso pasto. Egli sapeva di essere una specie d’osservato speciale, ma non se ne curava, talvolta ne rideva tra sé, talaltra li provocava dicendo loro: “Per caso, gradite un po’ d’insalata?”.

II

All’età di sessant’anni, egli continuava a studiare come uno studente ammodo: dedicava tre ore al giorno all’analisi dei testi, di cui ripeteva ad alta voce il contenuto appreso, per poi annotare sul quaderno di pertinenza i dati salienti. A ogni disciplina studiata assegnava, infatti, un quaderno d’appunti, sembrando sempre uno scolaretto in procinto d’essere interrogato per la chiusura del quadrimestre. Anche questa consuetudine intellettuale finiva coll’essere oggetto di discussione dei colleghi del liceo, i quali, mal sopportando il disagio dell’inferiorità culturale e non essendo disposti a piegarsi sotto il peso della scienza, lo etichettavano come studioso grigio e monotono, inadatto a fornire agli allievi gli stimoli necessari.

Nel cortile della ciarla era finita anche sua figlia, un’avvenente biologa, trentenne, che s’era trasferita in una città costiera, a circa duecento chilometri dall’abitazione del padre, allo scopo di esercitare con successo la professione per la quale s’era laureata. Ella, sinceramente innamorata del padre e a lui devota, tornava spesso e volentieri a fargli visita. Era l’unico essere umano per il quale il professore fosse lesto a modificare l’amato tran tran quotidiano. In presenza di lei, egli rinunciava sia ai libri sia all’insalata. Fin da un’ora prima del suo arrivo, lo si vedeva passeggiare lungo il marciapiede della fermata dell’autobus, con le mani intrecciate dietro la schiena, ben pettinato e profumato. Era l’unica donna della sua vita e lo era fin dalla morte della moglie. Il professore non aveva mai voluto turbare la crescita della figlia con altre presenze femminili. In genere, ella trascorreva due o, al più, tre giorni assieme al padre, essendo costretta a rientrare presso l’istituto di biologia marina nel quale lavorava. Padre e figlia, mano nella mano, andavano in giro per le vie della città per ore, chiacchierando, facendo shopping e ricordando la mamma, scomparsa  quando la piccola aveva solamente dodici anni. Le male lingue avevano insinuato il dubbio pure in questa relazione d’archetipica purezza. Secondo le maldicenze, era impensabile e, quindi, inaccettabile che una giovane donna di tale bellezza vivesse tutto il proprio tempo libero a stretto contatto col padre. Egli, uomo d’impareggiabile mansuetudine, raro esempio di saggio epicureo e, nel contempo, stoico per sopportazione, dava in escandescenze già all’idea che qualcuno potesse anche solo vagamente coprire d’onta la sua paternità. In un’occasione, aveva mollato un ceffone al collega di matematica che, volendo apparire quale uomo d’esperienza, s’era concesso uno squallido e lubrico sorrisetto ai danni di sua figlia.

Non c’era diceria che lo turbasse a tal punto da indurlo alla violenza.

Di fatto, le dicerie erano parecchie, forse troppe perché il professore passasse inosservato sotto la vigile sorveglianza delle autorità preposte, che in questi casi manifestano tutto il proprio zelo.

Una mattina, poco prima dell’inizio delle lezioni, il preside del liceo mandò un bidello in sala consiglio a chiamare il professore.

“Professore?”

“Eccomi!”

“Professore, mi perdoni! Il preside vuole vederla.”

Indifferente alla volontà del preside, il professore rispose con gentile sollecitudine al bidello: “Lei è una persona talmente cortese e professionale… Cosa vuole farsi perdonare da me? Non è mica colpa sua se il preside le assegna delle seccature.”. Il bidello, esterrefatto, non comprese il sottile riferimento linguistico alla formula convenzionale “mi perdoni!” e si limitò a ringraziare con pronta sottomissione, considerando che l’ambasciata fosse compiuta. Gli altri professori presenti dissimularono disinteresse, ma, lentamente, si riunirono in gruppuscoli d’indagine e confronto critico sulle ragioni della convocazione. Egli, per contro, attese il suono della campanella e si recò in aula, senza nemmeno prendere in esame la notizia comunicatagli. Alla fine della prima ora, ricomparve sulla soglia il bidello: “Professore, mi perdoni! Forse, poco fa, mi sono espresso male. Il preside chiede di lei, vuole incontrarla. Se può andare in presidenza…”. Ancora una volta, l’etica del letterato scrupoloso ebbe la meglio su quella dell’impiegato: “Certamente. Posso andare in presidenza, ne ho facoltà. Ma è bene chiarire una cosa: sono stato io ad esprimermi male! Intendevo dirle che lei non ha alcunché da farsi perdonare. Non occorre che mi dica “mi perdoni!”. Siamo colleghi e ci conosciamo da anni. Siamo entrambi impiegati. Anzi, se lei è d’accordo, fin da ora, possiamo usare il tu tra di noi.”. I ragazzi, a sentire l’intervento libertario del professore, esplosero in un applauso fragoroso, che egli, però, tacitò repentinamente mostrando loro il palmo della mano. Il bidello, invece, apparve subito inebetito. Rimase muto, sulla soglia dell’aula a fissare ora i ragazzi ora il professore. Questi, avvedutosi dell’imbarazzo del bidello, gli andò incontro tendendogli la mano e lo ringraziò della rinnovata ambasciata. Ma, per la seconda volta, disattese l’ordine del preside. Trascorsa una buona mezz’ora, si sentì bussare alla porta dell’aula. Il professore si alzò e andò ad aprire. Gli si presentò innanzi un tipo basso e paffuto: il preside, che gli si rivolse sbuffando e con la solita voce chioccia.

“Ti ho fatto chiamare tre volte. Possibile che tu sia sempre così intrattabile? Non cambi mai!”

“Dammi una buona ragione per cambiare!”

“Non è il momento di perdersi in chiacchiere. Dobbiamo scambiare due paroline. In privato. Possiamo andare in presidenza?”

Per il nostro professore, l’uso dei verbi servili, “potere” o “volere”, era effettivamente vincolato alla possibilità che qualcosa si verificasse, ma non esprimeva un comando né un’esortazione a che la richiesta si realizzasse. Pertanto, si dilettava con dei giochini linguistici che, di solito, irritavano l’interlocutore. “Certo, possiamo andare in presidenza. Ne abbiamo facoltà. Ma, dimmi, preside! Hai detto dobbiamo? È un dovere morale?”

“Sì, è un dovere morale!” rispose il preside più che indispettito.

Il preside s’avviò verso il corridoio dell’antistante presidenza, convinto d’essere seguito dal professore, il quale, fermamente convinto, al contrario, dell’ambiguità del verbo “potere”, non si mosse. D’altronde, “possiamo andare in presidenza?” implicava anche il non andare. Dopo una decina di passi, il preside si voltò e, vedendo il professore immobile sulla soglia della porta, andò su tutte le furie.

“Seguimi, cazzo!” sbottò il preside.

I ragazzi cominciarono a ridacchiare e confabulare, divertiti.

“Non sono il tuo Simon Pietro, ma se mi farai pescatore di uomini…” chiosò il professore.

In presidenza, il preside sembrò rasserenarsi e la conversazione ebbe inizio.

“Be’, mio caro, bisogna rimediare ad alcune cosette. Di recente, si raccontano troppe cose sul tuo conto… sarebbe il caso di far luce su… noi ci conosciamo fin dai tempi dell’università… è il caso che la tua reputazione di studioso sia salvaguardata… tu sei il fiore all’occhiello di questo istituto… capisco che, da quando è morta tua moglie, è stato difficile… le tue frequentazioni poi sono un po’… sono persuaso che tu comprenda le ragioni di questo mio intervento…”

Il professore fu immediatamente teatrale: “Sì, comprendo benissimo le ragioni di questo tuo intervento… in effetti, le mie frequentazioni sono un po’… dalla morte di mia moglie è stato difficile… è stato bello essere il fiore all’occhiello dell’istituto… è il caso che la mia reputazione di studioso sia salvaguardata… d’altronde, noi ci conosciamo fin dai tempi dell’università… è il caso di far luce su… bisogna rimediare ad alcune cosette.”

Il preside aguzzò lo sguardo, aggrottò le sopracciglia e, reggendosi sui braccioli dello scranno, si sporse in avanti sulla scrivania per carpire le intenzioni del proprio interlocutore, che aveva appena ripetuto con pedissequa precisione il suo evanescente discorso.

“Mi stai prendendo per il culo?” chiese sbalordito il preside.

“No!” rispose il professore sporgendo in avanti il labbro inferiore.

“Mah! Comunque, la psicologa della scuola è un’eccellente professionista. S’è laureata con pieni voti, ha svolto con brillante profitto il dottorato di ricerca, ha scritto pure dei saggi sul rapporto tra atti linguistici e comportamento… Io penso che sia meritevole di fiducia… lavora con noi da qualche anno…”

“Lo penso anch’io.” affermò compiaciuto il professore.

“Cosa?”

“Che sia meritevole di fiducia! Devo consigliare a qualcuno di andare a trovarla. Hai ragione, bisogna aiutare i giovani a crescere in professionalità.”

“Be’, sì. Però, intendevo anche altro. Potresti andare a trovarla tu, così, per scambiare due parole con lei…”.

“Ma no, caro il mio preside! Ha qualche anno in più di mia figlia. Ti ringrazio di cuore dell’interessamento, ma, ormai, alla mia età, sono fin troppo abituato a stare da solo, non voglio frequentare una donna, non è il caso…”

“Intendevo dire che potresti frequentarla per le sue competenze; a nessuno di noi fa male un colloquio con una psicologa… Non credi?”.

“Fissami un appuntamento! Ma non prima delle diciotto! Adesso, torno in aula!” annunciò seccamente e serenamente il professore.

Il preside, a bocca aperta, istupidito, seguì con lo sguardo l’amico, mentre questi si dileguava fischiettando.

III

In quel pomeriggio, senza indugiare, il nostro professore si recò dalla psicoterapeuta.

“Buongiorno, professore! Come sta?” esordì la psicoterapeuta con un ampio sorriso d’accoglienza.

“Molto bene! Avrei preferito restare a casa, sul divano, a guardare un film, gustando i prelibati cioccolatini regalatimi da mia figlia, ma mi sono adattato volentieri alla novità.”

“Cosa l’ha indotta a venire da me, dal momento che preferiva gustare i cioccolatini di sua figlia?”

“Il preside.”

“Lei è qui per il preside?”

“Sì, ma questo lo sa anche lei. È stato lui a fissare l’appuntamento. Mi rendo conto che il protocollo terapeutico prevede un certo approccio, quindi, se è necessario, andiamo avanti così!”

“Quindi, lei ha fatto cosa gradita al preside venendo qui. Come la fa sentire questo gesto nei confronti del preside?”

“Un uomo molto caritatevole! Il preside è cardiopatico ed io ho voluto accontentarlo.”

“Le sembra un bel gesto?”

“No. Non è un bel gesto. È  solo un’opera di carità. L’aggettivo da lei usato è improprio.”

“Quindi, la sua presenza qui è un’opera di carità e lei avrebbe preferito stare a casa a gustare i cioccolatini che le ha regalato sua figlia.”

“Esatto! Mi spieghi una cosa! Presumo che la riformulazione faccia parte del metodo, ma, mi creda, è molto noiosa! Potremmo cimentarci in una conversazione più dinamica. Tutto sommato, oltre a essere una psicologa e un paziente, siamo anche colleghi con un patrimonio culturale.”

“Com’è questa noia cui ha fatto riferimento? Potrebbe descrivermela?”

 

La psicoterapeuta, all’oscuro del guaio linguistico in cui s’era cacciata, aveva posto una domanda di cui s’era subito compiaciuta, principalmente per aver messo in relazione il colloquio e lo stato d’animo d’un paziente assai complesso. Tuttavia, il professore, per il quale la domanda “potrebbe descrivermela?” significava chiaramente che era possibile descrivere la noia, allo stesso modo in cui non era possibile farlo, andò in sollucheri, tenendo conto anche del fatto che la sua interlocutrice aveva usato il condizionale, aggravando la tensione ipotetica del discorso.

“Sì. Potrei descrivergliela. Ne ho facoltà.”

La psicoterapeuta si dispose, quindi, con enfasi, ad accogliere l’esposizione del professore, il quale, invece, dopo aver dato il proprio assenso, appollaiato comodamente sul divanetto, cominciò, noncurante di chi gli stava innanzi, a osservare con interesse quanto gli stava intorno: mobilio, suppellettili e quadri. La psicoterapeuta, facendo fatica a seguirlo, s’affrettò a indagare sugli espedienti linguistici del “qui ed ora”, nel rispetto scientifico dell’approccio, laddove avrebbe voluto – e non lo negò a sé stessa – intrattenersi a chiacchierare col collega senza schemi d’interpretazione comportamentale.

“C’è qualcosa che attira la sua attenzione?”

“Sì.”

Il professore aveva l’abitudine di non arricchire le proprie risposte con ciò che non era esplicitamente richiesto; dunque, alla domanda “C’è qualcosa che attira la sua attenzione?” era sufficiente rispondere o con un sì o con un no. Bisognava porgli un’altra domanda per entrare nel suo campo percettivo, essendo poi disposti ad ammettere che la successiva risposta appartenesse autenticamente al campo percettivo.

