Donna, non più femmina: semantica della desessualizzazione

Se ti è piaciuto, condividi!

col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

1. Il martello delle streghe

Nella sola Germania del XVII secolo, vennero giustiziate per stregoneria circa centomila donne (LENTINI, S., 2016 ). Le cifre sono spaventose e inaccettabili per il lettore contemporaneo, specie se si considera che, in quel periodo, le donne rischiavano d’essere ‘processate’ e uccise pure per delle presunte qualità intellettuali. Vien fatto di chiedersi, ex abrupto, che s’intenda per “qualità intellettuali”, giacché è verosimile che, sulle prime, logica e coscienza non ci consentano di elaborare una pragmatica di pertinenza. In sintesi, una donna che avesse osato mostrare d’avere studiato sarebbe stata giudicata non solo una possibile alleata del diavolo, ma anche, addirittura, una sua amante. La sua condotta sarebbe stata irrevocabilmente segnata dall’eresia e la sua sorte altrettanto irrevocabilmente dal rogo. Il sostantivo eresia, oggi, è usato esclusivamente per indicare un’ideologia o un comportamento contrari a quelli ammessi e, di conseguenza, approvati dai più, ma il suo significato d’origine è sostanzialmente diverso: in greco, il deverbale αἵρεσις (hàiresis) vuol dire scelta, mentre il verbo da cui si genera, αἱρέω (hairèo), scegliere, per l’appunto. In un contesto di verità rivelate e ‘istituzionalizzate’, per così dire, dalla chiesa cattolica, una scelta che non fosse ortodossa, cioè che non rientrasse nel dominio dell’ὀρθή (orthè, retta) δόξα (dòxa, dottrina), poteva rivelarsi esiziale. Se, per postulato e presupposto teo-paolino, la donna era inferiore all’uomo, ogni attestazione contraria diventava elemento d’inquisizione.

In precedenza, con cognizione di causa, abbiamo usato il verbo “istituzionalizzare”, anticipando indirettamente un provvedimento con cui, nel basso medioevo, un papa riconobbe la necessità di combattere e sopprimere ogni forma di eresia e stregoneria con tutti gli strumenti di cui disponevano gl’inquisitori. In pratica, si trattò d’un mandato senza limiti. In particolare, il 5 dicembre 1484, Innocenzo VIII promulgò la bolla pontificia Summis desiderantes affectibus, titolo che potrebbe trarci in inganno. Coloro che desiderano con supremi sentimenti, infatti, n’è una resa italiana dalla quale siamo costretti ad apprendere che certi omicidi, per il clero di quegli anni, erano atti d’amore: è inutile ricorrere a perifrasi o eufemismi per cimentarsi in una diversa ermeneutica della miseria umana. Leggendo un frammento del documento summenzionato, ci rendiamo conto che il papa è risoluto e implacabile nel parlare di una malvagità che può causare la rovina degli innocenti (in perniciem aliorum innocentium

Nos igitur impedimenta quaelibet, per quae ipsorum inquisitorum officii executio quomodolibet retardari posset, de medio submovere, et ne labes haereticae pravitatis aliorumque excessuum huiusmodi in perniciem aliorum innocentium sua venena diffundat [Noi, pertanto, togliamo di mezzo qualunque impedimento, per il quale possa in qualsivoglia modo essere ritardata l’azione dell’ufficio di tali inquisitori e affinché il flagello della malvagità eretica e degli altri eccessi di questo tipo non diffonda i propri veleni a danno di altri innocenti (Bullarum diplomatum et privilegiorum sanctorum romanorum pontificum, Taurinensis editio, tomus V, trad. nostra, 1860, Franco ed Enrico Dalmazzo editori, Augusta Taurinorum, pp. 296-298)]

Nella prima parte della bolla, invece, vengono introdotte due figure decisive nella lotta contro la stregoneria: sono quelle di Jacob Sprenger e Heinrich Institoris, due domenicani ai quali fu data materialmente carta bianca, come si suol dire, tanto che tutti coloro che ne avessero contrastato l’agire sarebbero stati scomunicati. Sprenger e Institoris, qualche anno dopo, nel 1487, pubblicarono il Malleus Maleficarum (Il martello delle streghe), un trattato in cui teorizzarono una vera e propria prassi persecutoria e tentarono di dimostrare il legame diretto tra l’eresia della stregoneria e la donna. Gli uomini erano addirittura minacciati nella propria capacità riproduttiva dalle streghe: nell’opera, si trovano molti passaggi dedicati alla descrizione del modo in cui le streghe si adoperavano per privare gli uomini della loro capacità genitale o per staccarne il membro e altrettanti passaggi in cui elargiscono rimedi contro tali aggressioni. Infedeltà, ambizione e lussuria erano i tre vizi dominanti nel genere di donne che con maggiore facilità potevano essere accusate di stregoneria. 

