La dottrina del tradire: Efialte o Giuda o gli amanti

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col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Kαλοκαγαθία (kalokagathìa): nell’italiano contemporaneo, si può rendere semplicemente con nobiltà, onorabilità, sebbene tale resa, nella propria attendibilità e nella propria linearità semantica, risulterebbe coprente o, per certi aspetti, insufficiente; essa, in altri termini, si configurerebbe come un processo ermeneutico incompiuto. Alcuni lessicografi traducono addirittura con bontà: nulla da eccepire, fuorché se ne prenda in considerazione la struttura morfematica. Kαλοκἀγαθός (kalokagathòs) è, indubbiamente, l’aggettivo di rappresentanza dell’arcaico uomo onorabile, ma l’onorabilità è un attributo resultativo, per così dire, che nasce cioè dal possesso di precise condizioni fisiche e morali che noi, oggi, neppure ammettiamo come tali. Per ottenere questo aggettivo, infatti, bisogna fare, anzitutto, un lavoro di scomposizione morfologica e risalire all’espressione καλός καὶ ἀγαθός (kalòs kai agathòs, bello e buono), successivamente procedere con la crasi di κἀγαθός (kagathòs) e, da ultimo, ricostruire l’aggettivo summenzionato. Solo in questo modo è possibile capire che per meritare la καλοκαγαθία (kalokagathìa) un greco doveva essere bello e buono, possedere perfezione fisica e morale.

Certi criteri di classificazione – o, diversamente, certi ‘contrassegni’ simbolici – potrebbero sembrare ripugnanti e quasi belluini, in un’epoca, la nostra, in cui ogni giudizio dev’essere approvato da personcine ammodo e il cui fine, per lo più astratto, dogmatico e fantasmagorico, consiste non già nel difendere concretamente i più deboli, bensì nell’essere considerate difenditrici dei più deboli. Insomma, l’ἰδιώτης (idiòtes, persona comune) attuale si fa gran vanto d’uno smisurato amore per il prossimo. Di fatto, però, il modello impositivo e vincente resta sempre quello della bellezza fisica, specie se si adotta come unità di misura la categoria delle donne dei media televisivi. In pratica, il principio di esclusione, nostro malgrado, è archetipico, filogenetico, incontrastabile.

Platone, invece, nel Timeo, pur essendo molto severo, pretende un vero e proprio equilibrio fisico-noetico.

Tὸν δὴ μαθηματικὸν ἤ τινα ἄλλην σφόδρα μελέτην διανοίᾳ κατεργαζόμενον καὶ τὴν τοῦ σώματος ἀποδοτέον κίνησιν, γυμναστικῇ προσομιλοῦντα, τόν τε αὖ σῶμα ἐπιμελῶς πλάττοντα τὰς τῆς ψυχῆς ἀνταποδοτέον κινήσεις, μουσικῇ καὶ πάσῃ φιλοσοφίᾳ προσχρώμενον, εἰ μέλλει δικαίως τις ἅμα μὲν καλός, ἅμα δὲ ἀγαθὸς ὀρθῶς κεκλῆσθαι: Ton de mathematikòn e tina àllen sphòdra melèten dianòia katergazòmenon kai ten tou sòmatos apodotèon kìnesin, gymnastikè prosomiloùnta, ton te au sòma epimelòs plàttonta tas tes psychès antapodotèon kinèseis, mousikè kai pàse philosophìa proschròmenon, ei mèllei dikàios tis hàma men kalòs, hàma de agathòs orthòs keklèsthai [Colui che è desideroso d’imparare o si applica con intenzione a un’altra intensa attività intellettuale bisogna che conceda anche il movimento al corpo, versandosi nella ginnastica, e ancora colui che plasma accuratamente il corpo bisogna che (vi) contrapponga le attività dell’anima, servendosi della musica e di tutta la filosofia, se uno rettamente desidera essere chiamato sia bello che buono in maniera corretta (Platonis Dialogi secundum Thrasylli tetralogia dispositi, trad. nostra, a cura di C. F. Hermann, vol. IV, 1887, Teubner, Lipsia, p. 401)].

Se passiamo alla riproposizione cinematografica delle trame mitologiche e letterarie, allora ci tocca prendere atto di un evidente meccanismo di epurazione a scapito dei brutti. In Troy, film del 2004 in cui l’autore riproduce, pur se con particolare fantasia, le vicende principali della guerra di Troia, Brad Pitt interpreta Achille, Eric Bana Ettore, Diana Kruger Elena, Orlando Bloom Paride: nessuno di loro sembra essere malfatto. In 300, uscito nel 2007 e basato interamente sul valore del re spartano Leonida e dei suoi migliori guerrieri, i trecento del titolo, per l’appunto, il ruolo del protagonista viene affidato a Gerard James Butler, che non presenta alcunché di antiestetico, laddove Efialte, cioè il traditore delle Termopili o, in altri termini, colui che rappresenta il primo grande tradimento storico-letterario in occidente, viene raffigurato con tutte le caratteristiche di bruttezza della cui genesi possa essere capace un autore. Il fatto è che Erodoto, nelle Storie, non ci parla affatto della sua sgradevolezza, non ce lo presenta come turpe e deforme. Di conseguenza e per converso, è probabile che i produttori abbiano voluto sollecitare, come in genere accade, una sorta di pensiero collettivo, secondo cui la bassezza d’animo e di sentimenti, l’ignobiltà, è connotata fisicamente dalla repellenza. Non si spiega altrimenti.

