Compendio (minimo) di morfologia

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Questo compendio di morfologia è uscito per la prima volta su orizzontescuola.it. Qui, viene ripubblicato fedelmente.

Nel compendio di fonetica e fonologia, introducendo il sistema sonoro e l’uso che se ne fa, abbiamo parlato della doppia articolazione e l’abbiamo definita, in modo generico e, per certi aspetti, un po’ romantico, come quella caratteristica della lingua mediante la quale possiamo acquisire una certa ‘visione della parola’. Nello stesso tempo, abbiamo fatto notare che tale visione è strettamente legata alla combinazione dei suoni e alla nostra consapevolezza del processo combinatorio. Di certo, un parlante non ha bisogno di capire o, addirittura, prevedere come un fono si leghi a un altro per formulare una frase di senso compiuto. Sappiamo, per esempio, che pure un elemento olofrastico, “sì”, “no”, “ok”, talora, esprime in modo efficace il senso di un messaggio. Tuttavia, le parole non sono unità atomiche; anzi, hanno per lo più una complessa struttura interna, per così dire. Non a caso, nel summenzionato compendio, abbiamo fatto l’esempio dell’aggettivo “bello”, indicandone un primo livello di scomposizione, quello dei morfemi bell- e -o, e un secondo livello, quello dei fonemi /b/, /e/, /l/, /l/, /o/. Di questi ci siamo già occupati. Adesso, pertanto, ci dedichiamo ai morfemi. È bene informare il lettore meno esperto che per la trattazione di queste dimensioni della lingua abbiamo un debito nei confronti di de Saussure, Hjelmslev, Bloomfield, Hockett, Rainer e altri illustri e imprescindibili autori che citeremo in bibliografia per evitare di appesantire la lettura, tranne che la citazione, nel rispetto degli autori, si riveli imprescindibile anche a livello intratestuale. Qui, però, come abbiamo fatto in precedenza, diamo un suggerimento rapido e fondamentale per l’approfondimento della morfologia: Thornton, A. M., 2005, Morfologia, Carocci, Roma.

Il nostro primo dovere, a questo punto, è quello di definire il morfema, cioè di creare le condizioni affinché l’uso di un termine focale sia sempre caratterizzato da una semantica netta e limpida. Provandoci a mettere insieme i lavori svolti da diversi autori, diciamo che il morfema è il più piccolo segno linguistico dotato di significato. La validità di questa esplicazione è da assumersi, però, unicamente in relazione al rapporto tra significante e significato. In altri termini, il morfema dev’essere considerato come veicolo di significato, elemento di espressione: la sua ‘immagine acustica’, in pratica, non può essere separata dal concetto che ne deriva. Per comprendere meglio come da un significante morfemico possa scaturire un certo significato dobbiamo esaminare la struttura di un sostantivo mediamente complesso.

Nel sostantivo “banconista”, sulle prime, i segni linguistici minimi non sono visibili; eppure, sulla base della conoscenza della morfologia, sappiamo che una sola parola può contenere ‘diversi’ significati. A un primo livello, la parola si compone di bancon- e -ista: bancon(e), come si apprende da un comune vocabolario, è un “mobile che, negli esercizi pubblici serve a (…)”, ma, a ben vedere, non costituisce ancora la base o, con terminologia più precisa, il morfema lessicale; -ista, invece, è un suffisso che indica una “persona che svolge l’attività di servizio al banco” ed è un morfema grammaticale, il cui significato è determinante perché modifica il significato di ciò che sta alla sua sinistra. Vi annunciamo subito che alcuni studiosi non sono d’accordo e classificano i suffissi tra i morfemi lessicali: per quanto ci riguarda, deve prevalere il criterio semantico diretto, quello secondo cui un morfema, pur non essendo del tutto indipendente, deve recare in sé la forma base mediante la cui fonazione si esprime qualcosa. Il suffisso -ista ci fornisce, è vero, delle informazioni sul ruolo, nel caso in specie, di chi sta dietro un banco di lavoro, tuttavia, una volta isolato, non esprimerebbe alcunché, al contrario di bancon-. A un secondo livello, scopriamo che bancone è un accrescitivo di banco; di conseguenza, la sua composizione è data da banc- e -one. In conclusione, “banconista” è così formato: banc-, radice o morfema lessicale, –on(e), morfema alterativo (appartenente alla classe dei morfemi grammaticali), -ista, suffisso (appartenente alla classe dei morfemi grammaticali). Tutti e tre i morfemi veicolano un significato e ognuno di essi è legato all’altro nell’economia del significato di “banconista”. È evidente, altresì, che ogni passaggio morfologico dev’essere studiato e chiarito. Per esempio, non abbiamo fatto cenno alla caduta della /e/, cioè a un processo fonologico necessario a che si formi la nuova parola. Ma è necessario capire pure come mai, tramite suffissazione, siamo passati da qualcosa di inanimato a una “persona che serve al banco”. Vedremo, in pratica, che, fin da piccoli, tutti noi mostriamo una competenza linguistica sorprendente, pur non conoscendo le norme che regolano la formazione di suoni, parole, sintagmi e periodi.