Nam lex divina in plerisque locis praecipit maleficas non solam esse vitadas, sed etiam occidendas, eiusmodi poenas non imponeret si non veraciter et ad reales effectus et laesiones cum daemonibus concurrerent..  Nam Deutero. Praecipitur omnes maleficos et incantatores interfici, Levitici etiam dicitur… [(Infatti, la legge divina prescrive in più punti non solo di evitare le streghe, ma anche di ucciderle e non imporrebbe pene di questo genere se le streghe non collaborassero veramente con i diavoli nel provocare effetti e danni reali… Infatti, il Deuteronomio prescrive di uccidere tutti coloro che operano stregonerie o incantesimo e questo è detto anche nel Levitico (Sprenger, J., Malleus maleficarum in tres divisus partes, a cura di Raffaele Maffei, 1576, G. A. Bertano, Venezia, pp. 3-4, trad. it di A. Verdiglione, 2003, in Il martello delle streghe, La sessualità femminile nel “transfert” degli inquisitori, Spirali, Milano, pp. 33-34)

Nel XV secolo, di fatto, l’annientamento del carattere sessuale della donna e la sua relativa demonizzazione erano già fenomeni bell’e compiuti. Il nucleo semantico di fēmĭna era stato svuotato per sostituzione: il ricorso al termine donna quale derivato del tardo latino dŏmna, per i letterati dell’epoca, era stato strumentale, per così dire; essi, in altri termini, ossessionati dal timore della dannazione e dal peccato della carne, ricostruirono, attraverso un modello linguistico, una figura femminile pura e impalpabile. Di conseguenza, l’uso di donna sopravanzò quello di femmina, generando, col tempo, quel proposito spregiativo che tutti noi oggi attribuiamo a chi dica femmina in luogo di donna. Dalla poesia trobadorica in lingua d’oc e dal romanzo cortese-cavalleresco fino al Dolce stil novo e a Dante, il desiderio sessuale divenne oggetto di costante smaterializzazione, cui gli autori giunsero mediante febbrili e, talora, quasi maniacali meccanismi di sublimazione.

(…) E par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare (DANTE ALIGHIERI, Vita nova, XXVI, 7-8, in Dante Alighieri Opere minori, tomo I, parte I, a cura di D. De Robertis e G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 182)

Ogni accenno al corpo femminile e ogni rimando alla sessualità sarebbero stati da concepirsi come abomini e il reo si sarebbe dovuto spedire nel secondo cerchio dell’inferno, dove sono puniti “i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento” (DANTE ALIGHIERI, Inferno, V, 38-39, a cura di N. Sapegno, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli, p. 57). Inaspettatamente, con Petrarca, si documenta il primo vero e lacerante conflitto interiore, a causa del quale il poeta, pur ereditando quasi in modo ancestrale il sembiante angelicato della donna, non riesce a rinunciare del tutto almeno a nominarne le parti: “belle membra” (Canzoniere, CXXVI, 2) “bel fiancho” (Ibid., 6), , “gonna leggiadra” (Ibid., 7-8), “angelico seno” (Ibid., 9), “begli occhi” (Ibid., 11), le “treccie bionde” (Ibid., 47) sono tutte espressioni che troviamo in un solo componimento, Chiare, fresche et dolci acque, e che testimoniano dell’ossessione per il corpo che fino a qualche anno prima un poeta non avrebbe mai osato mettere per iscritto. Laura non perde il canone assegnato alla donna dallo Stilnovo, ma è, per certi aspetti, spiata, osservata da un punto oscuro, quasi di nascosto. Non a caso, nella convulsa teatralità dialogica del Secretum, Petrarca è chiamato a rispondere alle aspre e pungenti domande di Agostino, il quale lo rimprovera di non avere potuto raggiungere livelli ben più alti in fatto di morale e cultura proprio a causa della presenza femminile, considerata una distrazione. Quando il poeta dichiara di avere amato Laura d’un amore puro, Agostino arriva a tacciarlo pure di falsità e a fargli notare limpidamente che la fisicità femminile lo ha sopraffatto. Da ultimo, Agostino, in un drammatico crescendo, muove contro Francesco una delle peggiori accuse che si potessero formulare in quel periodo: egli avrebbe amato Dio non in quanto creatore universale, ma in quanto creatore di Laura.

