L’innamorato e il bullo

Se ti è piaciuto, condividi!

“Ho capito, ma lasciami la maglietta! Fa’ quello che vuoi e lasciami in pace!” urlò il ragazzino, cominciando a temere le solite conseguenze.

La supplica, tuttavia, non mosse a pietà il bullo, che, con improvvisa e inspiegabile ferocia, lo afferrò per la collottola e, con una spinta, gli fece battere la testa contro un pilastro di marmo. L’impatto fu talmente forte che dalla fronte della vittima cominciò a sgorgare copiosamente il sangue. Gli altri ragazzi, che giocavano a calcio nei dintorni, accortisi del misfatto, interruppero immediatamente la gara, anche se nessuno di loro andò in soccorso del malcapitato. Questi, del tutto stordito dal colpo, sulle prime, si meravigliò nello scoprirsi osservato dagli amici, immobili e ammutoliti. Poi, portandosi una mano sulla fronte e vendendola piena di sangue, si abbandonò a un pianto liberatorio.

Senz’alcun aiuto, con una stentata corsetta, si diresse a casa, dove giunse interamente ricoperto di sangue e dalla quale fu condotto immediatamente al pronto soccorso per l’applicazione di dieci punti di sutura. Il padre stava per fargli una ramanzina, ma, dopo averlo guardato negli occhi, gliela risparmiò. Egli, a ogni modo, era troppo addolorato e afflitto per non smarrirsi, fin dalle prime ore successive al trauma, in un deprimente e lacerante esame di coscienza in cui rivedeva, in rapida sequenza, i fotogrammi di tutte le volte in cui aveva subito in silenzio l’arroganza di certi malacarne, che disprezzava, ma dai quali non era mai riuscito a distaccarsi. Forse, non lo aveva mai voluto. Anzi, per certi versi, li invidiava pure. In confronto a loro, considerandone la forza, apparente o meno, si sentiva un inetto e avrebbe fatto di tutto per acquisire anche un minimo del loro coraggio.

Pensò e ripensò a quella volta in cui un tizio aveva sputato sulla sella della sua bicicletta. Egli aveva accennato a una reazione, ma s’era guadagnato un ceffone e, come al solito, era tornato a casa in lacrime. In un’altra occasione, gli avevano rubato il pallone che la sorella gli aveva regalato per il compleanno. E così via. Tormentato da questi pensieri, per qualche settimana, si assentò dai luoghi di gioco e d’incontro. Non si fece vedere in giro, più per vergogna che per esigenze di convalescenza. Tra le altre cose, le ragazzine del quartiere, per lui, rappresentavano una vera e propria commissione di giudici e la sua debolezza lo squalificava completamente ai loro occhi.

Una di loro, in particolare, era al centro dei suoi desideri e, soprattutto, delle sue tribolazioni, ma, da codardo e sconfitto, quale si sentiva, non osava avvicinarla. Si limitava solo a lanciarle qualche occhiatina nelle serate in piazza, confidando che fosse lei a fare il primo passo o pregando il buon Dio di concedergli il miracolo d’amore. Ogni domenica, infatti, durante il Mistero della Fede, s’inginocchiava e, umilmente, rivolgeva all’Altissimo una preghierina: “Buon Dio, fa’ che s’innamori di me, te ne prego!”. Era una ragazzina ammodo, pur appartenendo a quel degradato quartiere; aveva due anni in più di lui, era magra, bruna e aveva delle labbra rosse e carnose che mandavano in estasi l’innamorato. Il guaio era il seguente: era la sorella di uno dei capibanda del quartiere: non di uno qualunque, ma di uno dei principali torturatori, un vero e proprio bullo. Dunque, al danno si aggiungeva la beffa. Il nostro, che aveva sempre la peggio nelle zuffe e non poteva, di conseguenza, essere annoverato tra i personaggi rispettabili, non era degno della corrispondenza amorosa. In più di un’occasione, infatti, il fratello dell’amata gli aveva puntato il dito contro per ammonirlo: “Mia sorella non la devi nemmeno guardare! Sennò, ti spacco la faccia…”.

L’innamorato, soprattutto d’estate, allorché gli studi, in cui, tra le altre cose, sembrava parecchio versato, non gli potevano offrire un diverso confronto con la società, era catturato da un autentico paradosso esistenziale: tentava, a ogni costo, di farsi accettare da un contesto umano al quale era del tutto estraneo; quei ragazzacci, di fatto, erano i suoi idoli ed egli ne era un emulo inerte e immaginario.