“Quale?”

“La bruttezza dei quadri appesi alle pareti.”

“Le giunge dunque una sensazione di bruttezza… E se le dico che questi quadri sono dei lavori di alcuni miei pazienti affetti da gravi psicopatologie, lei cosa pensa di questa bruttezza?”

“Penso che sia una bruttezza molto brutta. La storia ci ha donato artisti preziosi affetti da gravi psicopatologie, ma la malattia mentale non ha impedito loro di produrre dei capolavori, anzi, talora è stata fonte d’arricchimento; col che non intendo dire che la malattia mentale è una risorsa dell’arte, sia chiaro! Ho solo ribattuto alla sua affermazione. Evidentemente, questi individui con schizofrenia non sono degli artisti. Vien fatto di pensare che questi lavori siano l’esito di attività riabilitative. Nulla da eccepire. Il guaio è che lei li espone con orgoglio. Allora, c’è da chiedersi o quale sia il suo criterio di bellezza artistica o perché lei, seppure così giovane e competente, ceda al vezzo denigratorio di mettere in mostra quanto è prodotto da un ingegno limitato. È una strana posizione quella dell’essere umano che offre al pubblico gli errori altrui; forse, si tratta di un tentativo di colmare dei vuoti di personalità o di contrastare un qualche complesso d’inferiorità. Di certo, non sono la persona idonea a formulare questi giudizi. La mia è una banale opinione. Pensi a tutti quegli accademici che imbrattano centinaia di pagine per informare la comunità scientifica delle errate interpretazioni degli altri pensatori, critici o filosofi, quello che siano! Potrebbero, molto più sanamente, impiegare la propria verve scritturale nella stesura di vere opere, anziché dire che Tizio o Caio non hanno ben valutato la poesia di Sempronio. Allo stesso modo, ma su un piano molto più basso, si collocano tutte quelle pubblicazioni di stupidari e frasari fatte da sedicenti scrittori. Insomma, mi dolgo di dover scoprire che anche lei si compiace di questo insano costume. Forse, ho parlato troppo a lungo.”

“Nient’affatto. L’ho ascoltata con interesse. La bruttezza dei quadri dei miei pazienti la rimanda al cattivo costume dei critici letterari, costume che poi sarebbe anche il mio…”

“Ci risiamo! Di nuovo questa specie di riformulazione! La diverte tanto oppure è proprio necessario questo metodo?”

“Entrambe le cose.”

“Mi fa piacere che almeno lei riesca a divertirsi.”

“Forse perché lei è un uomo caritatevole, quindi le sta anche a cuore il mio stato d’animo?”

“No. Mentirei, se le dicessi che mi sta a cuore il suo stato d’animo. E inoltre non ho mai detto d’essere un uomo caritatevole. Fare qualcosa di caritatevole non vuol dire essere uomini caritatevoli.”

“Bene! Ci limitiamo a dire che lei ha fatto qualcosa di caritatevole nei confronti del preside, ma che non le importa niente di me.”

“Ora c’è una buona approssimazione alla verità.”

“Perché parla di approssimazione? Manca qualcosa alla verità?”

“Manca sempre qualcosa alla verità. Non gliela posso rivelare io la verità perché non la conosco. Se lei ne sa qualcosa, m’informi pure!”

“La sua unica verità mi pare sia il benessere… Se lei qui sta bene, è giusto che ci rimanga. Altrimenti, è giusto che vada via.”

“Io, qui, sto benissimo. Lei ha delle gambe e dei seni meravigliosi… Sarei uno stupido se non godessi della contemplazione. Ecco! Questa potrebbe essere un’espressione della verità della mia presenza qui. Ma alla verità manca qualcosa. Io sono più grande di lei di circa venticinque anni e ho una figlia che ha qualche anno in meno di lei. La contemplazione, di conseguenza, oscilla.”

“Sono certa che questo nostro primo incontro sia stato proficuo…”

“Lo penso anch’io. Se avrò bisogno di lei, la ricontatterò.” concluse il professore, prima di andare via.

Scosso dall’eccitazione, intrepido, il professore non vedeva l’ora di rientrare a casa per lasciarsi andare al solito rituale della masturbazione.

IV

Quella sera, infatti, il professore, le mani sprofondate nelle tasche laterali del cappotto, si addentrò nei sordidi vicoli della città in cerca d’una qualche compagnia che potesse o sottrarlo alla solitudine, una solitudine che, di rado, gli pesava al tal punto da stanarlo da casa o infondergli la voglia di scrivere qualcosa di narrativo. Era piuttosto perplesso circa lo scopo dell’uscita serale: prostitute, transessuali, barboni, criminali e quant’altro gli offriva la notte erano personaggi che lo interessavano portentosamente, ne esaltavano l’estro, tanto che egli li considerava elementi di decoro e simboli di elevazione d’ogni società. Essi si collocavano al confine della razionalità urbana e garantivano la sussistenza dell’inesauribile e stimolante relazione tra l’uomo e il limite reale.

Per il professore, una prostituta autentica e consapevole aveva una dignità poetica, si esponeva coraggiosamente al rischio che la natura umana comporta perché lo accoglieva interamente, essendo tutt’altro che frivola o lasciva o immorale. Sullo stesso piano erano da collocare gli altri personaggi inquieti e inquietanti, che costituivano un museo itinerante d’un’arte sempre più ricca e presente.

Il freddo penetrante della notte non lo turbava affatto. Col bavero del cappotto alzato fino al mento, s’avanzava sull’asfalto dissestato delle stradine buie, maleodoranti, ricolme di spazzatura e di cui conosceva a malapena gli sbocchi. Evitando attentamente di farsi investire dalla luce dei lampioni, così da privare la vista di quei dettagli che avrebbero indebolito sicuramente la sua curiosità, camminava rasente i muri, con passo apparentemente molle e svogliato: si trattava d’una falcata d’attesa, sciolta da obiettivi e tappe. In fondo a una delle viuzze, trovò un muro di tufi a sbarramento, sotto il quale una decina di gatti erano impegnati a smembrare i sacchetti della spazzatura. Si appiattò dietro uno stipite sporgente e trovò diletto nel metterli in fuga con un movimento congiunto delle labbra e dei denti che produsse un suono soffocato e, insieme, acuto. Gli animali fuggirono a raggiera, mentre il professore, emettendo sospiri e brontolii di soddisfazione, si addossò alla parete, tirò giù la cerniera dei pantaloni e alleggerì la vescica. Gli si appressò un tizio, ma egli, imperturbabile, finì di fare pipì senza ansia né frenesia. Sull’angolo contro il quale s’era piazzato il professore si proiettò un’ombra fiacca e indefinita dalla quale si sollevò un’ingiunzione. Il destinatario si sarebbe dovuto voltare. Con sorprendente calma, il professore mostrò il volto all’uomo minaccioso, ma non ne fu affatto intimorito. Era un trentenne di altezza media, con radi capelli untuosi, la barbetta sforacchiata e sparsa a chiazze sul volto, puzzava terribilmente di vino ed era paurosamente sdentato. Intimò alla presunta vittima di consegnargli tutto il denaro. Il professore gli sorrise, gli diede una pacca sulla spalla, lo scansò, rimise le mani in tasca e lemme lemme si allontanò.

L’uomo, che, di certo, non era abituato ad avventori così disincantati, esitò un bel po’, grattandosi il capo, prima di decidersi a inseguire il bottino. Un minuto dopo, infatti, afferrò una bottiglia di birra vuota, la ruppe contro il muro tenendola per il collo e si mise alle calcagna del professore, il quale, nonostante le avvisaglie di pericolo, non aveva per niente tentato la fuga. Accelerando il passo, il criminale non faticò ad essergli alle costole per minacciarlo nuovamente. Il professore, questa volta, arrestò ogni movimento e, prima di girarsi ad affrontare il nemico, rimase per qualche secondo immobile. Di scatto, con un’elegante rotazione in senso orario del piede destro, facendo leva sul tallone del piede sinistro, piantò addosso al tizio uno sguardo inespressivo e inattaccabile per poi colpirlo sul naso con un pugno. L’aggressore, trasformatosi in vittima, con le mani a giumella, si coperse il naso sanguinante e si appoggiò al vicino muretto per evitare di stramazzare al suolo. Il professore lo osservò con schiacciante indifferenza, senza parlare e senza allontanarsi da lui. Anzi, poco dopo, gli allungò dei fazzoletti affinché potesse tamponare la fuoriuscita del sangue. Quindi, si massaggiò la mano destra e si decise a rivolgere la parola al nemico: “Birbantello, mi hai fatto male. La mia mano destra è indolenzita. Non ti hanno insegnato che bisogna rispettare gli anziani?”.

Il tizio, quantunque impegnato a reggersi il naso, stralunato e incredulo, alzò lo sguardo sul professore, ma non riuscì a spiccicare neppure una parola. Il professore, con la solita agghiacciante disinvoltura, proseguì: “Suvvia, alzati e fammi vedere in che condizioni sei! Io ho rispetto per il nemico e, di conseguenza, non posso non riconoscerti l’onore delle armi. Per questa volta, ti è andata male. Ti rifarai la prossima volta. Adesso, è il caso che tu mi faccia controllare il naso perché continua a sputare sangue.”

“Senti un po’” disse il ladruncolo in preda ai capogiri “perché non vai a farti fottere?”

“Mi sarei fatto fottere con piacere, se tu non mi avessi rotto i coglioni!” rispose il professore beffardo e, guardando l’orologio, aggiunse: “E sarei ancora in tempo, ma… non posso lasciarti qui a sanguinare. Quindi, non perdiamo altro tempo, altrimenti mi fai agitare sul serio! Su, da bravo, fatti aiutare!>>.

A sentire queste ultime parole, il trentenne, ormai bell’e rimbambito, accettò il braccio offertogli e si mise in piedi. I due si avvicinarono lentamente a un lampione, sotto il quale il professore infilò nelle narici della propria vittima due piccoli involti strappati da un fazzoletto. Da ultimo, gli strinse la mano, gli lasciò venti euro e se ne andò.

V

Due ore dopo, cioè intorno alle due del mattino, il professore s’imbatté in una lunga schiera di prostitute africane, davanti alle quali sfilò leggiadro, squadrandole dalla testa ai piedi e ponendosi in sincero ascolto di tutte le avances che le donne gli facevano per propagandare la propria mercanzia. Passando da una donna all’altra, trovò opportuno annotare le loro espressioni su un taccuino, cosicché ne prese uno dalla tasca interna del cappotto e, mantenendo sempre la stessa andatura, si mise a scrivere, sempre più persuaso che da lì sarebbe nato un romanzo. Il linguaggio, per lui, traeva origine da quelle formule agrammaticali e, nello stesso tempo, cariche di significato, un significato netto, univoco, sostanziale e che non lasciava adito all’incomprensione e ai dubbi. Insomma, non c’era linguaggio più efficace e più vivo o vero di quello della strada, di una strada al confine dell’esistenza convenzionale. “Su, bello, vieni!” si disse “sarebbe un bel titolo”, ritrovando una voglia di scrivere che, già da tempo, lo aveva abbandonato. Annotati gl’idiomi di particolare rilevanza, si lasciò alle spalle le prostitute africane e proseguì in cerca di qualche transessuale: era il suo genere preferito.

Ne trovò alcuni sui gradini di una chiesa scomunicata e diroccata. Gliene piacque uno in particolare. Lo conosceva. Si trattava di un brasiliano di San Paolo che aveva fatto fortuna sui marciapiedi italiani. Il professore, tutto sommato, era un abitudinario, specie in materia di sessualità. Non si faceva mettere le mani addosso da chicchessia né aveva il piacere di fare nuove scoperte. Pertanto, l’incontro gli fu particolarmente gradito. Era un cliente affezionato. Non aveva affatto intenzione di rientrare a casa insoddisfatto e, nello stesso tempo, non era la serata adatta al rituale della masturbazione, anche se, poco dopo essere uscito dallo studio della psicoterapeuta, era stato incerto. Fu assalito da una certa malizia, nell’avvicinarsi a Pamela, che, nonostante una temperatura prossima allo zero, sotto un cappottino nero sbottonato di finta pelle, indossava uno sgargiante vestitino rosso che non le giungeva oltre l’inguine. Alta, biondastra, più che stravolta dalla chirurgia estetica, che la rendeva turgida e abbondante, Pamela era una vera passionaria, esemplare nella conduzione dei giochi preliminari, esperta nel donare ai clienti ciò che essi desideravano, quand’anche non avessero il coraggio di confessarsi. Ella, vedendo arrivare il professore, lo salutò con gioia. I due chiacchierarono un po’ per poi avviarsi verso il luogo dell’alloggio di lei.

Percorsi all’incirca cento metri lungo il bastione laterale della chiesa, si dileguarono entrambi nell’oscurità d’un cieco declivio, prima della cui conclusione svettava imperioso un palazzo settecentesco. Il transessuale vi entrò con passo sicuro, svolgendo al buio tutte le operazioni. Invitò il cliente a non accendere la luce e lo guidò verso un piano seminterrato raggiungibile attraverso una modesta rampa di scale che si snodava sulla sinistra. Varcata la soglia dell’appartamento, i due, chiusasi la porta alle spalle, si affrettarono a baciarsi. Il transessuale non era solito concedersi fino a tal punto ai clienti, ma il professore aveva un che di speciale, meritava un’intimità unica, tale da oltrepassare le barriere della merceologia. Il professore, per converso, considerava quei baci come autentiche prove di apertura a quella sessualità ignota, trasgressiva e rischiosa, che, dalla morte della moglie in poi, aveva segnato gli unici veri momenti di piacere.