Per motivi di ordine epistemologico, riteniamo che sia basilare e inderogabile esprimere, anzitutto, il valore funzionale dei nomi che si adottano in morfologia, così da non generare equivoci lessicali. Molto di frequente, infatti, studenti e curiosi fanno fatica a distinguere il concetto di fonema da quello di fono o quello di morfema da quello di morfo. Di conseguenza, è bene sapere che il morfo, pur essendo un’entità fonologica, non è altro che la concreta realizzazione di un morfema. Dato che ci siamo serviti dell’aggettivo “bello”, continueremo a usarlo come riferimento esemplificativo. Se decliniamo “bello” al plurale maschile, otteniamo “belli”: la /i/, che si ottiene dalla flessione e, per l’appunto, produce sia il genere sia il numero ed è una specifica rappresentazione fonologica di un morfema, prende il nome di morfo. Esiste, tuttavia, un caso in cui il morfo non si configura come rappresentazione concreta: è quello del morfo zero, un morfo privo di forme flessionali; per la qual cosa la differenza di numero, pur essendo marcata, non è, per l’appunto, concretamente rappresentata: il sostantivo città (o il sostantivo re) è valido sia per il plurale sia per il singolare, pur non servendosi della flessione.

Ciò ci consente di esprimere anche il concetto di allomorfia, attraverso la cui spiegazione risulterà più chiaro anche il concetto di morfo, giacché ci rendiamo conto che, così stando le cose, il lettore potrebbe ancora avere qualche difficoltà di comprensione. Prendiamo in esame alcuni aggettivi con valore negativo: inutile, illegale, improbabile, irragionevole. In tutte e quattro le circostanze, l’elemento che determina l’evidente valore negativo è in-, un prefisso che, come ci suggeriscono i lessicografi, esprime contrarietà, opposizione o privazione. Osserviamo facilmente che esso subisce delle modificazioni fonologiche a seconda del fonema con cui comincia la parola cui si lega: in- prima della vocale, il- prima della laterale alveolare, im- prima dell’occlusiva bilabiale, ir- prima della polivibrante alveolare [Cfr. SCALISE, S., 1994, p. 50]. Le diverse e concrete realizzazioni del morfema in- sono dei morfi. Nello stesso tempo, i morfi di uno stesso morfema sono detti allomorfi.  Un ragionamento simile può farsi per -abil- e –ibil-, suffissi deverbali di aggettivi come amabile e deperibile: costituiscono gli allomorfi di uno stesso morfema col significato di “che può essere X-ato(ito)” (amato, deperito). Una forma diversa di allomorfia è quella che riguarda il verbo andare, il quale presenta due radici suppletive: vad- e and-, morfi che, pur essendo apparentemente slegati nel paradigma flessivo, veicolano sempre lo stesso significato e che, di conseguenza, rientrano in un caso di allomorfia condizionata grammaticalmente [Cfr. THORNTON, A. M., op. cit., p. 42]. In generale, l’allomorfia dipende dai processi di trasformazione della lingua lungo l’asse diacronico; in precedenza, per esempio, abbiamo notato che in- è diventato il-: ciò è dovuto all’assimilazione; ma, naturalmente, si potrebbe anche parlare della sonorizzazione di /k/ o della dittongazione o di altri fenomeni per i quali, com’è intuibile, occorrerebbe un’altra esposizione argomentativa, con preciso riferimento alla linguistica romanza.