Il suo stato d’animo di quel periodo si può comprendere appieno, considerando, per lo meno, che solo un mese dopo il fattaccio riuscì a uscire da casa, come se il suo fosse un isolamento di penitenza e riabilitazione. Il punto di ritrovo era la piazza del quartiere ed egli vi si recò in punta di piedi, guardingo, quasi tremante. Era un caldo pomeriggio d’agosto e i soliti compagni di gioco erano al mare. Con grande stupore, appena arrivato, avvistò, a poco meno di cento metri da lui, la ragazza tanto desiderata, intenta a far passeggiare il cagnolino. Le si avvicinò risoluto a dichiararle il proprio amore, ma non fece in tempo neppure a ripassare le formule scelte che il fratello di lei sbucò fuori da un angolo e, con uno sguardo truce, s’avanzò nella sua direzione. Egli, fremente di rabbia, paura e vergogna, allargò le braccia mostrando le palme delle mani in segno di resa. Avrebbe voluto sentire qualche parola di conforto da parte di lei, ma ciò non accadde né egli ebbe il coraggio di guardarla. Per fortuna, non ci fu alcuna schermaglia; il bullo parve soddisfatto dalla resa disonorevole e si limitò a cacciarlo.

Ancora una volta, uno smacco alla personalità! Ancora una volta, lacrime e vergogna, che lo costrinsero a rinchiudersi nuovamente a casa!

Giunse il 15 agosto, data stabilita dai giovinastri per trascorrere un’intera giornata in riva al mare. Alle nove del mattino, si sarebbero dovuti incontrare in piazza. L’innamorato non era stato invitato, ma egli, in preda all’ira e allo sdegno, uscì da casa con almeno un’ora d’anticipo e, con un’audacia senza precedenti, s’appostò davanti al cancello della desiderata, sbirciando qua e là per scorgerne la sagoma.

Restò in attesa per circa quindici minuti, ma neppure uno di questi trascorse senza che guardasse ossessivamente l’orologio. Avvertiva uno strano bruciore nella parte alta dell’addome, era tutto un brivido. Gli sembrava di percepire il flusso del proprio sangue e il cuore gli esplodeva in petto a ogni rumore anomalo.

Alle otto e quindici, qualcuno aperse le porte della stanza che si affacciava sul giardinetto. L’innamorato si sporse per guadagnare campo alla visuale, ma qualunque sforzo era impedito da una tendina calata sul davanzale. Fatto un lungo respiro, si appoggiò sul muretto, dal quale era totalmente coperto, e si dispose all’attesa. In quell’istante, sentì nettamente il rumore d’apertura della porta. Qualcuno ne era uscito e, purtroppo, non era la ragazza. Il calpestio lo aveva rivelato nitidamente. L’innamorato chiuse gli occhi e mormorò una preghiera indecifrabile. Poi, con un balzo, uscì allo scoperto e vide innanzi a sé il fratello di lei, il bullo, il torturatore, il quale fu quasi stentoreo: “Si può sapere che minchia fai qui?”.

L’innamorato non rispose, anzi arretrò, allontanandosi un paio di metri dal cancello. L’altro, per contro, sempre più ostile, accelerò il passo e aperse il cancello, senza nascondere le proprie cattive intenzioni.

Faccia a faccia, i due si scrutarono per qualche secondo. Questa volta, però, il nostro, diversamente che al solito, s’accigliò ed esibì un’ignota espressione di cattiveria. Gli urlò in faccia degl’insulti della peggiore specie e, raccogliendo tutte le proprie forze, gli rifilò un calcio sulla coscia sinistra. Il calcio fu dato con tale rabbia che il destinatario si accasciò stringendo tra le mani la coscia e invocando aiuto. A quel punto, con l’avversario a terra, avrebbe potuto infierire, ma non lo fece. Prese a correre per rifugiarsi a casa, ma, durante quella fuga di libertà, un sorriso d’immenso appagamento gli si stampò sul volto. Pianse di gioia. Era riuscito a difendersi.

Non rivide mai più la ragazza a lungo desiderata. Ma non l’amò più neanche per un istante.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *