Il pensatore

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Tutte le volte in cui ascoltava un valzer, s’accendeva di passione. In realtà, non si trattava di un valzer qualunque, ma di uno in particolare, che però aveva sempre tenuto segreto, convinto, com’era, che anche solo rivelarne il nome a qualcuno lo avrebbe privato d’efficacia. In effetti, l’ascolto, per lui, aveva una precisa finalità: strano a dirsi e pure a sentirsi, specie al di fuori del contesto, ma era così. Il ritmo di quella composizione gli faceva acquisire una sorta di potere divinatorio grazie al quale si sentiva in grado di fare profezie sul proprio futuro. Da tempo, aveva un grande sogno e aveva impegnato tutte le proprie risorse perché questo diventasse realtà. Era giovane e aveva tutto il diritto di sognare, anche persuadendosi che le proprie visioni fossero utili al mondo, ma non era un sempliciotto né aveva la sbadataggine d’un visionario. La musica, quella musica, dunque, era solo un vero e proprio mezzo. Sentire l’attacco del brano, ovverosia già l’effondersi delle prime note, gli consentiva di diventare improvvisamente audace e dire a sé stesso “ce la farò”. Tra le altre cose, quest’opera di autoincitamento era accompagnata da un armonico roteare che egli riproduceva immaginandosi cavaliere e fissando negli occhi una dama fiabesca. Nel condurre la figura illusoria all’interno della propria stanza, riceveva, in aggiunta, il rinforzo dell’eros, che rigenerava scopi, ambizioni e sogni in qualcosa di prossimo e, addirittura, quasi tangibile. D’altronde, per costruire il proprio futuro e raggiungere i propri obiettivi, oltre ad avere studiato tanto, aveva anche investito tutti i propri risparmi. Adesso, bisognava solo attendere il giorno del colloquio. Non mancava molto; e non c’era niente di sbagliato nel lasciarsi ammaliare dai compositori ottocenteschi.

Il più delle volte, dopo un paio d’ore di danza e fantasticherie, doveva lasciare la propria abitazione e andare lontano dai soliti luoghi, anche solo alla ricerca di qualche paesaggio sconosciuto e da esplorare. Di conseguenza, da protagonista d’un vecchio rituale, era meticoloso nel mettere tutto in ordine, recarsi sotto casa, senza prendere l’ascensore, ma scendendo molto lentamente lungo le due rampe che lo separavano dal garage e infilandosi altrettanto lentamente nella propria autovettura. Non era affatto ossessivo, come si potrebbe dedurre dal rigore e dalla ripetitività di certi gesti. Tutt’altro! Questo comportamento lo aiutava a pensare, a fare astrazione da ciò che gli accadeva intorno: in pratica, l’esatto contrario di quanto succede nella maggior parte dei casi: ripetere un gesto equivaleva ad avere la massima libertà di pensiero, poiché non doveva impegnarsi a controllare e adattare le scelte, tranne che ci fosse qualche imprevisto. Quando iniziava a guidare, infatti, sembrava o un fantoccio o un automa. Non c’erano altre opzioni, a vederlo passare. Eppure, le supposizioni, le idee e i concetti che la sua mente elaborava erano talmente complessi e sofisticati che pure un anziano filosofo avrebbe fatto fatica a stargli appresso. Di fatto, quest’attitudine appariva un po’ in contraddizione con quel personaggio che, ostinatamente e fieramente, stava sgobbando per compiere l’impresa: quella che, per lui e solo per lui, ovviamente, era un’impresa. Tuttavia, la coesistenza dei due aspetti della personalità era pacifica. Qualcuno, di tanto in tanto, glielo faceva notare, ma la questione lo lasciava del tutto indifferente.

Allontanandosi dalla città, si dirigeva verso quelle strade che costeggiavano le dorsali montuose allo scopo di poter essere sempre più isolato dal traffico e tenere mollemente le mani sullo sterzo. La mollezza gli era di conforto, giovava alla fluidità del suo pensiero. Poco cambiava che ci fosse qualcuno con lui, come la sua compagna. La donna, che ormai di rado lo seguiva in queste avventure dello spirito, provava a interrogarlo, un po’ preoccupata da quello stato. “Che succede? Per caso, stai male?” gli chiedeva, per concludere con “Sei strano…”. Egli, in effetti, si sforzava di dare una risposta di senso compiuto, ma ciò che ne veniva fuori era un sommesso farfugliamento. Egli pensava. Punto! Non era in grado di fare altro. In quelle circostanze, per esempio, il suo essere su una strada, incrociando altri veicoli, non era affatto una determinazione o una limitazione dello spazio, anzi costituiva un’espansione della presenza fisica, una sorta di dilatazione indefinita dei confini di sicurezza in funzione della quale si chiedeva, in sostanza, quanta altra gente, nello stesso momento, stesse guidando, quanta venisse coinvolta in qualche terribile incidente o quanta riuscisse a trovare serenità percorrendo dei tortuosi sentieri di montagna.