Un’altra definizione di cui abbiamo bisogno è quella concernente il concetto di lessema. Essendo un’unità linguistica astratta, può essere oggetto di equivoci: d’altronde, il suo significato sembra non differire molto, per esempio, da quello di parola e, talora, può essere scambiato con quello di lemma. Tuttavia, in entrambi i casi, la differenza è sostanziosa e, specie in linguistica, ben marcata. Un lessema, infatti, corrisponde, sì, con la cosiddetta forma di base che troviamo in un vocabolario, ma rappresenta una vera e propria classe di parole, fungendo quindi da termine di categoria. Se assumiamo come punto di riferimento il verbo sentire, le forme flessionali sentivamo, sentii, sentirei et cetera costituiscono la sua classe. Di qui, non è affatto difficile rilevare le differenze che, da principio, sembravano poco significative o che possono indurre all’errore di valutazione.

In questo quadro didascalico, ci resta almeno un’altra considerazione di merito didattico-gnoseologico, in risposta alla domanda “che cos’è la parola?”. La maggior parte dei lessicografi afferma che si tratta di un insieme di suoni e noi, di certo, non osiamo dar loro torto. Lo studio della doppia articolazione, infatti, ci ha permesso di accertare che esiste un ‘livello profondo’ del significante che si sviluppa e diventa produttivo attraverso la concatenazione di fonemi. La natura insiemistica della parola c’impone, però, un lavoro di ridefinizione, specie in funzione della materia di cui ci stiamo occupando, poiché non possiamo fare a meno di notare che, quando, con un certo impegno metalinguistico, rendiamo la parola oggetto di indagine, ogni nostra fatica consiste nel documentare dei legami combinatori. Di conseguenza, possiamo asserire che la parola è la ‘più potente’ unità linguistico-combinatoria di cui disponga un parlante. La ‘potenza’ cui facciamo riferimento è data dal fatto che essa ‘può operare’ come segno linguistico autonomo, del tutto separato anche dal contesto della frase, avendo, talora, funzione sostitutiva della frase stessa. Per onestà intellettuale, dobbiamo dire che l’argomento richiederebbe un ampliamento mediante l’intervento dei filosofi del linguaggio, ma, in questa sede, siamo costretti a non fare integrazioni extra ordinem. Questa rinuncia è chiaramente strumentale ed è finalizzata a un’esplorazione quanto più particolareggiata possibile delle componenti morfematiche del discorso. Finora, infatti, non abbiamo dedicato spazio alla classificazione dei morfemi, i quali si suddividono in lessicali e grammaticali. Nell’ambito dei morfemi grammaticali, occorre poi distinguere i derivazionali dai flessionali. Il ricorso a un grafico essenziale, ancora una volta, può essere utile a che si memorizzi più facilmente la classificazione in questione.