Dall’analisi del fatto storico-letterario apprendiamo unicamente che Efialte è un traditore. Erodoto, infatti, nel VII libro delle Storie, ne denuncia nitidamente e unicamente il tradimento.

Ξέρξης δὲ ἐπεὶ ἡλίου ἀνατείλαντος σπονδὰς ἐποιήσατο, ἐπισχὼν χρόνον ἐς ἀγορῆς κου μάλιστα πληθώρην πρόσοδον ἐποιέετο· καὶ γὰρ ἐπέσταλτο ἐξ Ἐπιάλτεω οὕτω: Xèrxes de epèi helìou anatèilantos spondàs epoièsato, epischòn chrònon es agorès kou màlista plethòren pròsodon epoièeto; kai gar epèstalto ex Epiàlteo hoùto [Al sorgere del sole, Serse fece libagioni e, lasciato trascorrere il tempo fino all’ora in cui il mercato è pieno, mosse all’attacco: così era stato raccomandato da Efialte (ERODOTO, Storie, VII, 223, 1, a cura di P. Vannicelli e A. Corcella, trad. it. di G. Nenci, 2017, Valla-Mondadori, pp. 262-263, Milano)].

Il pastore Ἐπιάλτης (Epiàltes) di Trachis, città della piccola regione greca della Malide, mostrando ai Persiani un sentiero segreto (scoperto dai Malesi tempo prima, quando essi, per lo stesso sentiero, avevano permesso ai Tessali di sorprendere inaspettatamente i Focesi), permette loro di aggredire alle spalle il contingente spartano di Leonida alle Termopili, annientandolo. Ciò non impedisce comunque ai Greci di vincere a Salamina, cosicché Efialte, che si attende dai Persiani una ricompensa, deve invece fuggire per salvarsi, trovando rifugio in Tessaglia. Qui trova la morte per mano di Atenade di Trachis, che ottiene un premio per il proprio gesto.

Foscolo scrive che “la bellezza è una specie di armonia visibile che penetra soavemente nei cuori umani” (Il gazzettino del bel mondo, Frammenti, in Opere edite e postume di Ugo Foscolo, vol. IV Prose letterarie, 1850, Le Monnier, Firenze, p. 106). Essa, pertanto, sembra essere una qualità essenziale a che si definisca pure il livello sociale del personaggio, mentre la bruttezza è segno d’un annuncio sociale di sventura e dissolutezza.

Tersite, che, nell’Iliade, rappresenta l’antieroe per eccellenza, viene tratteggiato in modo addirittura impietoso.

Φολκὸς ἔην, χωλὸς δ’ ἕτερον πόδα· τὼ δέ οἱ ὤμω / κυρτὼ ἐπὶ στῆθος συνοχωκότε· αὐτὰρ ὕπερθε / φοξὸς ἔην κεφαλήν, ψεδνὴ δ’ ἐπενήνοθε λάχνη: Pholkòs èen, cholòs d’ hèteron pòda; to de hoi òmo / kyrtò epì stèthos synokokòte; autàr hỳperthe / phoxòs èen kephalèn, psednè d’ epenènothe làchne [Aveva le gambe storte, zoppo da un piede, le spalle / ricurve, cadenti sul petto; sopra le spalle, / aveva la testa a pera e ci crescevano radi i capelli (OMERO, Iliade, II, 217-219, vol. 1, a cura di G. Cerri, 2000, Fabbri, Milano, pp. 184-185)

