L’amplesso

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Sudaticcio, stanco e col morso della fame, intorno alle ventidue, rincasò. Viveva in una piccola baita sulle montagne, presa a pigione da un agricoltore del luogo. Di fatto, non importa sapere quale luogo. Il nostro era un tipo assai riservato e non dava parecchie notizie di sé. A ogni modo, vi si poteva giungere unicamente da una stradella sterrata in notevole pendenza, dopo avere percorso per una decina di chilometri una strada extraurbana al di sotto d’una dorsale boscata. Tutt’intorno alla casa, costruita a ridosso d’un massiccio roccioso, sughere e abeti catturavano lo sguardo per precipitarlo in una sorta di mondo incantato, fiabesco, che la neve, nei mesi invernali, mutava in un paesaggio meritevole di religiosa contemplazione, un presepe fatto da esperte maestranze.

Fu accolto con la solita eccitazione dal proprio cane, un bell’esemplare di meticcio di un anno e mezzo, col pelo fulvo e una dentatura da molosso. Aperta la portiera dell’autovettura, un quattro per quattro che aveva acquistato per affrontare gl’impervi sentieri di montagna, si ritrovò le zampe del cane piantate sulla coscia sinistra. Egli, per premiarne la fedeltà, estrasse dallo zaino una confezione di würstel e, dopo avergli strapazzato la mascella, gliene infilò uno in bocca. Dopodiché, saltò giù e, camminando a sghimbescio per la stanchezza, raggiunse la porta di casa. Un’altra giornata di lavoro s’era conclusa. Prese la chiave, faticò non poco ad inserirla nella toppa; il rumore di scatto della serratura gli piacque alquanto, fu come un accenno di nenia. Mise piede in casa stiracchiandosi e sbadigliando, lanciò lo zaino sul divanetto e andò in bagno. Restò immobile per un po’ davanti allo specchio. Poi, con le mani a giumella, si piegò in avanti, si lanciò in faccia la fredda acqua di montagna e tornò a fissare la propria immagine allo specchio, le mani appoggiate sulla tinozza. Ne trasse una sensazione di compiacimento.

Bruno, occhi verdi, carnagione olivastra: in effetti, aveva un bell’aspetto: era alto un metro e settantacinque, aveva una muscolatura accentuata e godibile.

Iniziò a sbottonarsi la giacca della mimetica, lentamente, come se stesse studiando le linee del proprio corpo. Uscito dall’occhiello il terzo bottone, s’intravvide una lunga cicatrice, sulla quale egli fece scorrere delicatamente l’indice della mano destra. Se l’era procurata durante un cruento scontro con uno stupratore seriale cui aveva dato la caccia per mesi. Era riuscito ad avere la meglio grazie alla propria abilità marziale, ma l’avversario gli aveva sferrato una coltellata che gli aveva lacerato entrambi i pettorali. Ora, a mano a mano che il dito ripercorreva quella lunga cicatrice, la sua bocca si slargava in una sorta di sorriso mefistofelico, segno d’orgoglio e cinica consapevolezza. La ferita riportata sul campo di battaglia ne accresceva la forza. Si sentiva un eroe greco e non poteva tirarsi indietro. Mantenere la dignità eroica significava combattere per potere continuare a combattere, sconfiggere il nemico per mettersi alla ricerca d’un altro nemico. Improvvisamente, si riscosse e si mise in ascolto d’una canzone. Al proprio ingresso, non aveva notato alcunché. La cosa non gli dispiacque affatto; anche perché la musica gl’infondeva un ulteriore senso di rilassamento.

“Vieni fuori!”

Non poteva che essere lei. Al richiamo, tuttavia, non ci fu risposta. Non s’insospettì, pur irrigidendosi un po’.

“Su, fatti vedere!” insisté.

Questa volta, s’udì la voce della donna: “L’acqua è calda, se t’interessa una bella doccia… Ah! Ho preparato anche la cena.”

Intenerito, con sufficiente ironia le disse: “Hai dimenticato che io faccio sempre la doccia con l’acqua fredda, ma… da quando hai le chiavi di casa mia?”

“Me le hai date tu qualche settimana fa, ma, se non vuoi che le tenga, te le restituisco” rispose la donna perplessa, ma sorridente.

“Se mi riprendo le chiavi, chi mi preparerà la cena e la doccia?” ribatté lui, senza nascondere un certo amor proprio.

“Fatti una bella doccia e non dire altro!”