I morfemi lessicali sono i veri e propri veicoli del significato della parola, ovverosia sono segni linguistici portatori di valore semantico e, in quanto tali, rappresentano una classe aperta, laddove i morfemi grammaticali non sono portatori di significato – più che altro, lo completano –, ma si caratterizzano come denotazione morfologica o grammaticale della parola e rappresentano una classe chiusa. Se prendiamo in esame la prima persona singolare dell’imperfetto indicativo del verbo amare, una prima analisi morfologica può essere effettuata nel modo che segue: amavo, dove -o è la desinenza flessiva e rientra, di conseguenza, nella categoria dei morfemi grammaticali. Allo stesso modo, l’aggettivo bello, da noi adottato come modello, presenta una base lessicale, bell-, e una flessione, -o. È molto semplice rendersi conto, fin da ora, che la classe dei morfemi grammaticali, che comprende desinenze flessive e suffissi, non può arricchirsi di nuovi elementi, tranne che la nostra lingua subisca una ‘violenta’ metamorfosi. Altrettanto semplice appare il contrario, giacché la formazione di parole è inarrestabile, quantunque lenta. Su questo ci soffermeremo più oltre per spiegare meglio l’intero processo e parlare di derivazione, prestiti, calchi et similia. Adesso, è necessario, invece, tornare al caso di amavo. Amav-, infatti, non è ancora la base lessicale o radice che abbiamo individuata in bell-. La radice ricercata è am-, -a- è la vocale tematica, denominata morfo vuoto, -v- è il suffisso temporale indicante l’imperfetto, mentre -o, come abbiamo già detto, è la flessione, che ci indica persona, numero e modo. Noi ereditiamo questa struttura morfologica dal greco e dal latino. Chi conosce anche in modo superficiale la lingua greca, per aver frequentato un liceo classico, sa che si può giungere a una buona traduzione solo attraverso il riconoscimento delle radici dei verbi e della loro apofonia, cioè dell’alternanza vocalica che li caratterizza. Il latino, sotto questo punto vista, appare meno impegnativo, anche se non del tutto. L’esame morfologico di amavo deriva proprio dalla lingua latina. Infatti, scomponendo la corrispondente forma latina, ămābam, otteniamo i seguenti segni morfematici: am-, radice, -a-, vocale tematica, -ba-, suffisso temporale, -m, desinenza. Non a caso, secondo il criterio di classificazione della tipologia morfologica, l’italiano, come tutte le lingue romanze, è una lingua flessiva, la cui caratteristica principale è, per l’appunto, la morfologia flessionale, che, in una lingua isolante, qual è l’inglese, è quasi del tutto assente: la terza persona singolare del presente, il plurale dei sostantivi, la -ing form, i suffissi per la formazione del comparativo di maggioranza e del superlativo relativo e il suffisso per la formazione del passato dei verbi regolari ne sono l’eccezione. Un’importante attestazione grafico-semiotica del principio delle lingue flessive è rappresentata dai morfemi cumulativi. In belli, il morfema flessionale -i rappresenta sia il plurale sia il maschile, ci dà cioè due informazioni essenziali. Il fatto morfologico è ancora più evidente in latino. La desinenza -as del latino rŏsas indica, nello stesso tempo, l’accusativo, il plurale e il femminile.

Forti di alcune acquisizioni, possiamo passare adesso all’esame di una parola complessa: indubitabilmente; non si fa fatica a osservare che si tratta di un avverbio il cui significato è riconosciuto dai più in “senza dubbio”, “certamente”, “chiaramente” et similia. L’analisi che lo riguarda, però, è meno evidente a causa dei fenomeni di derivazione da cui è marcata. Ne trascriviamo l’intera struttura morfematica per poi commentarla, ma, in questa circostanza, al fine di fare un passo avanti in fatto di conoscenze, utilizziamo un nuovo codice di trascrizione:

{in}- -{dubit}­- {abil}- -{mente}

Del prefisso -in abbiamo già detto a sufficienza. Qui, aggiungiamo che la prefissazione non cambia la categoria grammaticale della parola: dubitabile e indubitabile sono entrambi degli aggettivi, come scrivere e riscrivere sono entrambi dei verbi. La lista dei prefissi della lingua italiana è molto lunga e, qui, possiamo solo limitarci a precisare alcune cose. La Grammatica italiana di Luca Serianni [1989] contiene, in appendice, un ricco ed esaustivo elenco di prefissi e suffissi corredato dalle opportune note sul loro valore semantico. I prefissi possono essere nominali (s-conforto), aggettivali (dis-onesto) e verbali (tra-scrivere), a seconda del morfema lessicale cui sono anteposti. Il termine “anteposti” ci spinge subito a far notare che alcuni di essi sono di origine latina o greca: ante- è indubbiamente d’origine latina, come con-, contra-, circum- et cetera, mentre ipo-, meta-, sin- et cetera sono di origine greca. È bene sapere che ciascun prefisso, quale che ne sia la natura, fornisce una certa informazione di significato, pur lasciando inalterata la categoria grammaticale della parola, come abbiamo specificato. Continuando ad analizzare l’avverbio indubitabilmente, incontriamo, adesso, il morfema lessicale -dubit-, che reca in sé il significato di dubitare e ha un’evidente natura verbale. Perché la morfologia della parola sia completa occorre valutare, da ultimo, due suffissi: -abil- e -mente. I suffissi, al contrario di quanto accade coi prefissi, per lo più modificano la categoria grammaticale della parola: dal verbo dubitare si passa, prima, all’aggettivo dubitabile e, successivamente, all’avverbio dubitabilmente. Ciò è parzialmente vero. Infatti, se al nome scienza aggiungiamo il suffisso -ato, otteniamo un altro nome, scienziato; lo stesso accade, se uniamo giornale e -aio. Abbiamo visto, in precedenza, che i suffissi in -abil e -ibil, indicano possibilità: amabile significa “che può essere amato”, mangiabile “che può essere mangiato” e così via. Molti studiosi, in genere, per giustificare il modo in cui si combinano i morfemi e le relative variazioni fonologiche, nel tempo, hanno introdotto alcune regole di formazione dei lessemi, note anche attraverso l’acronimo RFL e da cui dipendono cancellazione, riaggiustamento, restrizione et similia. Alcuni di questi strumenti di verifica del processo combinatorio sono sicuramente utili, ma, dal nostro punto di vista, nella maggior parte dei casi, si tratta di forzature. Avvertiamo il lettore che, nel caso in specie, stiamo operando contro ‘le autorità’ e, per ciò stesso, rischiamo l’esecrazione. Adottiamo, tuttavia, un esempio che possa dar conto limpidamente della questione: purtroppo, per offrirne una visione completa ci vorrebbe l’intero capitolo di un saggio e non un compendio minimo. L’esempio su cui alcuni insistono è quello che riguarda l’avverbio chiaramente, che facilmente scomponiamo in chiaro- e -mente. Siccome la forma base dell’aggettivo corrisponde con la forma flessa maschile, chiaro, per la creazione della forma flessa femminile determinata dalla suffissazione interverrebbe la cosiddetta regola di riaggiustamento [SCALISE, S., op. cit., pp. 152-154] in funzione della quale /o/ diventa /a/. Noi, come s’è compreso, non siamo del tutto d’accordo. Non c’è dubbio che la modificazione fonologica sia quella indicata da Scalise, ma ci chiediamo: perché tentare di giustificare con l’etichetta di “riaggiustamento” un fenomeno che era già chiaro ai Latini. Partiamo dal presupposto secondo cui il suffisso derivazionale -mente non è altro che l’antico sostantivo latino mens, un tempo elemento dotato di autonomia lessicale e, naturalmente, semantica e, successivamente, assimilato dalla grammatica: tale fenomeno, nell’ambito del mutamento della lingua, si chiama, per l’appunto, grammaticalizzazione. Se, poi, a tal proposito, consultiamo il Manuale di linguistica e filologia romanza di Renzi e Andreose [2003], scopriamo un ragionamento del tutto diverso e molto più convincente. In latino, “l’avverbio di modo poteva essere sostituito dall’ablativo di mens e da un aggettivo a esso accordato: devota mente, ad esempio, aveva il significato avverbiale di ‘con animo devoto’, simulata mente di ‘con atteggiamento falso’ (…) È probabile che già nella tarda Antichità si fosse persa la coscienza che sintagmi come questi erano costituiti da un aggettivo e da un nome e li si percepisse come una parola composta, che veniva rianalizzata come la giustapposizione di un aggettivo al femminile e di un suffisso avverbiale in -mente (…) Tale processo morfologico di derivazione avverbiale è stato ereditato poi da gran parte delle lingue romanze” [pp. 154-155]. Sulla base di questa lineare e inconfutabile spiegazione, sembrerebbe superflua l’introduzione d’una regola ad hoc. Un discorso simile può essere fatto per il suffisso -abil, che abbiamo appena incontrato, ma che apparteneva già agli aggettivi della seconda classe latina: -ābilis. Tra le altre cose, alcune regole, secondo questo criterio, diventano spesso ‘irregolari’: ci sia concesso il gioco di parole! Se, per esempio, rispettiamo la regola di cancellazione, secondo cui la vocale finale del morfema lessicale ‘si cancella’ davanti alla vocale del suffisso, sappiamo che l’aggettivo famoso si ottiene dall’incontro di fama, con cancellazione di /a/, col suffisso -oso. Tuttavia, all’aggettivo virtuoso, non si può applicare la stessa regola, valida per le vocali atone, ma non per le toniche: virtù e -oso. Vogliamo precisare che il nostro obiettivo non è quello di dichiarare disfunzionali certe regole, che in molti casi sono efficaci e per la cui revisione occorrerebbe una trattazione molto più dettagliata, ma, diversamente, intendiamo dire che molte trasformazioni fonologiche sono già bell’e spiegate nella trazione romanza e, di conseguenza, nel processo diacronico di mutamento della lingua. Quando, per esempio, trasformiamo la forma base amico [a’miko] nella forma flessa amici [a’mitʃi], ciò che si verifica è la palatalizzazione della velare: da [k] si passa a [tʃ]. Anche in quest’ultimo caso, la spiegazione si trova in modo inequivocabile nella lingua latina. Facciamo ancora un esempio, anche se, purtroppo, non possiamo soffermarci molto a lungo sulla questione, a meno di snaturare il fine del presente contributo. Secondo la regola della cancellazione, il sostantivo brevità si formerebbe dall’unione della forma base breve e dal suffisso -ità, ma con cancellazione di /e/. Vien fatto di chiedersi, a questo punto, che fine abbiano fatto la ‘gloriosa’ brĕvĭtās latina e, con essa, il suffisso -tātem. Serianni, nella summenzionata Grammatica, a tal proposito, con una chiarezza disarmante, scrive: “(…) è il punto d’arrivo della trafila (brev)itate > (brev)itade > (brev)ità (…)” [op. cit., p. 643]. Insomma, perché affannarsi a dare nomi nuovi e sofisticati a ciò che appartiene alla nostra filogenesi linguistica? E inoltre: che ne direbbe il buon vecchio Rohlfs?