Più volte, ormai, s’è insinuato tra le righe il verbo tradire, quasi fosse l’irrefrenabile azione di chi possiede per lo meno requisiti di sgradevolezza. Il nostro habitus linguistico, molto poco speculativo-resultativo e molto effettuale, è sicuramente lontano da talune associazioni greco-arcaiche per le quali la bruttezza potrebbe recare in sé inganni e tradimenti, ma di una cosa possiamo essere certi: il tradimento, pur non facendoci pensare immediatamente al corpo, è qualcosa di brutto. Talora, possiamo essere incapaci d’assegnare a esso un volto preciso, ma i pensieri che ne scaturiscono sono per lo meno spiacevoli, quando non diventino addirittura inquietanti. Tradire e tradimento, dunque, prim’ancora d’essere oggetto d’un qualsivoglia studio, sono termini evocativi. Facendone uso, siamo ben consci di sollecitare nel ricevente l’attivazione d’un ben definito contenuto psichico, qualcosa che rimandi alla violazione d’un codice, d’un patto, d’un’alleanza, quale che ne sia il suggello. Per ciò stesso, il segno o il rimando scuote e altera la sfera affettivo-emotiva del parlante. Indubbiamente, non possiamo definirli, specie in modo sbrigativo, attivatori psicosemantici o delle voci funzionali, giacché la definizione imporrebbe una ricerca diversa da quella che stiamo svolgendo, basata principalmente su rilevamenti statistici e questionari. Tuttavia, apparirà chiaro anche ai neofiti o, semplicemente, ai curiosi che esiste una dimensione pratico-esistenziale in cui parlare e scrivere di tradimento vuol dire inscrivere il discorso nell’area dell’azione delittuosa e immorale, del comportamento ingannevole e oltraggioso, della scelta sleale e, nel contempo, pusillanime. Ciò accade – bisogna ammetterlo – indipendentemente dalla competenza filologica e lessicale del soggetto: n’è già feconda testimonianza l’abbondante fraseologia che troviamo nei dizionari della lingua italiana: “condannare per tradimento”, “macchiarsi di tradimento”, “commettere un tradimento”; ed è nota, altresì, la locuzione avverbiale “a tradimento”, cioè con l’inganno. Un rapido ricorso all’etimologia, però, può rivelarsi sorprendente: non già e non tanto per il passaggio semantico del verbo originario, che è assai noto, quanto, piuttosto, per il fondamento archetipico di questo passaggio. Il verbo latino cui facciamo riferimento è trādĕre, che significa principalmente consegnare, porgere, trasmettere, tramandare, donare, dare in eredità. Di qui, già nell’accezione classica, si assume il significato di consegnare qualcosa al nemico con l’inganno. Non è escluso, dunque, che le ‘bizzarrie psicolinguistiche’ dei Greci fossero più genuine e utili di quanto siamo disposti ad ammettere. Secondo De Grandis, compilatore di un Dizionario etimologico-scientifico delle voci italiane di greca origine (1824), non a caso, il nome del traditore primevo (Efialte) avrebbe il significato di incubo e deriverebbe dal greco ἐφάλλομαι (ephàllomai), salto sopra [composto da ἐπί (epì) e ἅλλομαι (hàllomai)], a indicare l’azione aggressiva degl’incubi, che, appunto, saltano sopra l’individuo e lo tormentano. Tradire, allora, è essenzialmente venire meno a un obbligo morale, a un solenne impegno; e la storia è stracolma di fulgide testimonianze.

Cum ille, id quod erat, diceret facilem pupillo traditionem esse, signa et dona comparere omnia, ipsum templum omni opere esse integrum, indignum isti videri coepit ex tanta aede tantoque opere se non opimum praeda, praesertim a pupillo, discedere [Dal momento che quello diceva ciò che era, cioè che per l’orfano era una consegna facile, che le statue e i doni erano tutti a posto e che lo stesso tempio era integro in ogni parte, a questo cominciò a sembrare cosa vergognosa ritirarsi da un tempio così grande e di così grande importanza senza essere carico di bottino, soprattutto (preso) da un orfano (CICERONE, Orationes Verrinae, De pretura urbana (I), 50, 132, trad. nostra, a cura di G. Peterson, 1916, E Typographeo Clarendoniano, Oxford, p. 49)].

Nec sum ignarus hoc a me praecipue quod hic liber inchoat opus studiosos eius desiderasse, ut inquisitione opinionum, quae diversissimae fuerunt, longe difficillimum, ita nescio an minimae legentibus futurum voluptati, quippe quod prope nudam praeceptorum traditionem desideret [Non sono ignaro del fatto che gli studiosi di ciò (scil. di eloquenza) desideravano da me soprattutto il lavoro che inizia questo libro, difficilissimo per l’esame di questioni che sono state le più diverse, così non so se di minimo gradimento per coloro che leggeranno, dal momento che richiede la nuda trasmissione di precetti (QUINTILIANO, Institutio oratoria, III, I, 2, trad. nostra, a cura di F. Meister, vol. I, 1886, G. Freytag, Lipsia – F. Tempsky, Praga, p. 104)].

