La candidatura dell’avvocato

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Da un pulpito raffazzonato, urlava, fremeva e s’accalorava come un venditore di pesce fresco che deve imporre all’intero mercato la qualità della propria mercanzia. D’improvviso, cominciava a camminare senza meta, ciondolando, non perché non si reggesse sulle gambe, ma perché la sua facondia sembrava essere un carico tale da piegarlo ora da una parte ora dall’altra. Con la stessa rapidità con la quale si metteva in movimento, si fermava in un punto qualunque del viale alberato, portava pollice e indice sotto il mento, socchiudeva gli occhi, puntando quella linea ideale in cui il cielo sembra toccare la terra, e si concentrava intensamente su qualcosa di complicato. La tortuosità di quei pensieri gli si disegnava immediatamente sul volto, che si contraeva e si rilassava ritmicamente.

La sua complessione favoriva e accentuava parecchio la manifestazione di questa illusoria e stravagante scenetta, nella quale non si capiva, di fatto, se il protagonista fosse un cretino vaneggiante o un pensatore classico autenticamente afflitto dai dilemmi dell’esistenza. Era alto, tanto da doversi chinare per guardare la maggior parte dei propri interlocutori; la qual cosa generava, come si può capire, un effetto duplice in chi lo ascoltava; era magro, così magro che era naturale immaginarne una condotta sobria nel mangiare e nel bere; aveva una capigliatura talmente folta e biancastra che alcuni gli conferivano il titolo di filosofo, anche se tutti sapevano che faceva l’avvocato; portava gli occhiali a causa d’una miopia così marcata che, a fissarlo, se ne ricavava un’idea di singolare saggezza.

È vero: abbiamo tutti bisogno di forme e simboli, quand’anche non corrispondano esattamente all’interpretazione che ne diamo e di cui ci serviamo. È sufficiente che, per i più di noi o almeno per la cerchia principale entro la quale operiamo, abbiano il medesimo significato. Il resto non conta molto. Forse, non conta affatto. In questo modo, ci sentiamo rassicurati da agenti esterni e superiori, agenti che non conosciamo bene e non riusciremmo neppure a nominare, ma della cui esistenza, in qualche inspiegabile modo, siamo certi. La loro superiorità è data proprio dalla loro estraneità, dalla loro incolmabile distanza. Se ci fossero prossimi, diverrebbero familiari e perderebbero valore e forza.

In tal senso, il nostro personaggio era sempre stato abilissimo: di certo, non s’era mai allontanato troppo dal popolo, dal momento che era sempre stato, fin dagli anni dell’adolescenza, particolarmente bisognoso del consenso popolare,  ma, per converso, non s’era mai avvicinato a tal punto da poter corrompere la propria natura mitica. Basti pensare che, al liceo, prendeva parola in tutte le occasioni possibili e non rinunciava mai all’opportunità di rappresentare i compagni, di classe o d’istituto che fossero! Una caratteristica aveva sempre costituito un punto fermo nella vita dell’avvocato: era estremamente buono e onesto. Infatti, spesso, ci si chiedeva per quale motivo parlasse tanto in pubblico, in considerazione del fatto che coloro che s’affannano continuamente ad arringare le folle su temi disparati, a meno d’essere divulgatori scientifici e, anche in questo caso, con alcune riserve, o sono dei grandi mentitori in cerca di gloria o sono degli astuti truffatori. L’oratore di cui stiamo parlando, invece, come abbiamo appena detto, era un puro.

“Chi ha sbagliato deve pagare!” sentenziò schermandosi dal sole, che lo colpiva e lo affaticava vincendo portentosamente la difesa dei pini.

Gli piacevano parecchio queste frasette neutre e, insieme, irrilevanti, da potersi pronunciare in qualsiasi occasione, cosicché le proferiva alzando notevolmente il tono della voce e facendole precedere, sapientemente, da due lunghe pause, in cui, a suo modo di vedere, l’uditorio avrebbe dovuto scotersi in tripudio. Quando l’applauso non arrivava, però, il suo orgoglio non ne risultava affatto indebolito; l’avvocato era un tipo tosto e non si tirava indietro per un nonnulla, anzi procedeva a testa bassa, infaticabile e combattivo, a dispetto d’ogni insuccesso. Era un uomo d’altri tempi. Non si sa quali, in realtà, ma, ogni qual volta in cui si debba attribuire una virtù rara a qualcuno, giova parecchio alla conversazione e allo stupore comuni prendere come modello epoche remote, non comprendendosi perché i nostri avi dovessero essere così esenti da avidità, dabbenaggine, disonestà e da tutti quei difetti che, invece, attribuiamo ai nostri contemporanei.