Resta da chiarire la differenza tra prefisso e prefissoide e tra suffisso e suffissoide. Esplicitandone uso e significato, entriamo in un’altra area della formazione delle parole, quella della composizione. Il prefissoide è un elemento lessicale che, avendo acquisito totale autonomia, può essere posto davanti a qualsiasi parola, a patto che si rispettino le condizioni di composizione. Il caso più noto è senza dubbio quello di auto-: deriva dal greco αὐτός (autòs), che significa egli stesso, da sé stesso, di per sé, ed entra nella composizione di parecchi sostantivi: autocoscienza, autolavaggio, autostrada et similia.  Ma possiamo indicare con la stessa facilità demo- (democrazia), eco- (economia), aero- (aeromobile), andro- (andropausa), cardio- (cardiologia) et cetera. I suffissoidi, invece, sono veri e propri morfemi lessicali che abbiamo ereditati pienamente dalla lingua greca e da quella latina. Per averne immediatamente idea basta pensare alla coppia -logo / -logia, tratta dalla lingua greca e che, nell’italiano, s’è rivelata molto produttiva: filologo / filologia, neurologo / neurologia, enologo / enologia et similia. Non andiamo oltre, essendo certi che il lettore stesso sarà in grado di arricchire l’eventuale lista. Forniamo solo qualche altro esempio di suffissoide, così da ampliare il quadro didattico: -geno (allucinogeno), -grafia (fotografia), -metro (barometro), -tomia (tracheotomia), –fobia (claustrofobia).

La composizione delle parole, però, non si esaurisce qui. Trattandosi di un fenomeno molto complesso e in continuo fermento, per così dire, suggeriamo sempre al lettore di approfondire l’argomento utilizzando un testo di pertinenza: la Grammatica di Serianni, ancora una volta, è insuperabile per ampiezza e rigore, ma, in materia di morfologia, può essere indubbiamente utile il già citato testo di Thornton. È evidente che ce ne sono tanti che meriterebbero di essere consultati, ma noi, dovendo dare delle indicazioni di massima, siamo costretti a fare una rigida selezione. A ogni modo, nel tentativo di conferire una certa compiutezza al nostro lavoro, daremo adesso delle indicazioni di categoria. Un caso di composizione che potremmo definire per lo meno singolare nella nostra lingua, non altrimenti che se fosse una sorta di anomalia, è quello dei verbi parasintetici: ingiallire, sbandierare, ingrandire. Come si può facilmente osservare, questi verbi sono tutti prefissati (in-, s-, in-). La prefissazione, tuttavia, al contrario di quanto abbiamo riscontrato finora, non è premessa a una vera e propria base verbale, giacché i verbi *giallire, *bandierare e *grandire non esistono. Come scrive opportunamente Thornton [op. cit., p. 139], la loro formazione si giustifica, oltre che con la prefissazione, anche con la conversione, cioè con un procedimento mediante il quale, senza ricorrere agli affissi, si genera un nuovo lessema che appartiene a una parte del discorso diversa da quella del lessema di partenza: n’è un esempio il sostantivo arrivo, generato dal verbo arrivare. L’arricchimento della nostra lingua avviene anche tramite prestiti e calchi di parole provenienti dall’inglese, dal tedesco, dal francese et cetera. Secondo i redattori del vocabolario Treccani, nel nostro lessico, sono attestati più di 6.000 prestiti. Molti sono stati assorbiti talmente bene dall’italiano che il parlante non li riconosce affatto come forestierismi: e-mail, computer, sport, cabaret, sangria et cetera. Mentre il prestito è un’acquisizione con cui si rispetta fedelmente la struttura della parola, il calco, invece, è un vero e proprio riadattamento della morfologia d’origine. Può risultare molto interessante a tal proposito sfruttare il caso di weekend: nella glossa d’origine, rappresenta un prestito, ma, se reso con fine settimana, diventa un calco; com’è noto, è entrato a far parte della nostra lingua con parecchia fortuna.