Profittando del momento in cui il cliente si accingeva a togliersi i pantaloni, il transessuale si diresse verso la tv, scelse un dvd e lo infilò nel lettore. Poco dopo, comparve sullo schermo una scena orgiastica in cui non si capiva, di fatto, chi avesse parte attiva e chi passiva. Donne con donne. Uomini con uomini. Donne con uomini. E così via in intrecci rocamboleschi. Il professore lanciò un’occhiataccia allarmata al video per poi rimproverare la propria compagnia: “Mi deludi. Dovresti sapere ormai che non tollero queste orrende visioni. Mi conosci da due anni. Grazie a Dio, ho una discreta autonomia di pensiero. È fin troppo sgradevole per me pensare di dover ricorrere alla fantasia altrui per arricchire la mia.”

Il transessuale ne fu imbarazzato.

Ma era già troppo tardi. Il nostro, uomo che, nella vita, non imboccava mai la cosiddetta via di mezzo, stava già per rivestirsi, lasciando il transessuale esterrefatto, con un’espressione da tonti, incapace di fare qualsiasi cosa che fosse utile a trattenere il cliente. Il professore, in pochi istanti, era già più che pronto a pagare e filare via. E fu così. Senza indulgere in convenevoli, che gli sembrava fossero alquanto ridicoli e tali da sminuire ciò che per lui era una professione e non un semplice mestiere, consegnò al transessuale circa quaranta euro, cioè una quota ridotta e da lui stesso stimata per l’incompleta prestazione, e s’incamminò alla volta di casa.

 

Non fece altre soste. Alle tre e trenta, infatti, aveva già indossato il pigiama per abbandonarsi alle mollezze della notte domestica. Accese la tv e la sintonizzò sul primo documentario incontrato nel breve percorso di zapping; dopodiché, affondò il viso nel guanciale e si lasciò prendere dal sonno. Il giorno successivo, in pratica quello già iniziato, sarebbe stato libero dalla scuola. Dunque, non si preoccupò neppure dell’orario. Dormì beatamente per quattr’ore. Alle otto del mattino, infatti, aveva già tra le mani una tazza di caffè. La sorseggiò lentamente davanti alla finestra, lo sguardo totalmente perso nell’estensione della strada che si dispiegava da basso e, a quell’ora, brulicava di autovetture e lavoratori frettolosi. Di colpo, si distaccò dal vetro, cui sembrava incollato, e s’incupì, avendo ricordato fulmineamente di aver promesso a un collega dell’università di fare da relatore a un convegno che avrebbe avuto inizio proprio alle dieci di quella mattina.

“Ecco perché sono libero da scuola! Non ci voleva! Per quale ragione gli ho detto di sì? Non è da me. Che posso inventare? Vediamo un po’…” borbottò.

Si guardò attorno, come se dal mobilio potesse giungergli un suggerimento e decise che non sarebbe stato il caso di disertare il convegno. In sostanza, pensò, chi lo aveva invitato era persona cara, uno studioso stimabile. Bisognava soccombere, anche se non aveva preparato alcunché: né uno studio né, tanto meno, qualcosa di scritto da mettere agli atti. “Se mi hanno invitato, basterà loro il mio punto di vista. Il guaio è che non ho un punto di vista sulle correnti letterarie contemporanee. Posso sempre discutere di come vorrei che fossero queste correnti. Bene!” commentò tra sé.

VI

Impazientito, andò a farsi una doccia calda, con i cui vapori si dilettò per più di venti minuti. Altrettanto comodamente fece colazione. Poi aperse l’armadio della camera da letto, si soffermò a meditare su quale sarebbe stato il parere della moglie e fu certo di dover indossare un bel vestito blu, con camicia bianca e cravatta rossa. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, rise della propria emotività e seguitò a vestirsi. Alle nove e trenta, ben vestito e profumato, era già sotto casa ad attendere che l’autobus passasse a prelevarlo. Molto di rado, si metteva alla guida della propria autovettura. L’autobus gli permetteva di leggere e meditare, benché gli toccasse farlo in mezzo alla calca. Dopo avere atteso per un quarto d’ora, senza vedere alcun mezzo pubblico, vide arrivare dall’angolo alla sua sinistra un’utilitaria con a bordo dei ragazzi e il cui autista pigiava all’impazzata il clacson. Il suono era diretto proprio a lui. Uno dei ragazzi, infatti, sporgendosi dal finestrino gli urlò allegramente: “Professore! Salga su! La accompagniamo noi!”.

L’autovettura gli si fermò accanto. Per la seconda volta, quella mattina, il professore si sentì pungere dal batticuore.

I suoi alunni del quinto anno avevano marinato la scuola per seguirlo. I ragazzi gli fecero subito posto sul sedile anteriore ed egli non esitò ad occuparlo né ad assumere lo stile del compagnone. Il ragazzo che stava alla guida ripartì facendo sgommare le ruote. Il professore gli diede il cosiddetto cinque, oltre a qualche consiglio sulla guida sportiva, facendo esplodere nell’abitacolo un entusiasmo frenetico. Un’alunna ancora diciassettenne gli disse: “Prof, lei è troppo fresco!”. Il professore ruotò il capo verso di lei, aggrottò comicamente le sopracciglia e la redarguì paternamente: “Fresco non significa un bel niente! Ragazzi miei, dovete riformare il vostro codice. Poi, c’è da dire che non mi sento fresco. Be’, a pensarci bene, stamani, forse, un po’ fresco sono. Comunque, ne riparleremo in classe. È un bel principio di discussione.”. Un altro ragazzo ribadì: “Prof, se ne faccia una ragione! Lei è troppo fresco.”. Il professore, che in materia di linguaggio non cedeva neppure una virgola, aggiunse: “Allora, ragazzi, può anche starmi bene l’aggettivo. Però, intendiamoci almeno sul significato di fresco!”. Il ragazzo che stava alla guida e che fino a quel momento non aveva partecipato alla discussione, disse: “Fresco è un tipo ok.”. Ancora una volta il professore, che, in pratica, tra una battuta e l’altra, stava offrendo indirettamente agli studenti una lezione preziosa sul rapporto tra significante e significato intervenne: “E che tipo sarebbe un tipo ok? Ragazzi, attenzione! Il linguaggio ha delle funzioni precise. Ne abbiamo parlato più volte. Insomma, non potete dire a qualcuno che è un tipo ok o fresco, se poi non siete d’accordo sul significato!”.

Parcheggiata l’autovettura, la strana comitiva s’avviò verso l’aula magna dell’università, che, in effetti, era ancora semivuota. Il professore cercò il cartellino che recasse il suo nome sul banco dei relatori e prese posto da solo, tra carteggi pergamenati ed elegantemente rifiniti e depliant col marchio dell’università in cui si faceva il resoconto pubblicitario dell’evento e si garantivano i crediti formativi agl’iscritti. Ne esaminò il contenuto rapidamente per poi allontanare tutto quel materiale dal proprio spazio con un gesto netto della mano. Frattanto, gli si fece incontro il collega ed ex compagno di studi che lo aveva voluto quale relatore. Si abbracciarono, si scambiarono qualche parola di sincero affetto e continuarono a parlottare anche durante i primi interventi degli altri relatori, sotto lo sguardo sospetto del moderatore, che sicuramente non gradiva il brusio di sottofondo. L’intervento del professore sarebbe stato l’ultimo tra quelli previsti per la mattina.

Verso le tredici, il moderatore lo interpellò per dargli la parola. Furono necessari due richiami e una gomitata dell’amico per scuoterlo dal torpore. Vincendo di colpo il sonno, iniziò a parlare, dopo aver strizzato l’occhio ai propri studenti che simularono un’onda di acclamazione in pieno stile da stadio e attirandosi lo sdegno dell’intero uditorio. Il professore si preoccupò, anzitutto, di non deluderli: “Joyce! Eccellente scrittore. Erudito, imponente, magistrale. Chiunque voglia definirsi scrittore non può non aver letto Ulisse o, allo stesso modo, Guerra e pace. Gli interventi sulle strutture e sulle sovrastrutture, sulle forme et cetera sono stati illuminanti. Si dice… ed è bene che si dica. Vorrei capire, tuttavia, cosa illuminano. Mah! A che tutto questo? Mi si chiede di esprimere un parere sulle nuove correnti letterarie. Bene! Anzitutto, vorrei che non fossero delle correnti.”

Dopo questo esordio, fece una pausa di un paio di minuti, causando non poco disagio. I suoi fan ridacchiarono. Gli altri uditori ne furono visibilmente imbarazzati. Non furono da meno gli accademici. Poi, d’improvviso, ricominciò: “Se uno è fresco è fresco. Me l’ha detto un mio studente. Io sono un tipo fresco oppure un tipo ok. Questo linguaggio è primitivo, originario, essenziale. Però, per esso bisogna trovare un contesto. Ecco il compito dello scrittore! Joyce ha fatto il suo tempo, collega. Basta! Non se ne può più. Mi dica: lei sarebbe in grado di scrivere un romanzo alla Joyce? Non credo proprio. Non ha la faccia. Allora, lei è del tutto fuori del contesto. Non può impiegare vent’anni della sua vita ad analizzare un autore al quale spera disperatamente di assomigliare. È frustrante. E inoltre, non capisco, credetemi, come si possa violentare a tal punto la mente di uno scrittore, morto da chissà quanti anni e che, di conseguenza, non potrà mai reggere un confronto, a tal punto, dicevo, da fare ipotesi allucinatorie su ciò che lo ha spinto a scrivere in un modo anziché in un altro… per poi produrre un saggio di seicento o settecento pagine di analisi letteraria. Io la chiamerei ideazione suicidaria. Insomma, scriva un bel romanzo! Alla Joyce, se le riesce di farlo. Può anche darsi che lo leggeremo.”

Nel frattempo, l’accademico al quale il professore aveva rivolto il messaggio era rosso e gonfio di rabbia, sul punto di sbottare in invettive e improperi d’ogni genere. Il pubblico, tra le altre cose, cominciava a divertirsi, pur trattenendosi dall’abbandonarsi alle risa; la qual cosa indispettì oltremisura l’esperto joyceano, secondo il cui punto di vista le nuove correnti letterarie avrebbero dovuto riesaminare certi classici allo scopo di reinventarli, se non, addirittura, ricostruirli. La sua irritazione giunse al culmine, quando la voce anonima di un allievo universitario, dal fondo dell’aula magna, gridò “bravo”. A quel punto, infatti, l’illustre saggista si alzò furioso e abbandonò tra i fischi il consesso. Dopodiché, il professore, come se nulla fosse accaduto, procedette nella dissertazione, sempre in stile dissacrante e canzonatorio: “Dal momento che quel pover’uomo ci ha abbandonati, non abbiamo più qualcuno da insultare.”. Questa volta, dall’uditorio si sollevò una risata uniforme e fragorosa. “Signori, ci sono delle funzioni del linguaggio che, tuttora, ci rifiutiamo di utilizzare, come se dovessimo rispettare una sorta di comandamento della sacra letteratura. La parola è anzitutto un rumore, un suono indecifrabile e il linguaggio è insufficiente a dirci come stanno le cose, fuorché si sia disposti a credere che ci sia una corrispondenza tra la chimica del cervello e quello stesso linguaggio che utilizziamo con la convinzione di dire qualcosa di sensato. Allora, a uno scrittore contemporaneo non resta che volgere lo sguardo a tutti quei codici del tutto privi di sovrastrutture, i codici della necessità, quelli dei giovani ignari del problema del linguaggio, quelli dei bambini e, perché no, quello delle prostitute o dei criminali. Immaginate una prostituta extracomunitaria che dica ad un cliente:  – su, vieni! -”.

A queste parole, uno degli ascoltatori, tronfio e insolente, balzò in piedi e interruppe il relatore: “Lei è un esperto di prostituzione! Dico bene, professore?”.

Senza lasciarsi intimorire, il professore rispose: “Io predico bene e razzolo altrettanto bene. Caro signore, se devo parlare dei linguaggi essenziali, dei rumori melodiosi della strada, non posso esimermi dal fare indagini sul campo. Non posso rimproverare un collega per la sua distanza da un contesto reale per poi commettere lo stesso errore. Quindi, per me, frequentare le prostitute o i transessuali o i criminali è un dovere da letterato.”