Era una mattina di un caldo settembre quella in cui l’avvocato s’era recato al parco. S’era svegliato molto presto, aveva preso il solito caffè macchiato al bar sotto casa e, nel prepararsi alla ventura quotidiana, aveva ritenuto proficuo fare una bella passeggiata lungo il torrentello che attraversava il pineto. Era solito farlo in prossimità d’un evento, ne traeva grande beneficio e gli serviva a schiarire le idee. Il problema, semmai, era un altro: certe sortite agresti risvegliavano in lui un sentimento poetico che, non essendo mai stato affinato a sufficienza, trovava compimento nell’esaltazione dell’ovvietà. Quel giorno, infatti e purtroppo, esordì nel modo che segue: “Questo è il nostro patrimonio” indicando la natura con un dito lanciato nel vuoto “e dobbiamo difenderlo da coloro che vogliono distruggerlo!”. Come non essere d’accordo? Il suo carissimo amico, che lo seguiva in tutte le iniziative, tuttavia, era un po’ perplesso. Annuiva, sì, e, indubbiamente, condivideva appieno il contenuto del messaggio, ma gli sfuggiva il senso di certe affermazioni. “In che senso?” si chiese tra sé. Tentando d’interpretare l’autocoscienza dell’amico, possiamo ipotizzare che intendesse “Qual è il fine di questa dichiarazione d’intenti?”.

“Noi possiamo cambiare questa terra!” continuò l’avvocato.

“Va bene!” fece eco dentro di sé l’amico, senza riuscire a collocare esattamente l’espressione d’assenso. Nell’incertezza, sapeva che ciò che era appena stato detto era giusto, incontestabile e inconfutabile, una sorta di verità universale che avrebbe potuto portare con sé per sempre; e inoltre, si rendeva conto che qualcuno, tra le altre cose, nel caso in specie, un carissimo amico, aveva la capacità di proclamarla con una passione e con un tono d’inequivocabile efficacia; il che quasi lo commoveva. Forse, le parole, il ritmo e l’intonazione erano di gran lunga più importanti del contenuto stesso. Incredibile a dirsi, ma le cose stavano così. Egli non avrebbe mai saputo sgolarsi per dire “Questo è il nostro patrimonio. Dobbiamo difenderlo da coloro che vogliono distruggerlo.”, “Noi possiamo cambiare questa terra!” e “Chi ha sbagliato deve pagare!”. L’avvocato, al contrario, era sempre perentorio e inattaccabile.

Il suo linguaggio non aveva oggetti; e, di discorso in discorso, quanto più cresceva l’enfasi, tanto più radi si facevano i riferimenti alla realtà, a quella vissuta dagli uomini, che gioiscono o soffrono e possono mostrare di sé aspetti differenti, denunciando, di conseguenza, piacere o dolore. Così, nel corso della prestazione mattutina che stiamo descrivendo, non contento del solito approccio, esibì una condotta senza precedenti, diede all’insieme sociale e psicologico, oltre che semplicemente umano, un sovrappiù di melodrammaticità e istrionismo. Fece una pausa più lunga del solito, cominciò ad annuire, come se avesse avuto un’intuizione salvifica, che, nel frattempo, era sostenuta dalle labbra elegantemente increspate, segno d’una riflessione profonda, portò la mano sinistra in tasca e, da ultimo, alzò la mano destra e, facendo slargare la bocca in un sorriso magnifico, da sovrano acclamato, elargì generosamente saluti e letizia al proprio pubblico.

“Roba da matti!” esclamò incredulo l’amico “Questo ha un coraggio incredibile…”

Lo stupore dell’amico, tuttavia, attirò l’attenzione dell’avvocato, che lo aveva appena visto impalato a bocca aperta, come se fosse a sbattere contro un palo.

“Perché hai smesso di fare foto?” chiese l’avvocato con tono di rimprovero.

Sempre più attonito, forse incantato o, addirittura, annichilito, l’amico non rispose, lasciando cadere la macchina fotografica, retta, per fortuna, dalla tracolla, sul basso ventre.

L’avvocato, a quel punto, disinteressandosi completamente dell’amico, per il quale, probabilmente, era bastato un rimprovero, riprese a blandire la propria gente. Ma la situazione restava grottesca, deviante, quasi aberrante: non c’era alcun essere umano nei paraggi; altro che pubblico! Oltre all’avvocato e all’amico, che si erano recati sul posto per realizzare un servizio fotografico in vista delle elezioni, era presente solo qualche randagio stanco e affamato e che si faceva vedere pigramente, nella speranza di ottenere qualcosa da mangiare.

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