Abbiamo reso entrambe le occorrenze (“traditionem”) con “consegna” e “trasmissione” a riprova del fatto, lasciato già intravedere, che l’italiano contemporaneo si serve di un esito semantico, escludendo del tutto sia l’elemento radicale sia il processo di significazione; la qual cosa non è così frequente, come si è indotti a credere. Se, infatti, consideriamo che il verbo trādo è composto da tra(ns) e do, risaliamo alle radici indoeuropee di questa formazione, ovverosia *dō-/də e *dhē-/dhə (ERNOUT, A., MEILLET, A., 2001), che approfondiremo più oltre in unione col testo greco dei sinottici, e, nello stesso tempo, osserviamo morfologia e semantica dell’inglese do (fare, dall’antico inglese dōn), voce germanica d’origine indoeuropea, ci rendiamo conto del modo in cui si strutturano alcuni processi di conservazione, secondo principi inclusivi e non esclusivi. Naturalmente, in linguistica, un dato non è mai positivo o negativo, tant’è che il nostro obiettivo non consiste nel redigere classifiche di gradimento. Alla luce di questo ulteriore chiarimento, infatti, è probabile che la pragmatica romanza, in merito, si sia originata da una sorta di rottura psico-socio-linguistica. In altri termini, filologi e lessicografi non pongono alcun indugio nel riproporre il frammento evangelico del tradimento di Giuda e la vicenda dei vescovi traditores (MIGLIORINI, B., 1987) i quali, durante la persecuzione di Diocleziano, non esitarono a consegnare alle autorità i testi sacri. La tesi del postulato religioso è più che valida, oltre che scientificamente fondata e riccamente documentata, ma ci pare insufficiente a giustificare l’intero meccanismo di esclusione e oblio, specie se teniamo conto del fatto che il sostantivo tradimentum era già in uso nel latino tardo (DU CANGE, 1887); la qual cosa può farci intuire che, tutto sommato, l’abbandono di consegnare a vantaggio di tradire fu rapido. È universalmente noto, infatti, che è impossibile modificare la lingua per ‘decreto’, come se un qualsivoglia legislatore potesse imporre un certo uso, anziché un altro. Se così fosse, infatti, non avremmo avuto quel ‘capolavoro dell’ingegno linguistico’ che il pidgin rappresenta, dato che esso nacque proprio dalla reazione a un tentativo di coercizione linguistica (PINKER, S., 1994). In sintesi, in epoca classica, il significato prevalente era quello di consegnare, anche se, come abbiamo visto, consegnare al nemico ne completava la struttura semantica costituendo il substrato di ciò che, presto, sarebbe stato. In epoca tarda e, per l’appunto, medievale, invece, si passò al predominio dell’accezione negativa. Tra le due epoche, è da collocarsi l’eventum della cristianità in seguito al quale, secondo i più, i parlanti avrebbero accolto la sostituzione per slittamento. Se è incontestabile che esistono fenomeni che possono influenzare notevolmente il ‘comportamento linguistico’ dei parlanti, nello stesso tempo, è parimenti inaccettabile che si attribuisca a un qualsivoglia episodio storico, quantunque questo sia considerevole, tanta sconvolgente potenza glottogenetica, come, invece, si dice e si scrive dai più. È assai probabile che si sia trattato d’un naturale processo di rigenerazione, adattamento e proiezione del senso del verbo consegnare, lungo l’asse diacronico e, indubbiamente, diafasico, processo per la cui interpretazione si deve certamente tenere conto della letteratura dei vangeli.

Tra le altre cose, l’analisi della morfologia e della semantica dei contributi neotestamentari sembra confermare la nostra tesi.

Mc 14, 44

Δεδώκει δὲ ὁ παραδιδοὺς αὐτὸν σύσσημον αὐτοῖς (Dedòkei de ho paradidoùs autòn sssemon autòis)

Dederat autem traditor eius signum eis

Colui che lo tradiva aveva dato loro un segno

Mt 26, 21

Ἀμὴν λέγω ὑμῖν ὅτι εἷς ἐξ ὑμῶν παραδώσει με (Amèn lègo hymìn òti ex hymòn paradòsei me)

Amen dico vobis quia unus vestrum me traditurus

In verità, vi dico che uno di voi mi tradirà

Lc 22, 48

Ἰούδα, φιλήματι τὸν υἱὸν τοῦ ἀνθρώπου παραδίδως; (Ioùda, philèmati ton yiòn tou anthròpou paradìdos)

Iuda, osculo Filium hominis tradis?

Giuda, con un bacio, tu tradisci il figlio dell’uomo?