VII

Un applauso di cocente approvazione coperse la voce del professore, il quale andò avanti: “Non molto tempo fa, il mio preside mi consigliò di andare da una psicoterapeuta. Io, essendo rispettoso del mio superiore, accettai il consiglio. A tal proposito, però, emerge un grosso problema: se la dottoressa ha un bel culo e delle belle tette, la psicoterapia funziona. E aggiungo: solo per un po’, il tempo della seduta… perché, a un certo punto, bisogna pagare. E le sedute, com’è noto, hanno un bel costo. Qual è la morale della favola? Uno scrittore che volesse offrirci un resoconto della relazione tra la psicoterapeuta e il paziente dovrebbe indagare su tutte le concause nascoste, non potrebbe limitarsi a descrivere il rapporto di causa ed effetto: il preside, il professore, la psicoterapeuta e blà, blà, blà. Questo, bisogna dirlo, Joyce lo fa benissimo. Alle otto e quarantacinque del mattino, cioè quando inizio le mie lezioni al liceo, gli allievi mi guardano catatonici, siamo tutti un po’ grinzosi, come lo è il lenzuolo stretto e schiacciato, quando dormiamo bocconi. Allora, mi metto a girare lentamente tra i banchi. Mi serve vigore. È inutile chiedere una disciplina inesistente e che sarebbe utile, diversamente, solo a scrivere altre settecento pagine d’un saggio che pochi esseri umani leggerebbero e che nulla ha da chiedere alla poesia. Scivolo tra i banchi. Devo stupire i miei allievi per svegliarli; non del tutto però! Non è facile rispondere a tanta responsabilità. D’un tratto, mi sovviene l’idea determinante. Passeggiare in aula interpretando e incarnando le norme interpuntorie. Ecco la soluzione! Ma che vuol dire? Il passo lentissimo dovrebbe corrispondere a tre puntini di sospensione. Il passo lento all’asindeto. Può darsi. Il passo lento, breve e circostanziato corrisponde sicuramente al punto e virgola. Che vuol dire passo circostanziato? Un passo osservato in fase di svolgimento. Il passo seguito da una sosta in un punto qualsiasi dell’aula è inequivocabilmente un punto. Il salto a piè pari potrebbe essere altrettanto inequivocabile: due punti. Ma non posso fare il salto. È la congiura delle norme interpuntorie contro di me. Ho la vescica piena. Devo svuotarla. In aula è impensabile. Il gesto non avrebbe alcunché di interpuntorio. Vado a pisciare tra la sosta del punto e i due punti. A quale formula di scrittura corrisponde? Mi serve un esempio dotto. Ci penso, mentre, già in bagno, mi libero del peso. Il voyeurismo di Dante per Beatrice nella Vita Nuova. Sì, non guardatemi come allocchi! Chiamiamo le cose col giusto nome. Dante era un voyeur. D’altronde, c’è un che di fisiologico. Con un bel giro di parole potrei cavarmela. No! Non va proprio. È tutto così spirituale. Citiamo un altro voyeur! Petrarca. Anche qui potrei cavarmela. Ma non se ne parla proprio! Neanche in questo caso. Un mito è pur sempre un mito. Non va toccato. Allora, Boccaccio! Andreuccio da Perugia mi pare bell’e rincoglionito. E poi… se gli studenti lo raccontano in giro? Un po’ di educazione culturale non fa mai male. Vediamo un po’. Tasso, Boiardo, Ariosto. Un Orlando che perde il senno per poi ricuperarlo sulla luna grazie ad Astolfo e a un cavallo alato potrebbe anche costituire la manifestazione di un problema di ordine fisiologico nella scrittura. Sì, ma così s’indebolisce il processo di fascinazione. Lo stesso dicasi per il don Chisciotte! Nobiltà non rima con pisciare né con fisiologia. La scrittura è un atto creativo; non la si può mica insudiciare in maniera spicciativa. Mi occorre un salto temporale. Non è escluso che la letteratura dell’Ottocento e del Novecento mi sia più favorevole. Ho trovato! Kafka. Tutti hanno letto di Gregor Samsa e nessuno può negare che uno scarafaggio sia tanto immondo quanto una scrittura che manifesti una fisiologia impertinente e inopportuna. La pelle del mio pene s’impiglia nella chiusura lampo, proprio mentre sto per mettere a punto l’esempio dotto. Il dolore lancinante spazza via ottocento anni di letteratura. Il mio membro è arrossato. Al rientro in aula sono pallido, ma godo della sensazione di scampato pericolo. Gli studenti mi fissano. Sono in debito con loro! Ricomincio a passeggiare tra i banchi e medito sempre su qualcosa di fisiologico, qualcosa che renda l’idea dello scampato pericolo! Uno scrittore contemporaneo potrebbe cominciare proprio dall’arrossamento di un membro qualsiasi. Vi ringrazio dell’ascolto! Una buona giornata!”

Una poderosa ovazione accolse il professore che s’apprestava a lasciare lo scranno. Gruppi indistinti di uditori gli si avvicinarono per complimentarsi con lui. Egli fece appello a tutta la propria inventiva per evitarli e puntò risoluto l’uscita. Mentre stava per defilarsi, però, s’udì un colpo di pistola che intronò l’intera aula magna. Come fosse attratta da una calamita, la più parte dei presenti s’ammucchiò attorno al corpo esanime della studentessa universitaria che s’era appena tolta la vita con un gesto plateale, infilandosi in bocca la canna di una trentotto e facendo fuoco alla presenza di amici e colleghi. Il professore s’impietrì. Contemplò la scena imprecando tra sé: “Gli eventi pubblici non portano mai a nulla di buono!”. Gli riusciva difficile sopportare lo sdegno alla vista di quella calca di omuncoli curiosi che subissava di sguardi e commenti il cadavere della giovane donna. Poi, premuroso e paterno, con la coda dell’occhio, vide i propri studenti inseguire la folla e si slanciò a impedire loro di partecipare allo scempio.

Sentì il bisogno di isolarsi ad elaborare un angosciante dolore ignoto e che giudicò irragionevole e impertinente. Appena fuori dall’istituto, infatti, si assicurò che i ragazzi riprendessero la via di casa e cercò le strade meno affollate per fare ritorno alla propria, senza opporsi più alle lacrime, che solcarono copiosamente il suo viso.

VIII

Le sue palpebre avevano frequenti e molesti scatti nervosi. Scrollando le spalle e rassegnandosi a sopportare l’inconveniente, qualche giorno dopo il misfatto, il professore passeggiava lungo i corridoi del supermercato, le mani intrecciate dietro la schiena, come fosse sotto il loggiato d’una città barocca mai visitata. Di tanto in tanto, alzava lo sguardo in direzione dei neon che inondavano di luce bianca e impersonale la mercanzia e sporgeva in avanti le labbra con tale sforzo muscolare che la bocca sembrava torcerglisi in manierismi schizoidi. Tornando a osservare i prodotti, pur senza sceglierne alcuno o valutarne i prezzi, grugniva con palese inquietudine, lasciandosi andare a commenti alquanto strambi e che attiravano l’attenzione di chi gli transitava allato, ma confermando a sé stesso che sarebbe stato necessario fare la spesa.

La prima mezz’ora, infatti, era trascorsa nello spiegamento di questi balzani giochi di ruolo e della personalità.

A un certo punto, il professore, con un’ostentazione di calma che non corrispondeva affatto al suo reale stato d’animo, s’appressò ai reparti di pretto interesse femminile.

Di lì a pochi giorni, avrebbe ricevuto la figlia, la quale, oberata di lavoro, lo aveva pregato di approvvigionarla delle risorse necessarie alla permanenza. La prima fatica consisteva nell’acquisto degli assorbenti, sebbene la figlia gli avesse impartito un’eccellente lezione in merito. Senza perdersi d’animo, andò alla ricerca d’un carrellino e riguadagnò la posizione d’attacco. Studiò il settore grattandosi il mento e s’avvide, con un colpo d’occhio, d’essere accerchiato da donne d’ogni genere e specie con al seguito chiassosi bambini. Quest’ultima visione gli provocò una tale negativa suggestione da alterarne i tratti somatici in amorfi e ridicoli piegamenti delle labbra, degli zigomi e degli occhi. Facendosi violenza, in una sorta di grottesco training autogeno, si chinò e allungò la mano su una scatola di colore viola con su scritto “Provami Nuova Linea Anatomica Assorbenti con ali”.

La afferrò, la fece ruotare davanti al proprio naso con un misurato lavoro di polso e, sempre più perplesso, con un sorrisetto amaro che gli attraversò rapidamente il viso come un’onda d’incalcolabile misurazione, la scaraventò nel carrello. Fece una pausa insignificante. Poi, più risoluto che mai, ne prese una decina, nell’assurda convinzione che un paio di confezioni fosse insufficiente. Cinque, a suo modo di vedere, sarebbero bastate appena. Procedette, quindi, ad analizzare la nota della spesa, ma lo fece con marcati sbuffi d’indignazione. Certe operazioni lo imbarazzavano e, per l’appunto, lo indignavano, anche se non avrebbe mai opposto un diniego alla richiesta della figlia.

La seconda fatica non era meno preoccupante della prima, richiedendo delle competenze tecniche: occorreva trovare una crema per il corpo alla vaniglia e alla mirra, ma occorreva anche mantenere i nervi saldi anche perché la nuova ricerca implicava degli spostamenti decisivi e la capacità di farsi largo tra le giovani donne.

L’approccio fu disastroso.

Le scaffalature gli parvero anonime, le creme erano troppo numerose perché se ne potesse selezionare quella adeguata ai bisogni della figlia, la quale, tra le altre cose, non si sarebbe accontentata d’una scelta di ripiego. Al povero professore toccò, pertanto, andare su e giù per i corridoi, senza riuscire a cavare il cosiddetto ragno dal buco. La turbolenza dei bambini che gli schiamazzavano attorno, la voce metallica della filodiffusione che promuoveva le offerte, il chiacchiericcio delle famigliole e, più in generale, l’intero corredo umano del supermercato lo confondevano oltremisura. Si chiese più volte perché mai la figlia lo avesse condannato a tale supplizio.

A poco a poco, tra una smorfia d’insofferenza e un sorriso di rassegnazione, si sciolse dai pregiudizi di genere e decise di chiedere aiuto a una delle esperte clienti che, in quel mondo, si destreggiavano con piroette da acrobata. Si rivolse, a caso, alla prima donna che gli capitò a tiro. Era un’abbondante signora bruna sui quarant’anni che si faceva notare per la formosità dei seni e delle natiche, che sembravano lottare con la resistenza dei tessuti per uscire allo scoperto.

“Signora, mi perdoni per la prevaricazione! Saprebbe dirmi dove trovare una crema per il corpo alla vaniglia e alla mirra?”

La signora guardò subito il professore con una certa ambiguità, propria di chi avrebbe voluto curiosare nelle ragioni di quella richiesta con una bella serie di domande inopportune, anziché dare il suggerimento, tanto che non rispose con prontezza. Tenendo a freno la linguaccia, disse: “Lei è fortunato. Io uso questa crema da parecchi anni e le assicuro che si tratta di un prodotto eccellente. Idrata la pelle, la profuma, la rende morbida al tatto. È un’ottima scelta. Se poi le interessa il consiglio di una che se ne intende, lei non deve fare altro che applicare la crema dopo una bella doccia calda. L’effetto è dieci volte superiore. Comunque, io sono Maria. Mi scusi, se sono indiscreta, ma lei ha un volto noto. Ecco! Lei è il professore… mi perdoni! Sì, è lei, il grande scrittore. L’editorialista.”

Il professore era sul punto di sbottare in una risata grassa e sprezzante, più che altro la covava, ma il senso di istupidimento era tale da impedire qualsiasi altra reazione.

“Signora” le disse “vorrei solo sapere dove si trova questa eccellente crema.”

La donna, la cui ambiguità s’era presto trasformata in malizia e sfrontata civetteria, s’affrettò a indicare la collocazione della crema. Il professore, per contro, non rinunciò a predare la vittima: “Se mi è concesso, signora, ha letto qualche mio lavoro?”

“No!” rispose seccamente la signora. “Il lettore della famiglia è mio marito. Io mi ricordo di lei in un’intervista in tv di parecchi anni fa.”

“Bene!” sentenziò il professore, prima di piantare in asso l’interlocutrice “Allora, non esiti a salutare per me suo marito!”

Congedandosi energicamente dalla donna, il professore tese tutti i propri sforzi ai successivi acquisti, tra cui spiccava in ordine d’importanza una confezione di salviettine struccanti. Altra bella fatica. Fu così che si rimise di buona lena a ispezionare le scansie del reparto. Trovò subito ogni genere di salviettine, ma di quelle struccanti non c’era traccia. Si fermò, stese bene davanti a sé il foglio della nota ormai stropicciato, fece scorrere l’indice della mano destra sotto i titoletti e si chiese se fosse possibile fare a meno di qualcosa. Frattanto, si rese conto, con la coda dell’occhio, che una donna, da un po’, senza infingimenti né particolari stratagemmi, sbirciava il suo pezzo di carta. Egli, con la solita pronta comicità, glielo mostrò interamente, così da evitarle lo sforzo di tendere il collo. Ella, con determinata sfacciataggine, si tolse gli occhiali, raccolse in una crocchia i lunghi capelli castani con entrambe le mani e si tuffò nell’esame dell’intero elenco. Ultimata la lettura, prese il professore sottobraccio e lo condusse direttamente al prodotto. Al professore piacque ogni momento di quella scenetta da commedia dell’assurdo. Tra le altre cose, aveva riconosciuto quasi immediatamente la protagonista della densa ed estemporanea pièce. Era la madre della ragazza che, qualche giorno prima, s’era tolta la vita nell’aula magna dell’università, sul finire della sua relazione al convegno.

