La madre e la figlia

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“All’imbrunire, vedrai!”

Il tono era stato sentenzioso, ma non fortuito né, tanto meno, inaspettato. Il suo eloquio, anzi, era molto spesso solenne e perentorio, come se una entità oscura e rasserenante ne istruisse i contenuti. Di fatto, capita a ciascuno di noi, nella vita, di avere qualche incrollabile certezza, qualche principio che, pur essendo intangibile, inaccessibile e inspiegabile, sembra guidarci nell’agire quotidiano. Semmai, il nostro limite, un limite naturale e fisiologico e, talora, salvifico, per carità, è costituito da una sorta di mutevolezza del pensiero e degli affetti, che, proprio nel momento in cui ci fa apparire inaffidabili, ci permette di fare nuove scoperte. Insomma, la nostra emancipazione e la nostra crescita intellettuale, talora, passano anche dalla nostra inaffidabilità, dalle nostre devianze. Per lei, però, non era così; non era più così da anni, almeno dal momento che la sua mente era stata sovrastata da una specie di religiosità ideale e, a tratti profetica e moraleggiante.

“Mamma, che vuoi dire? Non capisco” le aveva risposto la figlia, alquanto benevola e premurosa, quantunque affaticata dal senso di certe profezie.

“I bambini mi fanno domande alle quali non posso rispondere. Ma bisogna avviarli…” aveva risposto la donna, distesa sul letto, quasi immobile, lo sguardo rivolto al tetto, quasi invocasse l’intervento d’un essere superiore. “I santi di cui siamo consulenti…” continuò senza curarsi troppo di completare la frase. Ogni qual volta in cui un qualsivoglia elemento del discorso risultava di difficile comprensione o, diversamente, la logica si complicava o, ancora, mancava un preciso nome da dare alle cose, la signora ricorreva al termine “consulenti”. Tutti coloro che, presenti o assenti, le erano, in qualche modo, estranei, diventavano “consulenti”. La parola “consulenti”, per lei, era polivalente e polifunzionale, una categoria di significato talmente ampia da potere accogliere tutto ciò che non veniva riconosciuto immediatamente. Noi potremmo definirlo come significato fittizio, ma, a ben riflettere, in lei, il convincimento era talmente radicato che il concetto di fittizio era, a dir poco, insussistente.

“Mamma, perché ti sei coricata a testa in giù?” chiese la figlia, confidando in un dialogo più lineare e trasparente.

“Siamo il patrimonio dell’anima nella terra dei viventi” rispose la madre con la solita implacabile e imperturbabile autorevolezza. Bisogna dirlo: la sua non era autorevolezza pura, non era una storica proprietà del suo carattere, ma una conseguenza dell’atteggiamento visionario che, nonostante il ricco frasario, altri, che non l’avesse conosciuta bene, difficilmente le avrebbe attribuito. Era una personcina ammodo, sempre garbata, schiva e fin troppo refrattaria ai contatti umani perché si potesse anche solo lontanamente pensare che s’impegnasse ad esercitare la propria autorità su qualcuno. Quale autorità? In pensione ormai da anni dal proprio ruolo di dirigente pubblico, svolto con impeccabile diligenza e guardandosi bene dal violare le regole della quieta e moderata coesistenza, viveva, da vedova, in casa della figlia, che, maritata e con figli, insegnante delle antiche e buone lettere, se ne prendeva cura assiduamente. Ecco: tutte queste informazioni sono utili a che si comprenda pazientemente che alcune irruzioni di verbosità aggressiva o imperativa appartenevano più al personaggio che alla persona.

“Bisogna dare l’incarico a quella ragazzina!” proseguì con fare ammonitorio e rimproverando la figlia con lo sguardo. A vederla, di primo acchito, si sarebbe detto che bisognava assolvere il più presto possibile una particolare incombenza. E non di rado accadeva qualcosa di simile. Le sue esortazioni avevano quasi sempre il carattere dell’emergenza, tranne che ci si rendesse conto dei suoi eccessi e, per certi aspetti, se ne avesse pietà.

“Mamma, adesso basta, te ne prego! Lasciami dormire un po’! Sono le tre del mattino. Puoi stare un po’ zitta?” fu il tentativo della figlia, un tentativo presto vanificato dallo sconforto, che sopraggiunse dopo che la madre ebbe risposto con un’altra domanda?

“Mi puoi dire quanto tempo ho?”

Occorreva, dunque, avere una misura del tempo durante il quale avrebbe dovuto tacere. Tuttavia, poiché la figlia non fu in grado di formulare neppure una sillaba, ella riprese con più vigore.

“Sono venuti dei signori e li ho cacciati, grazie a Dio. Gli arcangeli possono sentirmi e vedono le mie preghiere. Guarda anche tu! Sul tavolino… Il volto di tutti i santi.”

“Mamma, quelli sono i tuoi farmaci…”

“I miei farmaci sono come le preghiere e le preghiere esprimono il volto di Dio e dei santi.”

Quella notte, la figlia ebbe un solo torto, se così, cioè con estrema generosità, vogliamo definire il suo inevitabile addormentamento. Poco dopo che, esausta, ebbe chiuso gli occhi, la signora si alzò e cadde rovinosamente a terra, riportando una brutta frattura al femore. La corsa in ospedale, grazie all’intervento degli operatori del primo soccorso, fu tanto immediata quanto massacrante. La signora non ne voleva proprio sapere e, per più, lamentava dolori lancinanti. Giunti che furono al pronto soccorso, la figlia si vide bloccare dal personale sanitario che le oppose un secco “normative covid”. Avrebbe voluto opporsi e far capire la complessità della situazione, ma quel “ma” le rimase in gola come un boccone amare che si stenta a sputare fuori.

“Signora, mi dica, che è successo?” chiese subito il medico.

“Ciao! Alla fine sei riuscito ad avere figli?” esordì la donna il cui eloquio non era contrastato neppure dalla sofferenza.

Il medico, sulle prime, rimase un po’ basito; successivamente, decise di affidare il caso a un collega. E così, ancora una volta, santi, consulenti, gatti e cori di voci bianche si susseguirono ininterrottamente, prendendo forme linguistiche che l’intera astanteria a malapena riconosceva.

Nel frattempo, la figlia, sempre più sfinita, passeggiava davanti al pronto soccorso. Solamente dopo un paio d’ore, qualcuno ebbe il buon senso di uscire a chiedere di lei.

“Signora, signora! La paziente ottantaseienne è sua madre?”

“Sì, è mia madre”

“È afflitta da demenza?”

“Sì, ha la demenza senile.”

“Entri! Abbiamo bisogno di lei!”

A testa bassa, la figlia seguì l’infermiere, che la condusse, prima, dal medico per il consulto, e, successivamente, dalla madre.

“Mamma, come stai?”

“Tu hai i vestiti di mia figlia. Come mai?

“Mamma, io sono tua figlia.”

“Il nostro rapporto non può considerarsi feretro, cioè una cosa chiusa” sentenziò, prima di chiudere gli occhi per sempre.

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