Qualcuno potrebbe obiettare che tali dubbi non siano per niente filosofici. Ma egli, di fatto, si spingeva molto oltre e s’affannava pure a fare degli strani calcoli circa la probabilità che si verificassero alcune cose, anziché altre. Il non potere prendere parte alle vicende del mondo, di quel mondo che si rappresentava e che progrediva o regrediva anche senza di lui, gli faceva percepire un amaro senso d’esclusione e di pochezza. “È mai possibile” s’interrogava, pur senza cruccio “che tutto ciò che faccio, le mie fatiche, il mio amore, tutta la mia esistenza siano irrilevanti o, al massimo, siano parte d’una soffocante e inesplicabile eventualità?”. Quasi mai trovava delle risposte, anche se bisogna ammettere che non le cercava; i suoi interrogativi erano più una condizione dell’essere che una ricerca. Insomma, di là dalle numerose letture fatte, non gli era mai venuto il ghiribizzo di scrivere qualcosa, specie in un’epoca in cui tutti, vuoi su qualche blog vuoi con un editore a pagamento, scrivevano qualcosa: poesie, racconti, romanzi e così via. Al contrario, egli non nascondeva un certo disgusto per tutta questa scrittura di quantità. D’altronde, essendo fortemente impensierito dalla nullità di taluni stati di cose, non avrebbe mai contraddetto il proprio assunto così sbrigativamente e non senza ipocrisia. Egli, com’è ormai noto, era molto attivo e non si lasciava di certo affliggere dalle idee, benché le idee sembrassero la premessa dell’annientamento del pensatore.

A dire il vero, non gli si poteva dar torto. Esaminando umilmente e diligentemente la sua concezione, infatti, noi stessi non possiamo trascurare che avere la pretesa di poter incidere sul corso degli eventi o sperare di ricevere una speciale attenzione da parte dei gruppi sociali, a tal punto da essere oggetto del loro pensiero, vuol dire o proclamarsi profeti riformatori o condannarsi prematuramente al delirio. È pur vero, tuttavia, che rinunciare frettolosamente alla possibilità di conquistare, agli occhi degli altri, anche un minimo valore simbolico significa, forse, rinunciare all’unica missione dell’uomo, che consiste nel superare, anche con l’oltraggio, i limiti dei legami naturali ed essenziali. “Faccio parte di ciò che accade” si ripeteva, spesso, mentre spingeva la propria autovettura verso percorsi mai visti prima. E ciò era, a dir poco, insopportabile, lo era, per lui, proprio nel momento in cui si disponeva ad accettarlo. Facendosene quietamente una ragione e passeggiando tra alberi e rocce, trovava una placidità che, fino a qualche istante prima, non immaginava neppure di possedere. Di qui, ricominciava a riprodurre ininterrottamente delle scene parallele in cui gli esseri umani, in qualche modo, facevano del proprio meglio per dare un senso alla propria vita: cucinavano, facevano l’amore, prendevano un aereo, combattevano contro un tumore maligno, soffrivano per la fame, organizzavano delle truffe et cetera, senza darsi tregua; e quanto più andava avanti con questa sovrapproduzione, tanto più si doleva di non essere partecipe degli eventi inventati, quantunque probabili, e delle loro combinazioni.

Nei giorni che precedettero il colloquio decisivo, quello che avrebbe cambiato le sorti della sua vita e il cui esito, quasi sicuramente, lo avrebbe ricompensato per tutti i sacrifici fatti negli ultimi due anni, la sua attività di meditazione si fece sempre più intensa, pur non distogliendolo dall’obiettivo. Alla vigilia, giunse pure ad immaginare che, se il colloquio fosse andato bene, avrebbe utilizzato parte del denaro per aiutare almeno parte di tutti quei poveri e, in generale, di tutti quei bisognosi che popolavano la sua immaginazione. Il progetto, nella sostanza, era così redditizio che il denaro non sarebbe di certo mancato. Ed egli non avrebbe mai potuto rinunciare all’unica opportunità di dare valore al proprio ruolo nell’universo: sì, era molto risoluto in questo: riscattare qualcuno dalla miseria era l’unico modo per esistere compiutamente.