IX

Si diceva che la donna, già affetta da disturbi della personalità e, più volte ospedalizzata in preda al delirio, dopo il terribile lutto, avesse subito un devastante peggioramento, a causa del quale era stata vista parlare animosamente con la figlia defunta sul posto di lavoro, dal quale era stata immediatamente allontanata. Le allucinazioni e i deliri non l’avevano privata del tutto di lucidità e autonomia; anzi, in qualche modo, l’avevano consegnata a uno stato di fiabesca beatitudine in cui ella era persuasa di avere ritrovato la figlia. Di conseguenza, le sue movenze e il suo linguaggio s’erano ricostruiti alla luce di un candore incorruttibile; ogni suo gesto e ogni sua parola erano sospinti da una spontaneità primitiva, una forma di purezza estranea anche al più audace degli avventurieri dell’intelletto, al più sincero dei poeti.

Il professore la trovò splendida nella sua carnalità sublimata. Le lasciò fare ogni cosa, senza parlare né tentare d’influenzarne il comportamento. Ne contemplò i tratti fisici fin dal momento in cui ella si fu incurvata sulla nota della spesa, come se fossero i confini d’una terra promessa ormai prossima. Le ciocche di capelli cascanti sulla fronte gli erano parse veli preziosi d’un sipario aperto sui lavori di bulino e cesello d’un ritrattista guidato da Dio. Nel suo volto, per lo più assente, aveva visto una gemma lavorata a rilievo: i grandi occhi verdi, il piccolo naso all’insù, la modesta sporgenza degli zigomi e il turgore delle labbra gli avevano fatto rilevare una divina proporzione.

Quasi mai, negli anni successivi alla morte della moglie, il professore aveva dedicato a una donna tanto riguardo e altrettanto raramente s’era lasciato suggestionare a tal punto da provare immediata eccitazione. Quand’ella lo ebbe preso sottobraccio, egli si sentì deliziosamente torturato da quelle unghie tinte di rosso rubino che, in cerca d’alloggiamento tra il fianco e il rilievo esterno del muscolo dorsale, sembravano ghermire una corporeità fin troppo acquiescente. Ritrovandosi accanto a lei, quale elemento naturale d’una coppia di coniugi, non aveva potuto fare a meno di smarrirsi nel decolleté improvvisato da un paio di bottoni abbastanza cedevoli della bianca camiciola di seta indossata dalla donna.

L’età non ne aveva affatto alterato la generosa sensualità, che si espandeva virtuosamente in forme vistose ma non troppo, eleganti, scultoree anche nelle imperfezioni causate dal tempo. La gonna nera che scendeva giù da una cintura beige elasticizzata e affibbiata sul basso ventre, giungendo a malapena alle ginocchia, spronava ulteriormente la fantasia erotica del professore, che si tratteneva a fatica dal lasciare che le proprie mani scorressero liberamente sul corpo della donna. E inoltre, l’alienazione patologica dal mondo faceva di lei, agli occhi di lui, un personaggio d’una commedia greco-classica che aveva il potere di stare tra gli uomini e gli dei, senza tuttavia doversi commisurare agli uni o agli altri.

 

Esausto di piacere, il professore staccò la mano dal braccio della donna e la fece scivolare sul fondo schiena di lei, facendola aderire pienamente alla parte alta dei glutei. Ella si girò di scatto a fissarlo e, stirando verso l’alto la parte sinistra del volto, dall’arcata sopraccigliare all’angolo della bocca, fece una risata altera e di compiacimento il cui suono somigliava a un cenno di vocalizzo d’un soprano. Il professore ne fu rincuorato e insistette a toccarla, rassicurato dalla copertura del cappotto di lei.

“Vieni da me!” le disse d’improvviso, non senza un tremito d’ansia.

“Buon uomo, voi mi affascinate!” rispose lei in un eloquio drammaticamente disorganizzato. “Ma l’uomo che m’attende non sa ancora abitare il centro della casa. E anche se so d’essere esistita solo io nell’incognita d’una vita reale o coniugale, resto promessa a quell’uomo. Sono una sacerdotessa del centro della casa.”

Bombardato da un’incredibile quantità di stimoli linguistici e figure del significato, il nostro, che non si sentiva affatto in imbarazzo, sottolineò con arguzia: “Si dà il caso, mia cara, che anch’io abbia il centro della casa e lì t’ho attesa per anni.”

“In questo caso la realtà è ideale.” aggiunse lei con inspiegabile intraprendenza e continuò: “È irremovibile la mia presenza nel mondo uterino dei centri della casa. Lo dico spesso anche a mia figlia: – Non fare molti esami, se poi non esisti come esaminata! -”

Udendo il termine “figlia”, il professore avvertì una sensazione di scoramento, non riuscendo a conciliare il proprio desiderio con quella maternità smembrata e disperata. Avrebbe rifatto il cammino della seduzione a ritroso, se non fosse stato certo che quel tentativo di conquista era stato animato, fin da principio, da un sentimento unico, quantunque ancora ignoto, ma dirompente, mai provato in tutti gli anni della vedovanza, difficile addirittura ad accettarsi come tale nella banalità di un pomeriggio trascorso al supermercato. Si chiedeva, infatti, con insistenza, se fosse possibile affermare d’amare una donna in quel modo. Egli la voleva tutta per sé. Non era di certo disposto a dividerla col marito o ad accontentarsi della clandestinità, resa peraltro impossibile dalle condizioni mentali della donna.

“Il mio intelletto perdeva sangue, quel giorno… La mia bambina aveva deciso di sostenere un altro esame…” soggiunse lei flebilmente e rabbuiandosi.

Egli le prese il volto tra le mani e le diede un bacio sulla fronte, un bacio che rasserenò la donna, la quale appoggiò la testa sulla spalla di lui e si lasciò trascinare in silenzio. Il professore toccava il cielo con un dito. Ella era la compagna di vita ritrovata: con un violento accesso d’egoismo lodò le virtù della schizofrenia, che considerò uno scudo contro le avversità del mondo esterno. Scosso dalla passione, il professore la condusse fuori dal supermercato. Ella non protestò, lo seguì affabilmente. Poi, salirono sull’autobus e, in poco meno di mezz’ora, furono sulla soglia dell’appartamento di lui. Egli se ne fece servitore, riservandole ogni premura. La fece accomodare sulla propria poltrona e la invitò ad assumere la posa che giovasse maggiormente al suo benessere. Le chiese se avesse fame e cosa desiderasse, così da prepararle qualcosa di prelibato, ma ella, in risposta, improvvisò uno strano canto il cui ritornello era: “l’uccellino vien cantando”. Egli s’inginocchiò ai suoi piedi e la ascoltò con religiosa devozione.

Alla fine del canto, le prese le mani e ne contemplò, eccitato e commosso, il rosso rubino delle unghie. Iniziò a baciargliele e ad accarezzarle con la punta della lingua. Con una certa mollezza, ella gliele porse, quasi fossero doni votivi, ma, sporgendosi in avanti, gli fece capire di pretendere un bacio. Si baciarono con delicatezza, lentamente, gustando ogni passaggio di quel contatto. A poco a poco, abbandonarono sul pavimento tutti i vestiti e si accompagnarono vicendevolmente in camera da letto. Patrizia si distese goffamente sul letto, assumendo una posizione perfettamente retta e in linea col piano d’appoggio. Egli ne rise dolcemente e le si sedette accanto, senza mai smettere di toccarla, senza mai rinunciare a procurarle piacere. Quella donna, si disse, lo avrebbe amato solo nell’accoglierlo dentro di sé. Il suo sguardo, chiaramente infisso al tetto, e la sua immobilità avrebbero potuto trarlo in inganno, ma le vibrazioni del corpo e l’espressione di quel viso rapito dalla letizia e dalla piacevolezza erano limpide testimonianze di attaccamento a quella forma di vita. Le si mise addosso, invitandola a divaricare le gambe. Tentò di catturarne lo sguardo, ma non ottenne successo. Si decise, non senza esitazione, a penetrarla. All’inizio, fu difficile muoversi dentro di lei, senza sentirne le spinte pelviche, cosicché Augusto stentò a goderne. Poco dopo, però, egli fu costretto a fermarsi. Ella lo aveva stretto a sé con tale forza e con tale vigore lo esortava a continuare che, sulle prime, egli aveva temuto che qualcosa d’ignoto o allucinatorio stesse per portargliela via. Fu un vero e proprio rapporto d’amore, al termine del quale egli si prese cura del suo riposo. La accompagnò in bagno, la lavò e la riportò a letto. Rimboccatele le coperte, le si mise accanto e la vide dormire per tutta la notte.

X

La luce è un fenomeno imprevedibile. Ci investe in un volo di cui siamo partecipi, ci trascina, eppure non ci stanchiamo di dichiararci immobili. Talvolta, la scopriamo nelle pieghe d’un corpo e ne siamo eccitati, ma non ci avvediamo che la porzione illuminata, lo spazio in cui qualcosa prende vita, è la sola probabilità d’esistere che ci spetta. La riconosciamo in chi ci sta innanzi e ci rifiutiamo di accettare che prenda le forme che noi a essa attribuiamo. La probabilità è, pertanto, percepita come una specie di dannazione, una dannazione innominabile. Ci spostiamo gli uni verso gli altri a imitare figure assenti o, forse, più che assenti, sarebbe corretto dire figure inesistenti, leggendarie, provenienti dai miti della nostra infanzia, storie di eroi che ci portiamo appresso, come fossero soprabiti che rechiamo sottobraccio. Indossarli comporterebbe disagi d’ogni genere: la taglia non sarebbe mai quella giusta; spesso, anzi, è più grande di almeno due volte; il tessuto sarebbe inadatto al clima, tanto da farci avvampare di calore; saremmo goffi e ridicoli, ce ne vergogneremmo. Allora, per quale ragione ci ostiniamo a non gettarli via? Anzi, perché ci affanniamo a provare anche i soprabiti altrui?

La mattina successiva, il professore si sentiva preda e, nello stesso tempo, cacciatore. Si mise a passeggiare lentamente per la casa. Di stanza in stanza, la penombra gli faceva avvertire come dirompente la nostalgia di un corpo femminile. Intrappolato in una caverna archetipica, riusciva a balzarne fuori solo per pochi istanti, tempo durante il quale si vedeva nudo, piccolo e indifeso. La donna non era stata altro che la probabilità d’un ritrovamento. Tuttavia, non era quella metà psico-fisica che egli era solito dipingere di rosso rubino in memoria dell’amante, moglie e madre perduta.  La sua limpida perspicuità non lo tradiva quasi mai; con sé stesso era altrettanto arguto, pugnace e graffiante quanto lo era con gli altri. Riaccompagnarla a casa, dopo quella notte, non era stato solo un gesto come tanti altri. La schizofrenia della donna, per lui, non era stato affatto un impedimento. Anzi, per certi aspetti, non se n’era mai curato.

Il professore aveva un singolare pregio: sapeva di sé e ciò gli era utile a sapere anche degli altri. La camminata mattutina, al risveglio d’un giorno qualunque, fu un’incursione nella memoria, non nella memoria della lontananza e dell’assenza, ma nella memoria della presenza tangibile, di quelle visioni dalle quali la sua vita traeva origine ed energie. Procedeva a occhi chiusi e con particolare circospezione, sembrava impegnato in uno strano rituale: s’avanzava poggiando la punta del piede sinistro e, prima di sollevare l’altro piede, si metteva in ascolto, per un paio di secondi e non oltre, dell’impercettibile rumore del calpestio, come a gustarne l’evocazione.

Sentì il bisogno di stringere a sé la figlia, che non incontrava ormai da parecchio tempo. La moglie non c’era da vent’anni. Queste figure prendevano posto tra i suoi pensieri secondo il ritmo dei passi. Cercò una seggiola e si sedette per meditare sulla solitudine come condizione dell’esistenza, sforzandosi di osservarsi come uomo solo, ma non riuscì ad avvilirsi o a collocarsi in quella definizione, anzi, quanto più pensava al proprio isolamento, tanto più si faceva beffe di chi lo giudicava emarginato; il che era un bel guaio, a dire il vero, perché escogitava sempre nuove burle a scapito di chi faceva di tutto per screditarlo.

 

Di fatto, il professore era, per così dire, un personaggio imbarazzante, a tratti, anche esasperante. Lo era principalmente perché nell’imbarazzo e nell’esasperazione che generava egli trovava diletto e appagamento. La donna di cui aveva bisogno, in sostanza, non c’era, ovvero, diversamente, aveva bisogno di una donna che non voleva al proprio fianco. Era fanciullesco, nella manifestazione del bisogno d’una figura che si prendesse cura di lui; inerme unicamente perché accettava di buon grado l’insoddisfazione, senza alcun moto di ricerca.

Dalle imposte non gli giungeva luce. Si rese conto d’essersi alzato più presto del solito, forse per la smania di recarsi al liceo. Abbandonò in fretta la postazione, si vestì e scese per le strade. Lesto, s’avviò verso il bar dell’angolo, dove s’infilò a capo chino, un po’ infreddolito.

“Professore, buongiorno! Come mai a quest’ora?” esordì il barman.

“Come mai a quest’ora? Che domanda è? Cosa vuoi sapere?” rispose il professore, sempre mordace, ma con inappuntabile rispetto.

“Professore, lei è sempre il solito!” aggiunse il barman sorridendo.

“A dire il vero, non sono sempre il solito. C’è da impiccarsi ad essere sempre i soliti tutti i giorni.” continuò il professore.

“Come posso darle torto!?”

“Cerchiamo di capire! Poco fa, hai detto che sono sempre il solito. Poco dopo la mia battuta, invece, hai dichiarato il contrario, dandomi ragione. In pratica, secondo te, io dovrei impiccarmi?”