FRANCESCO: Usa qualche argomento più convincente, se l’hai, ché con siffatti discorsi non mi spaventerai mai. Io non ho punto fermato l’animo, come tu credi, a un bene mortale; e sappi che io non ho amato tanto il corpo quanto l’anima sua, dilettato da quei costumi che superano l’umana condizione, dal cui esempio mi figuro come si viva tra gli angeli. Adunque se colei morendo prima (il solo udirlo mi trafigge!) mi lasciasse, tu mi chiedi che farei? Conforterei il mio dolore come Lelio, il più saggio dei Romani: “di lei amai la virtù, che non è spenta”. Questo direi e l’altre considerazioni che intendo ch’egli ha fatte, dopo la morte di colui che aveva amato di sì meraviglioso amore (FRANCISCUS: Siquid habes efficacius profer; nunquam hoc me sermone terrueris; neque enim, ut tu putas, mortali rei animum addixi; nec me tam corpus noveris amasse quam animam, moribus humana transcendentibus delectatum, quorum exemplo qualiter inter celicolas vivatur, admoneor. Itaque si – quod solo torquet auditu – me prior moriens illa desereret, quid agerem interrogas? Cum Lelio, romanorum sapientissimo, proprias miserias consolarer: «Virtutem illius amavi, que extincta non est». Hec dicerem, atque alia que illum dixisse audio post eius interitum, quem miro quodam amore dilexerat).

AGOSTINO: Ti serri in un’inespugnabile rocca di errori, donde non è piccola fatica snidarti. E poiché io ti veggo così invasato da ascoltare molto più pacatamente quanto con franchezza io sia per dire di te, che non ciò che dica di lei; colma pure la tua piccola donna di quante lodi vorrai: non ti contraddirò in nulla: sia pur una regina, una santa, sia anzi “una dea, o la sorella di Febo o una della stirpe delle ninfe”: tuttavia la sua grande virtù non gioverà minimamente a scusarti dell’errore [AUGUSTINUS: Inexpugnabili erroris arce consistis, unde te deicere non otiosus labor est. Et quoniam ita te affectum video, ut multo patientius auditurus sis quicquid de te, quam quod de ipsa liberius dicetur; mulierculam tuam quantalibet laude cumules licebit; nichil enim adversabor: sit regina, sit sancta, sit dea certe an Phebi soror, an nimpharum sanguinis una. Ingens tamen eius virtus minimum tibi ad excusationem erroris conferet (Petrarca, F., Secretum, in Prose, a cura di G. Martellotti, P. G. Ricci, E. Carrara, E. Bianchi, 2006, Ricciardi, Milano-Napoli)]

Per noi, potrebbe apparire singolare la scelta terminologica di Boccaccio, che nella sesta giornata di narrazione del Decameron (novella 10, Frate Cipolla), scrive: “Signori e donne – non Signori e signore, come ci aspetteremmo –, come voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno a’ poveri del baron messer santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade” (BOCCACCIO, Decameron, VI, 10, in Decameron Filocolo Ameto Fiammetta, a cura di E. Bianchi, C. Salinari e N. Sapegno, 2004, Ricciardi, Milano-Napoli p. 452)

Come abbiamo detto, donna, con la variante aulico-spirituale madonna, forma univerbata di mea domina utilizzata per donne di alto lignaggio o, al culmine della propria valenza, anche per la Vergine-Madre, proviene dalla voce tardo latina domna, che, a propria volta, è forma sincopata di domină, ovverosia signora, padrona, moglie, sposa. Il suo corrispondente greco è δέσποινα (dèspoina), che fa riferimento a un ruolo sociale e giammai alla sessualità femminile, anche quando esso sia contrapposto al ruolo dell’uomo-signore-padrone (δεσπότης, despòtes) per intendere la diversificazione fisica tra i due generi. La radice che accomuna entrambe le voci è, naturalmente, indoeuropea e presenta una particolare fecondità semantica: *dem-, con le relative apofonie *dom-, *dṃ- > *dam-, da cui, in italiano, si hanno, per esempio, domestico, domenica, duomo, domicilio, dominare, donna, dama, madonna, donnola, addomesticare, predominare, despota, adespota.