Lesto e sempre più allegro, si spogliò e si precipitò sotto una pioggia d’acqua gelida. Ne godette appieno. Reclinando il capo, aperse la bocca lasciando che l’acqua entrasse fino a colmarla. Poi, prese a massaggiarsi con un sapone duro allo zolfo, con cui era solito lavarsi. I suoi muscoli, perfettamente scolpiti, s’inturgidivano e si rilassavano, secondo che la pressione dell’acqua fosse diretta o condizionata dall’azione delle mani. Dopo circa dieci minuti, interruppe le abluzioni e uscì. A un palmo dal box della doccia, la donna attendeva con in mano l’accappatoio. Fu una visione estatica. Ella era una donna di bellezza giunonica. I suoi occhi erano neri e molto seducenti. I lunghi capelli castani, che contornavano lisci e morbidi un ovale di strana identità caucasica, scendevano fino ai grossi ed eleganti seni, la cui forma ricordava molto un antico e indecifrabile simbolo. Agli stretti ma formosi fianchi seguivano delle natiche abbondanti e ben proporzionate. Il pube, le cosce e le gambe, a propria volta, in questo olio su tela dell’eros, sembravano rifatti sul modello delle donne divine e primordiali. Erano nudi, l’uno di fronte all’altra, ma, dapprima, non si sfiorarono, quasi non volessero consumare il piacere dell’elevazione sessuale, l’eccitazione che si fa immateriale e traboccante di propositi e rende, nello stesso tempo, l’uomo incapace di agire. Ella, per prima, placidamente, distese una mano fino a lambire finemente il pene di lui, il quale si lasciò riempire dal crescente turgore. Percepito il piacere dell’amante, insistette a giocherellare con le dita, così da massaggiargli il membro con indice e medio. A quel punto, egli si sporse in avanti e prese, con veemenza, la testa di lei tra le mani per baciarla. Fu più una sfida di resistenza che un vero e proprio bacio. Unirono le proprie lingue con tale forza da sentire dolore alle arcate mascellari. Poi, con entrambe le mani, egli le afferrò, da sotto, i seni, sollevandoli per osservarli, famelico. Dopo qualche istante, le fece scorrere la lingua tra i seni, sul collo e, da ultimo, sul naso, sul quale le scoccò anche un tenero bacio. Quindi, alzò lo sguardo sugli occhi, come per chiederle qualcosa. Ella capì immediatamente, si voltò e, abbassandosi fino a toccare il lavabo con gli avambracci, lo attese. Entrò dentro di lei e cominciarono ad amarsi bestialmente.

“Prendimi per i capelli, ti prego!” gli disse con voce rotta dal godimento.

Egli non si fece pregare oltremodo e proseguirono per qualche altro minuto. Dopodiché, ella, allontanandolo con un movimento pelvico, lo prese per mano e lo condusse in camera da letto, dove lo fece distendere. Salì su di lui e iniziò a muoversi freneticamente, come fosse una sorta di danza propiziatoria. Sul volto di lui comparirono smorfie di resistenza, ella se n’avvide, ma non ridusse affatto la foga e seguitò fino all’orgasmo, che giunse spossante. Approfittando della tregua, egli l’afferrò per le spalle e la fece distendere supina. Le si mise addosso e, dopo averle baciato i seni, entrò di nuovo dentro di lei. Ella lo strinse a sé con forza.

“Prendo la pillola, lo sai…” gli sussurrò all’orecchio.

L’uomo, confortato, si abbandonò a lei e, poco dopo, anch’egli godette. Esausto, si lasciò andare su di lei, che lo accolse maternamente. Erano dipinti l’uno sull’altra. Trascorsero alcuni minuti di quiete assoluta, poi, egli, sbigottito, s’accorse che ella stava piangendo. Le passò una mano sul viso per accertarsene e non fu smentito. Si ritrasse immediatamente e la interrogò sempre più sbalordito e quasi spaventato.

“Perché stai piangendo? Che ti succede?”

La donna si mise subito a sedere sul letto, con rapidità felina, tirando le gambe al petto e nascondendo la testa tra le ginocchia.

Egli la interpellò ancora una volta, aumentando il tono della voce, facendosi più duro.

“Te ne prego, dimmi cosa succede!”

La donna, con gli occhi gonfi di lacrime, alzò il capo e lo guardò di sottecchi, ma non riuscì a spiccicare neppure una parola. Egli, allora, per quanto nervoso, con ostentata tenerezza, le pose la mano sotto il mento e la fissò amorevolmente.

“Ho sbagliato tutto…” disse lei con un filo di voce.

“Che significa?” chiese lui, che dissimulava soffertamene la propria intuizione.

“Significa che credo di non amarti più…”

A quell’affermazione, egli non fu capace d’opporre alcunché; raggelò e fu capace soltanto di mettere in fila una serie più o meno logica di parole.

“Ma… la cena, la doccia… abbiamo appena fatto l’amore… Io…”

A stento trattenne il pianto, ma lottò duramente per non crollare, sebbene ne sentisse l’urgente bisogno. Si alzò dal letto ed andò ad accendersi una sigaretta. La fumò avidamente. Ne accese un’altra. Non si capacitava di come, dopo tre mesi d’amore incondizionato, tutto potesse finire senza motivo. Ella, tuttavia, era ferma nella propria volontà di troncare il rapporto. Lo testimoniava la fretta con cui stava ricuperando le proprie cose. Egli, di tanto in tanto, la guardava di sbieco, sperando di scorgere qualche gesto di ripensamento, ma ella, puntando gli occhi a terra, era fin troppo indaffarata a completare lestamente l’opera di separazione. Entrambi sembravano deambulare per casa senz’anima, come se non avessero mai avuto un legame. Infatti, dopo poco meno di venti minuti, l’uomo rimase solo a fumare la terza o la quarta sigaretta.

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