“Professore, lei, con questi giri di parole, è pericoloso. Cosa prende? Caffè?”

“No, mio caro! Un tavolino, se me lo concedi.”

“Come? Un tavolino?”

“Sì, un tavolino. In prestito, s’intende. È così strano? Ci conosciamo da tempo ormai. A chi dovrei chiedere un tavolino in prestito, se non a te?”

“Certo, professore! Glielo presto pure, di cuore, ma che…”

“Mi serve un tavolino. Punto! Sta’ tranquillo ché ti farò buona pubblicità! Scriverò qualcosa con cui ringrazierò il te per la gentile concessione del tavolino.”

“Professore, faccia pure! Mi sento onorato.”

“Bene! Allora, prendo questo. A presto e grazie!”

XI

Intorno alle sette del mattino, il Professore s’incamminò verso il liceo. Procedendo a sghimbescio, era goffo, senza perdere grazia. Ridacchiava all’idea di ciò che, di lì a poco, sarebbe accaduto; guardava di sottecchi la strada, ma non perdeva di vista il tavolino, che abbracciava con tale premura che tutti i passanti, incuriositi, ma esitanti, rallentavano il passo per prendere parte alla misteriosa scena: un uomo d’ammirevole portamento, curato, ben vestito, stringeva al proprio petto le gambe di ferro battuto d’un vecchio tavolino dal ripiano verdognolo, sul quale poggiava il mento, ancheggiando alquanto a reggerne il peso e non lesinando affatto ammiccamenti e strizzatine d’occhio verso gli spettatori.

 

Gli uomini sono capaci di trasformare in mistero l’ovvietà; vivono nella speranza d’uno scandalo da osservare, giudicare e riferire al solo fine, di cui la maggior parte di loro non è cosciente, di dare senso e significato a una vita fatta di pura evasione da sé. Costoro sanno di non potere essere protagonisti dell’evento straordinario, ma la sensazione della vista e l’uso della parola quale espressione della loro semplice presenza li eccita, li mantiene in vita fino all’episodio successivo, dissimula il lutto della prematura perdita della loro personalità, lutto mai elaborato, mai sottoscritto, ma che li ha sorpresi già in tenera età, tra la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta.

Accade così che un professore bizzarro, uno schizofrenico o un incidente mortale all’angolo d’una strada qualunque sono assimilati al gesto atletico del grande calciatore o al magistrale verso del poeta, che incantano e mandano in visibilio gruppi indistinti di uomini e donne smaniosi d’appartenere alla storia, frustrati dalla propria impalpabilità e che finiscono col diventare fasi di quegli stessi eventi di cui sono bisognosi. Tra un evento e l’altro, essi sperimentano il ricordo come premessa dell’attesa e fanno della propria memoria un laboratorio di sperimentazione: raccontano più volte, a sé stessi e agli altri, fino all’estenuazione, ciò che hanno visto; essi sono semplicemente testimoni; ogni narrazione è sempre più ricca, ma sempre più sofferta perché ogni aggiunta mendace e ogni sfumatura corrispondono a una privazione: raccontano non solo e non già ciò di cui avrebbero voluto essere attori, ma anche ciò che avrebbero voluto fare e che non hanno avuto il coraggio di fare. Menzogne e sfumature denunciano la loro sensazione di morte imminente. Il conflitto, poi, assume dimensioni spropositate e diventa incontenibile. Quando la fantasia non ha più la realtà come sostegno, quando non c’è più alcunché da inventare perché il tempo tra gli eventi è talmente lungo da indurre episodi depressivi, allora il disagio diventa collera e qualcuno deve pagare. Il primordiale istinto d’uccidere deve essere, per così dire, razionalizzato e qualcuno deve fungere da capro espiatorio.

Tutto ciò – con riferimento al nostro – non implicava che chiunque lo incontrava volesse passeggiare abbracciando un tavolino o smaltarsi le unghie di rosso rubino, sia chiaro!  Il professore era un raffinato conoscitore di queste bizzarre manifestazioni della mente e, molto di frequente, giocava d’azzardo, anche cinicamente, sfidando direttamente l’inconscio. Col tempo, col quale s’era alleato, aveva anche imparato a separare perentoriamente e con rigore marziale, la vita privata, emotiva, intima, da quella pubblica sociale, nella quale era spesso buffonesco e felice d’interpretare ora l’uno ora l’altro dei personaggi del teatro d’una guerra che tutti gli schieramenti avevano sanguinosamente perduta.

Giunse davanti al liceo sudaticcio e se ne infastidì. Sistemò il nuovo banchetto per la didattica quotidiana sul marciapiede, si tolse il soprabito beige, ripiegandolo accuratamente, e allentò il nodo della cravatta. Non gli piacque molto l’idea d’apparire dimesso o sportivo, ma si sottopose con scioltezza alla pratica ed alla desueta immagine. Si guardò intorno e incontrò solamente visi pallidi di studenti sonnecchianti. Il torpore inciso su quei volti, che, fin dal mattino, rivelavano freddezza, disinteresse, noia e chissà quante altre forme di distacco dal mondo, lo indispettiva; non si capacitava della difficoltà con cui alcuni adolescenti, di mattina, si staccavano dal letto. Gli sovvennero alcuni discorsi fattigli durante la carriera dagli studenti a proposito della scrittura e degli scrittori. Ne fu istupidito e commosso. Poi, crollò le spalle e s’infilò in istituto, marciando con risolutezza verso il proprio armadietto, allineato, suo malgrado, con quello dei colleghi, che quella mattina non salutò. Prese alcuni libri, un po’ di fogli formato A4, del nastro adesivo, un pennarello e uscì sotto lo sguardo incredulo del preside, già impazientito e allarmato. All’uscita dall’edificio, dal quale aveva appena prelevato una sedia, andò ad allestire la postazione.

Sulla colonna ai piedi della quale aveva preso posto, appese due foglietti. Sul primo scrisse Lezione Alternativa sull’Amore. Sul secondo: si ringrazia il bar per la concessione del tavolino. La rima lo divertì, quantunque banale. Frattanto, gli studenti, attratti dalla commedia e sicuri che il professore non li avrebbe delusi, cominciarono ad accalcarsi frenetici attorno a lui, borbottando e ridacchiando, ma contemplando il professore con intima reverenza. A poco a poco, infatti, senza che qualcuno desse loro indicazioni, si misero a sedere in cerchio, tra il marciapiede e la strada. Il professore aveva deciso di tenere la propria lezione al di fuori dell’edificio scolastico.

D’incanto, il silenzio calò dolcemente sui ragazzi, interrotto unicamente dai rumori dell’ambiente circostante.

“L’amore…” esordì gustando una lunga pausa e socchiudendo gli occhi.

“L’amore comincia sempre dalla manifestazione delle nostre paure infantili. È la paura di perdersi tra i suoni e le luci di un parco giochi, che ci stordiscono e ci portano in giro tra altalene e pupazzi: sull’altalena ci lasciamo spingere fino al batticuore; del pupazzo imitiamo inconsapevolmente l’espressione statica e ridicola. D’improvviso, siamo presi dall’ansia febbrile di volere sperimentare tutti i giochi, senz’accorgerci d’essere avidi ed egoisti. Ci annoia pure l’attesa delle file davanti alla biglietteria. Vorremmo scalzare tutti e possedere l’intero parco dei divertimenti. Questa frenesia, però, a poco a poco, ci logora, ci fa perdere parecchie energie, fa svanire l’effetto allucinogeno, cosicché ci voltiamo alla ricerca del nostro accompagnatore e, nostro malgrado, non lo troviamo. Ci siamo perduti e facciamo fatica ad ammetterlo, ad accettarlo. Facciamo il cammino a ritroso, ma, la paura ha subito la meglio su di noi e pupazzi e altalene non ci sono più tanto familiari quanto lo erano all’inizio. Spinti dal bisogno di essere grandi e autonomi, di essere re del mondo anche per poco, abbiamo perduto di vista pure la strada di casa, di quel luogo dove una madre e un padre possono sempre proteggerci. Urliamo e iniziamo un pianto che non avrà più fine.

Crescendo, non facciamo altro che nascondere le lacrime e rivendicare sottovoce il bisogno d’una madre amante o d’un padre amante. Abbiamo paura e preferiamo anche un solo giro sulle montagne russe nella speranza di racchiudere in pochi minuti di esaltazione ed ebbrezza la responsabilità di una vita. L’amore, dunque, comincia da questa paura, che riduce il nostro coraggio fin dall’infanzia. Bisogna sapersi perdere autenticamente per imparare ad amare, perdersi in colui o colei che, pur ascoltando i suoni, sa distinguerli dal rumore, e, pur vedendo le luci, non si fa abbagliare, pur divertendosi, non ci perde mai di vista e sa sempre indicarci la via del ritorno a casa. Eppure, siamo scossi dalla memoria di un errore puerile e temiamo di vivere nell’altro e per l’altro, mistificando i nostri gesti e travestendoli d’un orgoglio inesistente, di cui non sapremmo neppure parlare.”

“Professore, che cos’è la sessualità, secondo lei?” chiese una ragazza della seconda fila.

Gli uditori, frattanto, si facevano sempre più numerosi. Per la prima volta, anche gli altri docenti erano impalati ad ascoltarlo, dimentichi pure del malanimo con cui di solito gli si rivolgevano e capaci, addirittura, di tenere a bada l’invidia che li portava, il più delle volte, all’inimicizia. Egli li notò e fece loro un cenno di benvenuto. Il preside avrebbe voluto esprimere la propria opinione; bolliva di gelosia, ma fu cauto, comprese che un intervento, in quel momento, gli avrebbe fatto guadagnare solo una vera e propria insurrezione.

“La sessualità è…” riattaccò con la solita pausa di piacere.

“La sessualità è, anzitutto, ciò che il nostro preside dovrebbe praticare di più!”

Non fece in tempo a ultimare la frase che le grida di approvazione e lo schiamazzo dei ragazzi fecero sprofondare il capo d’istituto nel baratro della vergogna. Di colpo, lo si vide impacciato, agitato, arrossato dall’ira.  Nessuno osò interrompere l’esultanza dei ragazzi. Solo il nostro avrebbe potuto ripristinare l’attenzione, ma non lo fece. Anzi, rincarò la dose. Fu sufficiente un suo braccio alzato a mostrare il palmo della mano a che i ragazzi si disponessero di nuovo all’ascolto.

“Ragazzi, sia chiaro: nulla di personale! Si tratta del nostro preside e abbiamo il dovere umano e istituzionale di rispettarne il ruolo e la professionalità.”

Quest’ultima affermazione lasciò tutti un po’ perplessi, ma, secondo il codice del nostro professore, non era affatto contraddittoria. Per lui, non c’erano gli elementi per gridare allo scandalo, ravvisare moti di vendetta o la volontà di mortificare qualcuno; per la qual cosa le due affermazioni erano perfettamente e contemporaneamente valide. Abituato, com’era, a trattare le questioni con acume scientifico e attenzione analitica, isolava le dichiarazioni e le definizioni dai pareri personali. Era ben conscio che invitare il preside, in pubblico, a praticare del sano sesso avrebbe generato un certo scandalo, ma egli non possedeva la stessa misura dello scandalo.

“Aggiungo pure che ciò che ho dichiarato è testimonianza della mia gratitudine nei suoi confronti.”

A queste parole, un po’ tutti aggrottarono le sopracciglia ed arricciarono il naso.

“Ragazzi, colleghi, il preside è stato così premuroso verso di me da suggerirmi un aiuto psicoterapeutico ed io, oggi, colgo l’occasione per ringraziarlo perché, recandomi dalla psicoterapeuta in servizio presso il nostro istituto, ho avuto modo di conoscere una bella donna, sebbene sia molto più giovane di me, e, in seguito alla piacevole chiacchierata, ho meditato molto su ciò che condiziona le relazioni tra uomo e donna, tra uomo e uomo o tra donna e donna. Nel vedere il preside così accigliato, stamani, ho trovato un paio di risposte alla domanda su come si possa definire la sessualità. Poco importa che la domanda mi sia stata fatta dopo. La sessualità, per chi appartiene alla nostra specie, nasce dalla stessa paura dalla quale comincia l’amore, ma è la prima tra le arti, se siamo disposti a mettere per un po’ da parte l’antropologia, senza tuttavia trascurarla troppo. Anche in questo caso, infatti, suoni e luci ci fanno diventare avidi. Anche in questo caso, abbiamo bisogno di giocare e di sentirci dire che siamo bravi. Non sempre è necessario che l’elogio arrivi dalle parole, spesso bastano le conferme di un contatto. Quanto maggiore è il numero dei contatti, tanto più bravi e forti pensiamo di essere. Qui, però, ragazzi miei, occorre prestare attenzione… perché quanto più forte è il bisogno di conferme, tanto più s’indebolisce il nostro essere. Il guaio è il seguente: sono vere e necessarie entrambe le cose! Pertanto, che c’entra il preside? E la psicoterapeuta? L’altalena tra bisogno di contatto fisico e indebolimento ci induce a proiettare sugli altri la nostra incapacità di equilibrio. Si finisce col vivere d’immaginazione e col pretendere dagli altri ciò che, in realtà, pretendiamo solo da noi stessi. Ecco! Ci vuole una ridefinizione: la sessualità è, prima di tutto, immaginazione. Presumo che il preside si sia ritrovato in questo stato d’angoscia o di scompenso e abbia voluto trasferire su di me un proprio bisogno. Io non posso che essergliene grato perché, grazie a lui, ho arricchito il mio pensiero, non la mia immaginazione, che ha diversa natura, si badi bene!”