Madonna, dir vo voglio, / como l’amor m’à priso / inver lo grande orgoglio / che voi, bella, mostrati, e no m’aita. (GIACOMO DA LENTINI, 1, 1-4, in Poeti del Duecento, tomo I, a cura di G. Contini, 2004, Ricciardi editore, Milano-Napoli, p. 51)

Poiché domină è denominale costruito su domŭs e domŭs (casa, abitazione), almeno da un punto di vista fono-morfologico, ci rimanda al greco δόμος (dòmos), il legame tra la donna e la casa sembra scontato, oltre che immediato. E così è, per carità. Tuttavia, qui, occorre fare delle precisazioni, per le quali ci rifacciamo al lavoro di Benveniste (1969), secondo il quale, mentre il greco δόμος avrebbe valenza esclusivamente materiale, nel senso di abitazione, domŭs, invece, avrebbe connotazione prettamente sociale e morale, non indicando quasi mai un edificio. Esso, infatti, si adotta nel senso di famiglia e, in ciò, corrisponderebbe, piuttosto, al greco οἶκος (òikos) / οἰκία (oikìa). Il termine latino indicante la casa come costruzione è aedēs.

Tartareum ille manu custodem in vincla petivit, / ipsius a solio regis, traxitque trementem; / hi dominam Ditis thalamo deducere adorti [(Di sua mano quello (scil. Ercole)  mise in catene il custode del Tartaro / e lo portò via tremante dal suo trono / questi  (scil. Piritoo e Teseo) tentarono di rapire la padrona di Dite (scil. Proserpina)  dalla stanza nuziale (VIRGILIO, Eneide, vol. I, (II. I-VI), 395-397, trad. nostra, a cura di F. Della Corte e C. Vivaldi, 1990, Garzanti, Milano, p. 272)]

Un altro termine che i Greci utilizzavano per riferirsi alla donna è γυνή (ghynè): stando agli studi del linguista francese Charles Autran (1937, pp. 10-11), il termine in questione, derivato dall’indoeuropeo *gunà- (con una variante *gwena-, che ritroviamo nell’anglosassone cwen > queen, regina), risulta specializzato nel significato di donna, sposa, moglie, ma la sua origine rimane oscura. Lo studioso Catani (2017, I, pp. 43-81, II, pp. 34-96) fa un passo avanti e ci offre, forse, un’ermeneutica della sessualità occultata nella lingua. Il sostantivo γυνή, infatti, potrebbe avere una pretta valenza sessuale, visto – a detta di Catani – il chiaro rimando fonico al termine latino cunnus, vulva, che ha prodotto parecchie varianti nell’Europa romanza. Anche nell’inglese cunning, astuto, andrà visto uno spostamento semantico di cunnus, legato al fatto che alle donne è stata attribuita dai misogini di ogni tempo una natura astuta e pericolosa. Il termine latino cunnus, dunque, deriverebbe dalla stessa radice indoeuropea individuata per γυνή, che, quindi, in origine, avrebbe indicato i genitali esterni femminili. Non ammettendo questa parentela, si negherebbe, giocoforza, la semantica primitiva di γυνή e l’intera fisicità della donna.