La narrazione dei Settanta, come si può vedere, è costruita interamente sul verbo παραδίδωμι (paradìdomi), consegno, trasmetto, tramando e, soprattutto, in considerazione del focus narrativo, consegno per tradimento. Ciò che, tuttavia, dobbiamo esaminare con particolare attenzione è la morfologia di questo verbo, del quale il latino trādĕre accoglie morfema radicale e significati. Παραδίδωμι, infatti, dev’essere suddiviso in almeno tre componenti: la preposizione παρα-, che, nella glossa del verbo, diventa prefissoide, il raddoppiamento δι- e la radice do- / δω-. Abbiamo omesso solo la desinenza μι. Osservando questa tripartizione, non possiamo fare a meno di riconsiderare la radice indoeuropea *dō-/də (donare) quale nucleo storico-etimologico del tradire. La letteratura degli evangelisti, tuttavia, presenta una compattezza e una coerenza che, invece, si perde nella Vulgata. Marco scrive ὁ παραδιδοὺς (ho paradidoùs, colui che tradiva), ricorre cioè a un participio presente sostantivato la designazione del cui tempo è giustificata dal piuccheperfetto δεδώκει (dedòkei, aveva dato). San Girolamo rende il participio presente παραδιδοὺς con trādĭtŏr, concedendosi una licenza che, in parte, viola la fonte e, per certi aspetti, viene meno al senso originario del tramandare. Qualcosa di simile accade col vangelo di Matteo, dove troviamo un futuro indicativo attivo παραδώσει (paradòsei, tradirà), che, nel testo latino, diventa traditurus, cioè perifrastica attiva introdotta dalla congiunzione subordinante causale quia. Di fatto, qui, quia regge un’oggettiva, ma bisogna dire che tale procedimento sintattico è un po’ anomalo. Traditurus (est) equivarrebbe a “sta per tradirmi” e non a “mi tradirà”, per quanto, in questo caso, si possa essere liberi da una norma rigida. Tuttavia, la scelta del redattore greco, con riferimento all’oggettiva, è chiara e lineare: ὅτι (hòti), seguito da un tempo principale. Diverso è il caso della pericope lucana, che viene rispettata pienamente: il presente indicativo attivo παραδίδως (paradìdos) è tradotto fedelmente con tradis. Ciò che noi, oggi, leggiamo come tradire è, anzitutto, un consegnare al nemico, anche se si tratta di un consegnare con l’inganno. Insomma, dato che, sia nella letteratura greca sia in quella latina, la significazione è composita e, in quanto tale, è confermata da numerose occorrenze e dal presupposto radicale, pare impropria, come abbiamo fatto notare in precedenza, la separazione netta tra un’accezione e l’altra, laddove sarebbe molto più logico e naturale seguire il percorso pragmatico fatto dai parlanti.

È evidente, da ultimo, che l’instantia crucis – ci sia concessa l’espressione baconiana! – proviene dalla narrazione evangelica e da un verbo su cui è stata costruita una specie di calco: παραδιδόναι (paradidònai) consegnare, dare in mano, abbandonare, rimettere, cedere, tramandare, trasmettere, consegnare.

Nell’italiano contemporaneo, pur se di registro elevato e specialistico, è ancora contemplato il participio aggettivale tràdito, con cui ci riferiamo a un manoscritto tramandato, trasmesso (GDLI). Pur essendo desueto e, di conseguenza, privo di occorrenze note, questo termine costituisce una limpida testimonianza circa il valore duplice del verbo trattato (trādĕre) e dell’uso che se n’è fatto. Allo stesso modo, il sostantivo tradizione, che, oggi, è largamente adottato dai più e ha il significato di “trasmissione nel tempo, alle generazioni successive, di memorie, notizie, testimonianze e anche evidenze, opinioni, usi e costumi”, come scrive il Battaglia (GDLI), appartiene alla stessa famiglia semantica di trādĕre, essendone, in origine, il nome d’azione. Nell’italiano antico, diversamente e non a caso, tradire ha, all’indicativo presente, anche la forma trade, oltre alla forma tradisce. Ciò che può sorprendere il lettore comune è il fatto che trādĕre si specializza concretamente nel significato di tramandare. Quando Dante, nell’Inferno (XI, 66), scrive “qualunque trade in etterno è consunto”, la forma trade rappresenta ormai l’evoluzione netta del significato: dall’originario consegnare al prevalente tradire. L’uso di trade, che noi potremmo riformulare con tradisca, è giustificato dal fatto che, in italiano, esiste una categoria di verbi, cosiddetti incoativi, che presentano un ampliamento mediante suffisso -isc, ma che, nella propria coniugazione, ammettono anche forme senza ampliamento. Ne sono un esempio applaudire, assorbire, inghiottire et similia. Naturalmente, questo non può indurci a credere che oggi sia ammesso dire trado al posto di tradisco. Possiamo dire, invece e con maggiore precisione, che alcuni verbi hanno mantenuto il doppio morfema grammaticale, mentre altri, come trade o pera [“pèra lo stolto cinico che frenesia ti chiama!” (ARIOSTO, L., Orlando furioso, IV, 59) lo hanno perduto)].

L’ambiguità che sembra attraversare la ‘cronistoria’ della famiglia semantica in questione, pertanto, è solo apparente e può essere facilmente riscattata con un particolareggiato riesame dell’etimo e del modo in cui l’elemento radicale s’è sviluppato all’interno degl’idiomi romanzi. Infatti, a fronte del nostro concetto di tradizione, per esempio, è agevole rintracciare un’occorrenza di Agostino in cui il sostantivo equivale a tradimento e, in ciò stesso, rappresenta un’inconfutabile apertura alla tarda latinità o, meglio, a un modus protoromanzo.

Quo modo ergo crimen traditionis nobis obicitis, quod non probatis, et schismaticos vestros et damnatis et acceptatis? [In qual modo dunque rinfacciate a noi la colpa di tradimento, che non (potete) provare, mentre accogliete quelli ch’erano dissidenti da voi e condannati? (AGOSTINO, Epistulae, 76, 4, trad. nostra, a cura di A. Goldbacher, 1895, F. Tempsky, Praga / F.  Tempsky, Vienna / G. Freytag, Lipsia, p. 328)].