Finito che ebbe di pronunciare la parola “bene”, sentì un tremito interiore, una specie di sussulto che ne arrestò la verve oratoria. S’appoggiò allo schienale e s’abbandonò a uno sguardo amorevole e trasognato, ma che fendeva attentamente la folla, fino a scavalcarla. Riconobbe il profilo della figlia, la quale a ridosso degli studenti, stava abbracciando calorosamente la psicoterapeuta dell’istituto, quella bella donna della quale egli aveva appena parlato. Le due donne, evidentemente, erano vecchie amiche. Il loro affiatamento era intuibile anche a distanza. Di occhio in occhio, gli sguardi si concentrarono tutti sulle due figure. Su quel piccolo mondo scese avvolgente una suggestione fiabesca.

XII

Qualche giorno dopo, si ritrovò nuovamente a faccia a faccia con la psicoterapeuta.

“Lei, professore, è un uomo malinconico, glielo si legge negli occhi!” disse la dottoressa col capo chino sul carpaccio di tonno preparato con accuratezza dal professore.

“Sì, è vero! Sono un uomo malinconico.” rispose pacatamente il professore, senza perdere la confortevole giovialità e con la complicità inespressa della figlia, la quale era talmente abituata ai giochi del padre che per lei certe frasi o passavano inosservate o erano il preludio ad una vera e propria avventura.

Alzando lo sguardo sul professore, la dottoressa se ne sentì fulminata, ammaliata e, pur volendo ribattere, s’affrettò a riempire la bocca di cibo. La figlia del nostro professore notò l’imbarazzo dell’amica, mentre il padre esibiva la solita imperturbabilità.

“Papino, fatti dare un bacio! Sei sempre più bello. Questi capelli bianchi ti donano fascino.” intervenne pungente la giovane donna, che in fatto di provocazioni era degna della propria linea di sangue. Poco dopo, infatti, aggiunse, rivolgendosi all’amica: “Tu che ne pensi? Secondo te, mio padre è un bell’uomo o il mio è solo il parere di una figlia innamorata?”

La psicoterapeuta, che aveva già conosciuto il personaggio durante il fantomatico colloquio in istituto voluto dal preside, non si lasciò cogliere impreparata, era una donna che univa alla bellezza arguzia e buona cultura, ma, prima di rispondere, commise l’errore di ravviarsi i capelli per poi raccoglierli in un elastico, come se volesse concedersi il tempo per una mossa adeguata; il che consentì al professore di poggiare delicatamente la forchetta sul bordo del piatto, tergersi le labbra dall’olio col tovagliolo e contemplare l’intero rituale. La contemplazione complicò le cose.

“Ecco… Io penso che… sì! Tuo padre è un bell’uomo, è affascinante; il tuo non è solo il parere di una figlia innamorata, a mio avviso… però dovrebbe regalarmi, ogni tanto, qualche sorriso, dovrebbe ridere un po’.”

Il professore, sulle prime, sporse le labbra in avanti; poi disse: “Di cosa dovrei ridere? Se lei brillantemente ha detto che io sono un uomo malinconico, è evidente che non posso regalarle sorrisi né ridere. Dovrei ridere della mia malinconia? Se così facessi, le toccherebbe prendermi in cura. Le sue contraddizioni, dottoressa, sono spaventose. Queste, a dire il vero, mi fanno sorridere. Deve essere un vostro vizio scolastico: fare la diagnosi e, nello stesso tempo, indicare la soluzione. Ciò che sta tra l’uno e l’altro degli estremi è abbandonato al caso. Io mi ritrovo spesso a contemplare con piacere ciò che mi accade intorno. Dunque: o lei è affascinata dagli uomini malinconici oppure ha mentito perché il suo “però” è una congiunzione avversativa. Nel primo caso, non dovrebbe suggerirmi di ridere di qualcosa, ma limitarsi a godere del mio essere malinconico. Nel secondo caso, non dovrebbe dirmi di essere affascinata da me. E inoltre, mia cara dottoressa, lei sa bene che cos’è il meccanismo di difesa della negazione! O sbaglio?”

“Sì, lo conosco bene e so altrettanto bene che lei mi piace, professore!”
“Si provi a immaginare un’altra scena!” ricominciò il professore “Interrogo un mio studente, il quale è palesemente impreparato, e gli dico: – Avresti dovuto studiare! -. È assurdo: se non ha studiato o non ha voluto farlo, non posso mica dirgli che avrebbe dovuto farlo perché la mia affermazione non cambia le cose. Perché sprecare fiato? Vi crogiolate nella melma della retorica comune, che è orripilante. Mi conceda di cambiare argomento! Di cosa dovrei ridere? Mia moglie è morta da parecchio tempo, mia figlia è lontana da me, vivo da solo, ho fallito in quasi tutte le mie imprese ideali. Se ne ridessi, sarei per lo meno squilibrato. Invece, sono fiero di me; lo sono proprio perché non rido di ciò di cui non ha senso ridere.”

“Papà, non esagerare!” intervenne con passione la figlia, avvertendo dentro di sé un sussulto di amarezza che avrebbe voluto nascondere perfino a sé stessa. Prese la mano del padre. “Tu mi hai donato tutto. È straziante sentirti dire queste cose. La mia amica non intendeva rattristarti, la conosco bene. È una donna amorevole e garbata.”

“Amore mio, io non sono triste. Ti prego di credermi! Non sono neppure depresso, anzi… riconoscere i propri fallimenti non significa affatto essere tristi o depressi.”

“Be’, comunque sia, vi prego di accettare le mie scuse!” disse con tono dimesso la dottoressa.

All’età di sessant’anni, il professore non si perdeva una battaglia. Anzi se le cercava. Era un tipo, per così dire, classico, ma mai privo di fervore romantico, pur nella flemma che lo contraddistingueva. Concepiva il sogno non già come un piano dello spirito, bensì come sfogo anomalo ed enigmatico della psiche e quindi da interpretare con metodi scientifici. Non ne faceva un segreto, al contrario se ne compiaceva e divertiva. Per lui tutto rientrava nella ferrea capacità d’analisi dell’individuo vivente, oltre la quale chiudeva gli occhi. Aveva la sagacia dello stratega in azione, l’intuito d’un inveterato giocatore di borsa, il fiuto d’un investigatore, la severità d’un vecchio precettore. In effetti, la comunità civile non era un luogo idoneo all’esercizio della sua funzione sacerdotale. Non confidava affatto in un’opera di risanamento del linguaggio e dell’agire, ma, per così dire, non era disposto a lasciar passare le forme di codardia o di pusillanimità dell’animo umano.

Era una sera fredda e nevosa. La solitudine del nostro si estese come un cedimento incontrastato al resto della compagnia. Si trattava d’uno stato d’animo che sciamava per la polverosa stanza come un insetto impazzito in fuga da un predatore. La figlia tentava invano di eludere i taciti ammonimenti del padre; ella rispondeva alla sorveglianza con qualche timida sbirciatina verso la finestra, mentre l’amica compiva alla meglio gesti piuttosto meccanici: qualche spolveratina qua e là al vestitino o qualche giochino antistress con la mollica appallottolata.

In verità, a quel punto della cena, la figlia voleva recarsi lungo la balconata a rimirare le alture imbiancate dalle prime nevi; la dottoressa, trentacinque anni, scultorea formosità vascolarizzata e abbellita da maliose venule verdognole, occhi grandi d’un grigio cangiante; né alta né bassa, naturalmente procace per sembiante, tra il biondo e il castano chiaro la chioma, era smaniosa di donare il proprio corpo a quell’uomo al quale chiedeva solo d’essere dominata. Dopo alcuni minuti di esitazione, tracannò, l’uno dopo l’altro, alcuni whisky e s’accoccolò sulla sedia tentando di stuzzicare il professore. Ogni suo tentativo, però, era vano, sulle prime, odioso, in seguito, poiché nulla carpiva l’attenzione di lui. Bevve ancora; cominciò a rimuginare incoercibili pensieri intrusivi circa la propria condotta morale; seguitò a mugugnare; quindi mormorò qualcosa a labbra serrate: “Ti voglio!”

Il messaggio era stato appena udibile, ma tutti ne avevano distinto suono e significato. La figlia si alzò, baciò l’amica sulla fronte e andò in veranda.

Il professore fu cinico: “Se anche ci fosse stata la possibilità d’amarsi, tu l’hai annegata nel whisky. Non faccio sesso con una donna ubriaca. Pretendo la piena consapevolezza di chi dice di desiderarmi.”

La dottoressa restò impassibile. Mentre il whisky faceva il proprio arcinoto dovere, ella, che stentava a mettersi in piedi, pur desiderando avvicinarsi a lui, si ripeteva, con flagellante e liturgica severità, frasi d’ammonimento a voce non troppo bassa, nella speranza che una benevola interpretazione dell’uomo le facesse guadagnare una specie di perdono, ma la bocca le si faceva pastosa, si sentiva gonfia, le parole le uscivano monche.

“Su, non essere stupida! E non blaterare!” sentenziò il professore.

Le parlò con estrema amabilità e paterna tenerezza. Il contenuto della frase, forse, non sorprendeva per acume, ma l’inaspettata saggezza, la metamorfosi dell’animo e l’ampia duttilità dell’uomo erano parvenze di divinità in uno scorcio fin troppo umano. Ella trovò, quindi, la forza per stringersi al petto dell’uomo, che la carezzò rassicurandola. Il nostro si ritrovò padre e amante. Non riconobbe chiaramente le sensazioni che lo scotevano, ma seppe di dover intonare una nenia, una vecchia ninnananna che era solito cantare alla figlia per favorirne l’addormentamento. La donna si lasciò cullare fino al sonno profondo. La figlia, che fino ad allora aveva trattenuto le lacrime, rientrò nella sala da pranzo col volto arrossato e bagnato, ma con un sorriso che impreziosiva il suo volto. Pose una mano sul capo del padre e gli disse: “Papino mio, è una brava ragazza… so che ha la mia età e ti conosco, ma sappi che mi ha confessato con fermezza il proprio innamoramento per te! Non dovrei influenzarti, ma…”

Il professore, intenerito, le rivolse un sorriso, ma non le rispose; poi sollevò la donna tra le braccia e la portò nella propria camera, dove la adagiò sul letto. Non prese posto al suo fianco, ma si sedette sulla poltroncina, prese un libro di poesie e si mise a leggere alla luce dell’abat-jour. La figlia ne ascoltò la declamazione e la spiegazione per un paio d’ore, dopo le quali si congedò dal padre, vinta dal sonno.

La notte passò e parve statica. Il nostro non dormì.

Il risveglio, per la dottoressa, fu come una caduta nel vuoto. Aveva nausea e mal di testa; era stordita. Si mise a sedere sul letto, reggendosi sui gomiti, e fece fatica a inquadrare l’uomo che, solennemente, stava seduto quasi di fronte a lei.

Il professore, sempre ricco di parole, non le diede certo un buongiorno convenzionale: “Per amare dovresti avere il coraggio d’essere una meretrice dal cuore d’oro, di far godere i mariti altrui e sporcare i pavimenti delle loro mogli. Non puoi mica stare tutta la vita a lustrarli. Amare significa avere il coraggio di profanare una chiesa, di distruggere un presepe appena allestito. Sono metafore. Il buon Dio mi perdoni! Ma c’è una pura violenza nell’amare che sta proprio nell’atto di sapere andare contro di sé, contro ciò che accetti come dovuto. Addio principino! Abbiamo letto tante poesie… Eppure, non riusciamo a capirne niente. Dovremmo avere un sovrappiù, capire di dolore, di piacere, ma tutto viene risucchiato dal buco dei nostri bisogni inespressi, dal punto fisso che ci si piazza davanti tutte le mattine al risveglio e non si sa mai se ci lasci in pace la sera, prima d’andare a dormire. Fa’ in fretta! Prendimi!”

La dottoressa non si fece ripetere neppure due volte l’esortazione. Gattonando, balzò addosso al professore e lo coprì di baci con tale frenesia da non lasciare spazio ad alcuna reazione. Tra un bacio e l’altro, gli sussurrava parole indebolite dall’affanno e dall’impeto. Gli strappò la camicia e lo cinse in un abbraccio, trascinandolo verso il letto. Appena giunto sul letto, egli le afferrò i polsi e glieli bloccò, affondando la propria lingua nella bocca di lei. Poi, entrambi si spogliarono in fretta. Ella voleva essere posseduta, il suo corpo ne urlava il bisogno. Egli, invece, cominciò a baciarle l’inguine per poi lasciare scorrere la lingua sulla vulva. Le cosce di lei gli si stringevano attorno al capo per le contrazioni del piacere, cui egli si opponeva con una decisa pressione delle mani, divaricandole. La sentì godere per la prima volta, ma non le concesse tregua. Entrò dentro di lei facendole sentire il peso e la forza del suo maturo corpo muscolare. Si rotolarono nel letto, amandosi e sperimentando una passione inspiegabile, indescrivibile, inimmaginabile. Si spossarono, ma, non ancora appagati, i corpi restavano intrecciati. La donna era distesa prona sotto di lui, che continuava a muoversi, col fiatone, con più calma che in precedenza, ma senza perdere vigore e agilità. Fu lei a interromperlo, ribaltando le rispettive posizioni. Egli, supino, sentì il caldo respiro di lei sui propri genitali.