Le parole composte rappresentano, probabilmente, uno dei casi più noti di formazione del lessico, soprattutto perché, fin dai primi anni di scuola, gl’insegnanti ce ne danno spiegazione. Si tratta di parole che nascono dall’unione di due elementi lessicali autonomi e che, anche nella nuova parola, mantengono lo stesso significato: asciugamano è chiaramente composta da asciuga e mano, i cui significati, com’è evidente, non vengono alterati nella parola composta; lo stesso discorso può farsi per caffellatte, apribottiglie, cassaforte et cetera. Le opportunità di composizione sono numerose: nome più nome, preposizione più nome, verbo più verbo, aggettivo più verbo e così via. Quando, invece, due o più parole si incontrano, senza tuttavia dare luogo a un’unione morfologica, ma generando una certa coesione semantica interna, allora si hanno le unità polirematiche: giacca a vento, anima gemella, ordine del giorno, fare il bucato. La loro caratteristica principale consiste nel fatto che il significato da esse prodotto si ottiene solo riconoscendo l’intero sintagma; la separazione degli elementi del sintagma ne causerebbe la cancellazione. In questa categoria possiamo fare rientrare anche le unità lessicali bimembri [Cfr. BERRUTO, G., CERRUTI, M., 2017, p. 111], il cui valore semantico dipende dalla giustapposizione di parole, che, una volta separate, seguirebbero diversa significazione: parola chiave, ufficio concorsi et cetera. Non si fa fatica a notare che, a differenza delle unità polirematiche, le unità lessicali bimembri presentano una struttura ellittica, basata cioè sulla soppressione di preposizioni ed eventuali forme di concordanza. In materia di composizione, dobbiamo spendere qualche altra parola per descrivere le parole macedonia, non perché, con esse, l’ambito della composizione delle parole si sia esaurito, ma perché rispettiamo per lo meno il principio di informazione didattica essenziale. Le parole macedonia sono parole che nascono da un vero e proprio snaturamento delle parole che le compongono: papamobile deriva dall’unione di papa e automobile, cantautore dall’unione di cantante e autore, meccatronica dall’unione di meccanica ed elettronica, assoconsumatori dall’unione di associazione e consumatori e così via. È evidente che le parole vengono abbreviate, ridotte o, talora, anche storpiate.

Per portare a termine questo percorso di è doveroso fare alcune precisazioni. Secondo l’ordine metodologico classico, avremmo dovuto farle prima, ma abbiamo ritenuto che l’economia del testo e delle conoscenze non fosse alterata dalla nostra scelta. Una distinzione importante in morfologia e che, in genere, si premette a ogni contributo sulla materia è quella tra morfologia libera e morfologia legata. I morfemi liberi, come si può intuire facilmente, sono quelli dotati di autonomia, che cioè non hanno bisogno di unirsi ad altri morfemi per avere una specifica funzione: che, di, però, già, anche e così via. Bisogna aggiungere, però, che si tratta di parole che hanno un significato grammaticale, ma sono prive di un significato lessicale, sono cioè parole funzionali. I morfemi legati, invece, sono tutti quegli elementi privi di autonomia che finora abbiamo ampiamente trattati: i prefissi, i suffissi, le forme flessionali e, naturalmente, anche i morfemi lessicali.

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Bibliografia minima essenziale

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