 A proposito della summenzionata apertura al modus protoromanzo, riportiamo un frammento del XIII secolo delle leggi di re Alfonso X in cui il redattore, in una lingua romanza, lo spagnolo, usa traycion, allineandosi indirettamente al registro agostiniano.

Laesae majestatis crimen, tanto quiere dezir en Romance come yerro de traycion, que faze omo contra la persona del Rey [Il crimine di lesa maestà vuol dire in lingua volgare lo stesso che colpa di tradimento, che un uomo compie contro la persona del re  (Las siete partidas del muy nobile rey Don Alfonso el Sabio, 1221-1284, tomo III, 1844, Compañía General de Impresores y Libreros del Reino, Madrid, p. 329 part. 7, titolo II, lex I)].

Qualche secolo prima, invece, traditio è intesa come donazione.

Qui res suas pro anima sua ad casam Dei tradere voluerit, domi traditionem faciat coram testibus legitimis [Chi a favore della propria anima avrà voluto donare i propri beni alla casa di Dio, faccia la donazione in casa davanti a legittimi testimoni (Karoli Magni et Ludovici pii capitula sive leges ecclesiasticae et civiles ab Ansegiso Abbate et Benedicto Levita collectae, I, 141, sumptibus Guillelmi Pelè, 1800, Parigi, p. 28)].

A poco a poco, tradire – è risaputo – è diventato il verbo simbolico degli amanti, dei fedifraghi: il mondo ha sempre temuto gli amanti, finendo col ‘trucidarli’, ma ogni essere umano, senza farsi notare, ne ha suffragato l’eterna beatitudine e, in sostanza, continua ad ammirarne l’audacia. Chi mai avrebbe il coraggio di opporsi apertamente e senz’appello a Paolo e Francesca, sebbene Dante li collochi nel cerchio dei lussuriosi?

“Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona. / Amor condusse noi ad una morte. / Caina attende chi a vita ci spense”. / Queste parole da lor ci fuor porte. (DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, I, V, vv. 103-108, a cura di N. Sapegno, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 65)

Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, due giovani dell’aristocrazia riminese, sono assurti alle cronache per essere stati eternati dai versi di Dante, che, nella Divina Commedia, li rende protagonisti del V canto dell’Inferno: essi sono condannati alla pena di essere travolti da un vento incessante che li fa agitare vorticosamente, senza che possano trovare pace e senza che possano riunirsi. Erano stati giudicati lussuriosi in vita, infatti, per essersi abbandonati a un amore adultero, a causa del quale Francesca aveva rotto la fede coniugale dovuta al marito Giovanni (detto Gianciotto) Malatesta, fratello deforme di Paolo cui era stata maritata dalla famiglia contro la propria volontà. L’autore ce li dipinge intenti a leggere le avventure di Ginevra e Lancillotto e, in particolare, l’episodio di un bacio, che aveva indotto i due giovani a fare altrettanto, disvelando così il reciproco amore. Scoperti da Gianciotto, i due giovani erano stati assassinati. Si tratta di una vicenda che, all’epoca, fece molto scalpore e che sicuramente dovette impressionare Dante, per diversi motivi. Innanzitutto, egli aveva avuto modo di conoscere direttamente Paolo Malatesta, quando questi era molto giovane. Ma, soprattutto, per Dante, la vicenda era paradigmatica e indicativa dell’effetto funesto che può avere il sentimento amoroso, se vissuto fuori della moralità.

Non gode della stessa fama la relazione tra Rainer Maria Rilke e Lou Salomè, ma è anch’essa caratterizzata dal cosiddetto tradimento, pur se ciò avviene in circostanze diverse da quelle descritte in precedenza. Si conobbero a Monaco nel 1897, quando il poeta aveva solo ventidue anni; di ben quattordici anni più grande lei, che era già stata l’amante platonica, contemporaneamente, di Friedrich Nietzsche e Paul Ree e aveva all’attivo il matrimonio con lo studioso di lingue orientali Friedrich Andreas. Con Rilke, Lou scoperse non solo l’amore intellettuale, ma anche quello sensuale, rimanendo coinvolta in una passione cocente e in cui nessuno dei due tenne minimamente conto della differenza di età e di status. Al rientro da un viaggio di quattro mesi in Russia, la passione si spense e Lou decise di lasciare pure Rilke, che sviluppò, in seguito alla separazione, una profonda depressione. A lei, che sarebbe rimasta comunque per sempre il punto di riferimento dello scrittore, Rilke, poco dopo, dedicò le Elegie duinesi.