Dalla stanza attigua giunsero le note d’una sonata.

La figlia era sveglia già da un po’ e gioiva all’idea che il padre potesse trovare amore, passione e conforto in una donna da lei stimata. Tuttavia, neppure la dottoressa riuscì a riempire il vuoto affettivo del professore. La donna lo avrebbe voluto, ma egli si oppose presto a ogni genere di frequentazione, cosicché, nei giorni che seguirono, si abbandonò a uno sferzante soliloquio.

XIII

“Vago, di notte, da sempre, come fossi rifiutato dal giaciglio, che mi accalora, mi sconsola e mi affatica. Ascolto, intorno a me, il respiro di chi dorme beato. D’altronde, è necessario che l’uomo riposi! Mangiucchio, passeggio, parlotto, scruto il buio o la penombra, nella speranza che qualcuno, destandosi per insonnia o qualcos’altro, mi faccia compagnia. Tutte le volte in cui si ha bisogno d’una compagnia notturna, il sonno altrui è profondo e imperturbabile. M’ingegno pure a produrre rumori neutrali, così da non essere troppo colpevole in caso di risvegli sperati o forzati. C’è poco da fare. Allora, rimugino, lascio che la mia testa si faccia pesante a poco a poco, mi faccio stordire dai miei stessi pensieri che elaboro in forma incompleta, non perché non sia capace di definirne almeno uno, ma perché, di fatto, accettando la complicità dello stordimento, comincio a immaginare che lo sforzo cognitivo mi porti dritto al sonno. Il più delle volte, l’armonia tra pensieri incompleti e sonno resta insensata e incompiuta. A un certo punto, sopraggiunge l’uggia sotto la specie dell’ipocondria e del sentimento tragico; temo d’essere colto da un malore e avvampo di paura: uno strano e diabolico bruciore si diparte dallo stomaco, mi percorre il torace e arriva alla fronte, provocandomi un principio di mancamento. Sudorazione, tremore e dispnea diventano semplici complementi del disagio, cui fa seguito, in genere, un pianto straziante: la paura della morte imminente mi fa pensare a mia figlia, che, qualora venissi meno, non avrebbe più la protezione che merita. Soffro intensamente all’idea che la mia piccola donna non possa più aggrapparsi alle spalle del suo forte papà. Forte? Sì! Può sembrare un aggettivo impertinente, invece è piuttosto pertinente! Eccome, se lo è! Non è mica semplice, alla mia età, cioè a sessant’anni, ritrovarsi pluridecorato dalla comunità scientifica, squattrinato e, per ciò stesso, squalificato dalla società, nei confronti della quale l’unica risorsa possibile diventa la menzogna. Bisogna pur raccontare qualcosa alla gente. Be’, non è obbligatorio! La gente si può pure mandare al diavolo, ma, con la scortesia, si peggiorerebbe il mio statuto sociale.”

“Il paradosso è presto fatto: se racconto la verità – cioè che sono un fallito – i miei interlocutori mi squalificano e, anziché impietosirsi, mi calpestano sempre di più; se racconto una bugia, la frustrazione e il senso di fallimento mi distruggono. Ci vorrebbe una sapiente miscela di menzogna e verità. Il verbo impietosirsi è un elemento di dubbio, talvolta anche di scandalo: sono sul punto di chiedere pietà e non me ne vergogno? No! Non me ne vergogno. Forse che c’è qualcosa di sbagliato nell’aspettarsi pietà? A ogni modo, ciò che più mi preoccupa è sempre lei, mia figlia, l’essere umano grazie al quale ho intuito in un istante che cosa significa essere pronti a cedere la propria vita per amore. Sono persuaso che mia figlia non sappia che lavoro fa suo padre.”

“Io non sono un professore. Non lo sono mai stato. Io sono un uomo che cammina in equilibrio sulla corda tesa dei funamboli, mentre la gente, dabbasso, pregusta la rovinosa caduta. La veglia notturna fa brutti scherzi. A una a una, le sigarette vanno via dal pacchetto; mi sembra quasi d’inghiottirle: non fumavo da vent’anni. Il guaio è che, qualora mia figlia mi chiedesse cos’ho fatto in tutti questi anni, non potrei fare altro che mentire: dovrei mentire pure a lei perché una parte della mia esistenza è oscura anche per me. La mia piccola donna non sarebbe orgogliosa della parte oscura, ma… Insomma, io, in questo momento, dovrei essere disteso a ronfare e sognare; invece sono qui a scrivere, fumare e rimuginare.”

“È molto probabile che sia tutto frutto di una sorta di devianza psicoattitudinale. A quest’ora, non so neppure se il termine psicoattitudinale sia adeguato a quanto voglio esprimere, ma, di certo, rende l’idea, almeno secondo me. In materia di disagi, ho una certa esperienza: ho sperimentato il disadattamento – tirocinio diretto – prima d’insegnare che la vera letteratura, presto o tardi, ti fa vivere una sorta di male oscuro. Non tutti hanno questo privilegio.”

“Ora, mi toccherebbe dirle la verità.”

“Mi sovvengono altre questioni notturne, anche se la capacità di pensiero va riducendosi. La nostra personalità è come una torta tagliata a fette: ogni fetta rappresenta un pezzo di noi e della nostra storia. Queste fette sono vive e non si lasciano mangiare facilmente. Madre, padre, nonni, educatori d’ogni genere e specie, esperienze e quant’altro sono fette di torta. Tutte le volte in cui entriamo in contatto con qualcuno, non ci rendiamo conto di dovergli offrire almeno una fetta di questa torta, lasciando dentro di noi un vuoto che può essere colmato solo da chi ha gradito appieno il dono ed è disposto a contraccambiare in un convivio comune e itinerante, sacro, inviolabile ed eterno. Altrimenti, non c’è speranza di sentimenti autentici. Di fatto, però, la torta perde il bell’aspetto di compattezza; tanto che non tolleriamo di buon grado le apparizioni fantasmagoriche nella nostra vita, ci rifiutiamo di accettare l’idea d’un distacco insensato o della superficialità con cui qualcuno tenta di rovinare la nostra torta. Per contro, non esitiamo a sbocconcellare le torte altrui nello spietato gioco della sopravvivenza: quanto maggiore è il numero di fette che ingoiamo, tanto più al sicuro ci sentiamo, come se potessimo offrire qualcos’altro a coloro che incontriamo. Ma non è così. Ne siamo talmente consapevoli da essere ridicoli. La nostra torta è una e una sola; offriamo per primi i pezzi di cui ci siamo impossessati per ingordigia e, intrepidi, ansiosi, fissiamo i mangiatori temendo che sentano un retrogusto improprio, un che d’amarognolo ed estraneo. Sappiamo bene che donare ciò che non ci appartiene accresce il rischio, già insito nell’incontro perché, così facendo, non difendiamo affatto la nostra personalità dagli attacchi, ma priviamo noi stessi e l’altro d’ogni forma di realtà. Dopo che abbiamo fatto consumare tutto, che cosa raccontiamo? E, se, per giunta, l’altro ci dice che il pasto è stato prelibato, con quale coraggio confessiamo che non c’è più alcunché da gustare?

Io sono diventato mia moglie e so che qualcosa sta per finire.

XIV

Il portacenere che era sul tavolo sembrava contenere cenere e mozziconi; dunque, sembrava un contenitore; di fatto, non lo era del tutto. Di primo acchito, sembrava essere biancastro e duretto; di certo, era rotondo. Una luce, proveniente dal lampadario e che a lui giungeva giallognola, proiettava accanto a esso una porzione d’ombra entro la quale il tavolo si univa illusoriamente a ciò che lo sovrastava. A prima vista, qualche altra cosa suscitava l’interesse del professore: il portacenere era sbreccato; uno dei mozziconi riportava sul filtro una macchia rossastra.

Il professore aveva appena fumato una sigaretta e l’aveva spenta esercitando una certa pressione sul mozzicone con l’indice della mano destra, bruciacchiandoselo. Non aveva avvertito alcun dolore fisico, almeno in apparenza. Avrebbe voluto accenderne un’altra, ma aveva resistito alla tentazione. Era inquieto, tanto da cominciare a picchiettare il bordo del portacenere, che, di conseguenza, sobbalzava. Un po’ di cenere s’era sparsa sul tavolo, nella regione d’ombra.

Un suono grave si propagò ritmicamente nella stanza. L’uomo si fece invadere dai ricordi; gli sovvenne, in particolare, la figura femminile della moglie, la quale, verosimilmente, era sempre assieme a lui.

Portacenere, contenuto del portacenere, macchia rossastra, ombra, suono grave, figura femminile ed egli stesso, adesso, costituivano un corpo unico.

“Come non è possibile stabilire con certezza dove si trova l’elettrone in un determinato istante all’interno dell’atomo, così non si può dire di me, se non con una certa approssimazione. Sono l’opposto di me stesso, cioè un concetto, qualcosa di astratto, appartengo al mondo del pensiero. Qualche giorno fa, mi ritrovai perfino a interrogarmi sulla virtù. Dopo una lunga ed estenuante riunione con alcuni colleghi, intellettuali brillanti, nulla da eccepire, andammo in cerca di un bar per un caffè che ci riscattasse da tre ore di letteratura nevrotica, accademica, noiosa, lacerante e così via. Appena fuori dell’edificio, facendo due passi, alla mia sinistra vidi l’insegna luminosa di un bar. Cambiai immediatamente direzione anche perché avevo pure bisogno di alleggerire in fretta la vescica e non avevo voluto lasciare in dono all’accademia i miei liquidi. Sono fatto male. Di colpo, fui strattonato da quell’illustre e affettato collega che mi mise in guardia dal mettere piede dentro quel bar, avvertendomi che si trattava d’un ricettacolo di gentaglia, d’un ambiente malfamato; il che mi convinse dell’importanza che quel luogo avrebbe avuto per la mia esistenza e sentii un forte disprezzo per lui. Volevo picchiarlo selvaggiamente, ma non lo feci. Perché? Sarebbe stato un gesto eroico. Invece, sono stato un vigliacco. Oppure sono stato in grado di mantenere un buon equilibrio tra il bene ed il male?”

L’unico vero e ineliminabile vizio dell’uomo sta nel mistero che egli crea attorno a sé… non solo come alibi per la propria inadempienza, non per tutte quelle volte in cui ha chiuso un libro dopo poche pagine di lettura non sentendosi all’altezza del compito, non per tutte quelle volte in cui ha sprecato il denaro in cose di poco conto, non per tutte le volte in cui ha abbandonato il proprio lavoro o le persone care convincendosi d’essere l’unico giusto per cui Dio non avrebbe dovuto distruggere Sodoma e Gomorra, non per tutte le volte in cui è stato mefistofelicamente capace di elaborare delle scuse, non per tutto questo… ma per ricordare a sé stesso di avere sempre una possibilità. Allora, egli salta sempre dalla stessa posizione, su una specie di tappetino rimbalzante, sforzandosi di arrivare il più in alto possibile, ma, ogni volta in cui tocca terra, finge di non accorgersi di non essersi spostato neppure di un centimetro. Se ai bambini è concessa la ripetitività del gioco e del salto in vista d’una memoria da costruire, agli adulti, forti dell’esperienza, spetta il compito della previsione, laddove essi, invece, sperano di potersi fermare a mezz’aria. Il mistero consiste in questo gioco impegnativo, faticoso e snervante, praticato da tutti, indistintamente. La tregua e il riposo sono ammessi solo al buio, un buio talmente impenetrabile e imperscrutabile che neppure gli artefici del mistero sanno gestirlo soprattutto perché non vogliono accettare che il buio non è altro che un equilibrio dinamico, una variante della relatività ludico-deviante, una percezione diversa dell’energia del salto.”

Il professore era un giocatore sapiente. A differenza di tanti altri, faceva i conti con la propria memoria, soprattutto quando si trovava nella fase di massimo slancio. Aveva speso gli ultimi vent’anni a denunciare l’impossibile quiete dell’uomo, la propria anzitutto.

Alle prime luci dell’alba, gli andò incontro la figlia, appena svegliata dal parlottio del padre. Gli si sedette sulle gambe. I due si fissarono malinconici, guidati da un presentimento arcano, oppressi dall’angoscia.

“Figlia mia, tu hai il diritto di conoscere la verità.” enunciò grave e solenne Augusto.

La donna, vedendo piangere il padre, non ebbe la forza per proferire alcuna sillaba.

“Io non sono un letterato, uno scrittore; io non sono un professore. Se è vero che un uomo è rappresentato dalla propria opera, la maggiore tra le mie opere è stato l’omicidio. Io sono un omicida, un uxoricida. Io ho ucciso tua madre. È stato un delitto perfetto, premeditato… Sapevo che amava un altro uomo, un uomo che non valeva niente. Forse, avrei dovuto uccidere lui. Io ho tentato di resistere, credimi! Per anni, ho voluto convincermi di avere limiti morali e… tuttora, penso che sia ingiusto giudicare male una persona che non può né vuole amarti… poi, ho saputo che… non sei mia figlia. Fa’ di me quello che vuoi! Ammazzami! Fa’ che io paghi per il mio reato! Sappi solo che t’ho amata come una figlia, d’un amore puro ed incondizionato e… continuerò a farlo!”

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