Il mattino del colloquio, si svegliò molto presto; non aveva ancora albeggiato, tanto che non fu necessario disattivare la sveglia. Aprendo gli occhi, un sorriso gli si era disegnato in volto, senza che se ne fosse reso conto. Andò in bagno per alleggerire la vescica, ma, poco prima di arrivare al gabinetto, si fermò davanti allo specchio: ne fu compiaciuto e accentuò il già naturale sorriso. Mentre urinava, sentiva già l’odore del caffè che avrebbe preparato di lì a poco. Si sentiva davvero in forma. Come al solito, fu metodico e scrupoloso. Dal bagno passò alla cucina, dove mangiò del pane con la marmellata e, finalmente, gustò il tanto desiderato caffè. Nel frattempo, cominciava a costruire il proprio futuro; davanti ai suoi occhi sfilavano già tutti gl’impiegati ai quali egli donava segni di approvazione, stima e incitamento; vedeva il benessere prendere forma dappertutto. Con fare trionfale e incontenibile entusiasmo, indossò il proprio abito migliore: blu scuro con lieve, quasi impercettibile, gessatura. Al colletto della camicia bianca annodò una cravatta color cremisi. Curò ogni cosa con sapiente zelo. E non gli ci volle molto per essere pronto e impeccabile.

Anche se mancavano ancora un paio d’ore all’appuntamento, decise di uscire per fare una di quelle passeggiate rilassanti cui era avvezzo. Così fece, anche se non era affatto ansioso e, di conseguenza, bisognoso di distrarsi. Naturalmente, abituato com’era all’introspezione, l’escursione fece volare via il tempo. Bisogna dire, però, che egli era più un uomo dello spazio che del tempo. L’argomento del suo vagabondaggio interiore era lo spazio, la dimensione entro la quale fisicamente era costretto a vivere, privandosi di ciò che accadeva altrove. Egli voleva sempre essere altrove.

Giunto all’ingresso dello studio, dove era atteso, fece un’ulteriore pausa, questa volta senza elaborare visioni e proponimenti. Citofonò molto delicatamente, ma non lo fece per artificio di maniera; era il suo modo di comportarsi. Apertagli la porta, si diresse immediatamente verso le scale, ignorando del tutto l’ascensore. Dopo i primi due gradini, ritenne di non dover proseguire, senza mettere un valzer di sottofondo: in questo modo, fece ben dodici piani. Col garbo che gli era proprio, prima di salutare il segretario che stava per andargli incontro, fece tacere il telefono.

“Il direttore la attende” si sentì dire, cosicché fece un piccolo inchino e seguì l’uomo che l’aveva fatto entrare.

In effetti, il direttore lo attendeva davvero, quasi fosse lui quello sotto esame. Tra i due, indubbiamente, il direttore era quello più emozionato. Si sedettero entrambi solo dopo una poderosa stretta di mano.

“La prego di espormi dettagliatamente il progetto! L’ho analizzato attentamente e sono sicuro che faremo grandi cose. Adesso, però, tocca a lei. Dobbiamo convincere gl’investitori e solo lei può darmi le giuste indicazioni.”

Il direttore, in pratica, aveva espresso tutto il consenso di cui era capace. Adesso, come il direttore stesso aveva detto, toccava a lui. Toccava all’autore. Era il suo momento, quello che attendeva da anni. Ma l’autore del progetto, purtroppo, non aveva ancora smesso d’essere un pensatore.

E il pensatore sembrava del tutto assente, tanto da mettere in imbarazzo pure l’eccitatissimo direttore. L’autore restava in indecifrabile e, a tratti, increscioso silenzio.

“La vedo strano. Che le succede? Sta bene?” gli chiese il direttore molto genuinamente, inconsapevole d’essere di fronte a un campione dell’indecifrabilità.

Qualcosa del genere non gli era mai successo. Perché proprio adesso? Mentre l’uomo che stava dall’altra parte della scrivania tentava d’informarsi sul suo stato di salute, egli continuava a generare modelli di virtù economico-sociale, esortava i propri collaboratori a migliorare, faceva la spesa ai poveri e tanto altro, ma era tutto nella sua mente; nulla lo riconduceva al dialogo e alla presenza fisica. Per di più, l’isolamento era ormai bell’e compiuto. La voce dell’altro era diventata solo un rumore, uno dei tanti che la natura produceva.

Trascorse addirittura tre-quattro minuti in queste condizioni, minuti durante i quali il direttore fece più volte il tentativo, sempre infruttuoso, di svegliarlo dal torpore. Dopodiché, in effetti, egli tornò nello studio, ma non era affatto in grado di sostenere una conversazione. Sembrava essere stato vittima di un ictus. Ne aveva tutti i segni, sebbene fosse in ottima salute. Fissò per qualche istante il direttore in visò, ma, sulle prime, non disse nemmeno una parola. A un certo punto, sentì come dirompente solo il bisogno di scusarsi…

“Le porgo le mie scuse, direttore. Devo andare. Non sono pronto.”

Il direttore rimase a bocca aperta, esterrefatto, visibilmente angosciato; e non fece in tempo a commentare la sentenza che il pensatore si alzò e corse via.

Quando fu uscito dall’edificio, per la prima volta, si rese conto di ciò che era appena successo. E le lacrime furono abbondanti, inarrestabili, calde.

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