Nell’ambito dei presunti tradimenti, non si può fare a meno di citare una coppia di grande audacia amorosa: Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. Si tratta di due icone della cultura del Novecento: è indiscutibile. Sartre e la Beauvoir vissero una grande storia d’amore, all’insegna d’un matrimonio fondato, sì, sull’ammissione del tradimento, ma, nello stesso tempo, sull’assoluta lealtà: il loro amore era ‘necessario’, a differenza degli altri, che rimanevano ‘contingenti’. Fu un’unione duratura, che li vide legati per cinquant’anni. Anche la morte li vede vicini, visto che riposano ambedue nel cimitero parigino di Montparnasse.

Nel concludere questa breve rassegna simbolica su ‘amore e tradimento’, che, come si può notare, non è affatto retta da un meccanismo di causa ed effetto, mantenendo, al contrario, talora, un’insondabile complessità emotivo-affettiva, vogliamo raccontare, in breve, la storia di Giulia, adultera, sì, ma principalmente vittima del proibizionismo dell’augusto padre. Un punto fondamentale del progetto politico di Augusto fu la restaurazione del mos maiorum, del costume avito dei Romani, che era fondato sulla rettitudine morale e sull’impegno civile. Per realizzare ciò, Augusto – tranne che a sé stesso; sono arcinoti i suoi rapporti adulterini – non fece sconti a nessuno, nemmeno alla figlia, che fece le spese della severissima Lex Iulia de adulteriis coercendis, pagando con l’esilio e col successivo isolamento che la condusse alla morte il fatto che ella intratteneva relazioni al di fuori del matrimonio. La legge contro l’adulterio, assieme alla Lex Iulia de maritandis ordinibus, che obbligava gli uomini a contrarre matrimonio e a contrarlo con donne di pari livello sociale, doveva frenare la corruzione dilagante di molti aristocratici, i quali conducevano nei loro lussuosi palazzi una vita dissipata, tra i piaceri sessuali offerti dalle serve, di fatto vere e proprie concubine. A questi piaceri si davano spesso anche le matrone romane, con quelli che, ufficialmente, erano schiavi di casa. Tuttavia, nel caso di Giulia, la situazione era ben diversa: fin da bambina, ella aveva fatto parte degli strumenti di governo del padre, che l’aveva maritata a questo e quello per consolidare il proprio potere. Nel 21 a.C. Giulia fu costretta a sposare il fidato uomo di Augusto, Agrippa, di venticinque anni più grande di lei. A questo tempo risalgono i primi tradimenti della giovane, che cercò conforto, tra l’altro, tra le braccia di un certo Sempronio Gracco (ne parla Tacito, Annali, I, 53) e, forse, anche del fratellastro Tiberio, figlio della terza moglie di Augusto, Livia Drusilla, di cui, alla morte di Agrippa, divenne moglie. I tradimenti le costarono presto l’arresto da parte del padre (che, nel frattempo, aveva scoperto una congiura nei propri confronti da parte della figlia) e la condanna al confino nell’isola di Ventotene. La sorte non fu benigna per Giulia neanche al ritorno dall’esilio, quando ella concluse la propria vita di stenti, isolata, per volere di Tiberio, in una stanza di palazzo.

Ciò che ci permette di parlare ininterrottamente del valore delle parole e dei loro legami simbolici, ancora una volta, giace sul fondo della parola stessa, non altrimenti che se subissimo, indirettamente e piacevolmente, la coazione a concepire l’inevitabile e imperscrutabile metalinguaggio del sistema della lingua, un’asimmetria semantico-morfologica di cui, in genere, ci capacitiamo a stento e di cui non possiamo fare altro che meravigliarci. Il termine di questo fondo locutivo, che ci regge e ci avvolge, questa volta è tradizione, che possiede la valenza positiva del verbo latino trādĕre, cioè trasmettere, consegnare. Tradizione è infatti trasmissione, da una generazione all’altra, di un complesso di memorie, notizie e testimonianze. Dobbiamo ringraziare la tradizione se ci è giunta materia di usi e costumi, d’invenzioni e istituzioni, di opere che ci hanno resi ciò che siamo oggi: si tratta di un processo per nulla immanente, nel quale, mentre ereditiamo dei ‘saperi’, acquisiamo la capacità di modificare le cose, approfondirle, rivederle, migliorarle, in un continuo gioco di rimandi al passato che è presupposto fondamentale per inoltrarsi con successo nel futuro.

La scienza che si occupa di ricostruire, tramandare e trasmettere i testi letterari per riconsegnarceli il più possibile fedeli ai rispettivi originali è la filologia. Il termine, che letteralmente significa “amore per la parola” è usato per la prima volta, proprio con questo significato, da Platone (Fedro, 236e; Teeteto, 161a; Lachete, 188c). La filologia, in tal senso, è certamente ed essenzialmente scienza della parola, ma essa, specializzandosi, mira sempre di più a ricostruire e cogliere non solo e non tanto le parole dei testi, ma soprattutto, attraverso di esse, lo spirito da cui tali parole hanno tratto origine, dandoci quindi conto del clima, dell’ambiente e del contesto in cui le opere sono nate. Si può affermare che nacque nel III secolo a. C. ad Alessandria d’Egitto, quando, ormai pressoché esaurita la grande vena scrittoria dei secoli passati, si sentì il bisogno di riprendere e studiare tutta la grande produzione precedente. Nella grande biblioteca di Alessandria, sorta per volere di Tolomeo II Filadelfo e contenente tra i 500.000 e i 700.000 rotoli, si alternarono, tra III e II secolo a. C., grandi personalità che ne furono i bibliotecari, nonché grandi studiosi, quali Zenodoto di Efeso, Apollonio Rodio, Eratostene di Cirene, Aristarco di Samotracia. Essi, partendo dal materiale che avevano a disposizione, studiarono i caratteri linguistici e stilistici degli scrittori, cercando di ‘ripulire’ i loro testi dalle alterazioni subite nei secoli. Così, furono passati in rassegna Omero, Pindaro, Anacreonte e molti altri scrittori dei secoli precedenti. La pratica filologica proseguì e migliorò tra Alessandria e Pergamo, finché essa non passò anche a Roma, nel II secolo a. C., dando vita a fiorenti studi, che proseguirono ininterrotti fino al Medioevo. Fu questo un periodo critico per la conservazione dei testi classici e ciò per varie ragioni:

  1. Tra II e IV secolo si era verificato il passaggio definitivo dal rotolo di papiro alla pergamena piegata in fogli: ciò aveva determinato un grande impegno di copiatura, che lasciò fuori molte opere, per le quali si ritenne non valesse la pena di fare tanta fatica. Inoltre, le invasioni barbariche determinarono un forte rallentamento del lavoro di copiatura e rimasero in circolazione, per lo più, solo i codici realizzati in precedenza. Ancora, nei casi in cui l’opera di ricopiatura dei classici continuò, si ricorse spesso, per economizzare sulla costosa pergamena, all’uso dei cosiddetti palinsesti (da palin, di nuovo + psào, raschio), ovvero codici di pergamena già usati, che venivano raschiati e riutilizzati. Così, per esempio, andarono persi codici di Plauto, Terenzio, Seneca e tanti altri.
  2. Un’ulteriore selezione di opere si fece quando, tra VIII e IX secolo, dietro impulso della rinascita culturale avviata da Carlo Magno, molte ne furono ricopiate nella nuova scrittura minuscola, la carolina (che sostitutiva la più difficile maiuscola onciale e semionciale, caratterizzata dall’assenza di separazione tra le parole) e altre ne furono condannate all’oblio (soprattutto quelle che non si confacevano allo spirito cristiano della civiltà carolingia e alle esigenze della scuola). Oltre all’incessante lavoro di ricopiatura dello scriptorium della Schola palatina, va registrata l’opera altrettanto solerte degli scriptoria dei monasteri carolingi, come Tours, Fleury, san Gallo et cetera.
  3. L’ultimo ‘taglio’ alla cultura classica si ebbe tra XV e XVI secolo, con il definitivo passaggio dal libro manoscritto a quello stampato.

La definitiva fortuna dei classici si ebbe, comunque, già a partire dal Duecento, grazie all’opera di studiosi quali Lovato Lovati, Zambono di Andrea, Albertino Mussato; essa si consolidò, nel corso del Trecento, con Petrarca e Boccaccio, che fecero dello studio dei classici e del recupero testuale un’attività sistematica. Dobbiamo a Petrarca, per esempio, la scoperta, forse nel 1345 a Verona, delle epistole di Cicerone Ad Atticum, Ad Brutum e Ad Quintum fratrem o, ancora, la scoperta dell’orazione ciceroniana Pro Archia nel 1333 a Liegi. Fu poi Boccaccio a scoprire Marziale, Tacito, la Pro Cluentio di Cicerone e il De lingua latina di Varrone. Coluccio Salutati, nel 1392, scoprì, in un codice della Biblioteca capitolare di Vercelli, le Familiares di Cicerone e il più antico codice di Tibullo. Nel Quattrocento, quando l’affermarsi di quel nuovo modo di concepire la vita che va sotto il nome di Umanesimo fece sì che si sentisse ulteriormente il bisogno di riscoprire e studiare i classici, si toccò l’apice dell’attività di ricerca e scoperta di essi: Poggio Bracciolini rinvenne, nel monastero di San Gallo, l’Institutio oratoria di Quintiliano e un’epitome di Vegezio, mentre nel monastero di Fulda rinvenne il De rerum natura di Lucrezio, i Punica di Silio Italico, le Historiae di Ammiano Marcellino e il De re coquinaria di Apicio.

Potremmo ancora continuare a lungo, ma crediamo di aver reso bene l’idea dell’importanza che ha rivestito il bisogno, sentito da parte di uomini illuminati, di ricercare, studiare, conservare e trasmettere ai posteri un patrimonio immenso, nonostante esso rappresenti solo una minima parte di ciò che l’antichità ha prodotto e tutto il resto sia stato condannato alla perdita e, di conseguenza, all’oblio. Questa è tradizione.

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