Non (ita me di ament) quicquam referre putavi, / utrumne os an culum olfacerem Aemilio. / Nilo mundius hoc, nihiloque immundius illud, / verum etiam culus mundior et melior: / nam sine dentibus est; hic dentis sesquipedalis, / gingivas vero ploxeni habet veteris, / praeterea rictum qualem diffissus in aestu / meientis mulae cunnus habere solet. / Hic futuit multas et se facit esse venustum, / et non pistrino traditur atque asino? / Quem siqua attingit, non illam posse putemus / aegroti culum lingere carnificis? [(Non ho mai fatto seria distinzione / tra fiutare ad Emilio, lo giuro, bocca o culo. / Questo è lindo, la bocca e un’immondezza. / Tutto sommato il culo è preferibile. / Non ha denti, la bocca li ha enormi, con gengive / come vecchi cuscini di carrozza / e il riso è quello della figa aperta / di una mula che piscia in piena estate. / Molto chiavò e in più si crede bello. / E non tira la mola, neanche fa l’asinaio. / Ma quella che lo tocca, non ho dubbi / che lecchi il culo a un boia poco sano. (CATULLO, I Canti, 97 a cura di E. Mandruzzato e A. Traina, 1997, BUR, Milano, pp. 392-393)]

Se dunque esisteva un termine per indicare la donna dal punto di vista fisiologico, termine che infatti ritroviamo, in italiano, nei prefissoidi e nei suffissoidi di lemmi come ginecologo, misogino, androgino, che rimandano tutti all’ambito della sessualità femminile, perché non se n’è tenuto conto nella ‘creazione’ di un lemma romanzo che indicasse la donna anche nella propria specificità di genere?

2. L’archetipo nella lingua: coscienza della Grande Madre

Assumendo un altro criterio di revisione, potremmo, in qualche modo, tentare di rispondere alla domanda che abbiamo posta, pur conoscendo il resoconto storico. Basta fare un accenno ai ripetuti stupri e agli atti di violenza che l’Olimpo commetteva ai danni delle fanciulle greche per comprendere quanto fosse sentito spossante l’influsso del grembo. Infatti, se la Vergine-Madre e la greca Sophìa rappresentano idealmente le figure della Madre buona, che dà protezione, dona estasi, ispirazione e visioni di trasformazione spirituale, per converso, Lilith, Astarte e Circe, iniziando l’uomo ai misteri dell’ebbrezza, esigono sangue, provocano impotenza, follia e dissoluzione, pretendono privazione. Lilith è – per dirla con Isaia, che la indica come civetta (Is 34, 14) – il demone femminile che vaga tra le rovine; a lei le varie mitologie, da quella ebraica a quella mesopotamica, attribuiscono tutti gli aspetti deteriori dell’identità femminile. Il carattere trasformatore negativo, comune alle tre dee, è inesauribile e incontrastabile. Sullo stesso piano si possono interpretare le Madri terribili, Kali, Ecate e Gorgone, dalle quali l’uomo viene attratto, avvinto, smembrato e divorato: malattia e morte sono i loro contrassegni simbolici. Ad intuirne la natura si pensi alla più nota delle tre, la Gorgone Medusa. Si legga la descrizione che ce ne dà Robert Graves:

(…) Un mostro alato con occhi fiammeggianti, denti lunghissimi dai quali sporgeva la lingua, unghielli di bronzo e capelli di serpenti: il suo sguardo faceva impietrire gli uomini. (GRAVES, R., 1955, p. 113)

L’uomo, soffocato dalla totalità del grembo, sulle prime, è avvinghiato dal Serpente ouroborico che si morde la coda. Si tratta, come scrive Neumann (op. cit.) dell’archetipo primordiale, sostanza della nostra memoria creativa, in cui positivo e negativo, maschile e femminile, buono e cattivo, si trovano caoticamente uniti, inaccessibili allo sforzo della coscienza, che invano tenta di interpretarli. L’οὐροβόρος (ourobòros), cioè la schiacciante circolarità del caotico inizio, è materno in quanto gravido di tutti gli elementi che muovono l’esistenza. Le più considerevoli testimonianze della significatività cultuale e simbolica del ruolo femminile ci sono state tramandate in pitture rupestri e risalgono all’età della pietra, epoca in cui il dominio del ruolo femminile era istituzionalizzato – verbo che ritorna, non a caso – da una società matriarcale. Una delle caratteristiche fondamentali di queste pitture era la steatopigìa, cioè l’abbondanza del sedere volta a descrivere la forza con cui la donna si lega alla terra in segno della capacità di generare e possedere. La natura cultuale di questo legame è già principio e fine di sicurezza e stabilità.

La nascita viene esperita non solo come liberazione verso la vita, ma anche come un rifiuto espulsivo dal paradiso uterino, la coscienza viene esperita non solo come sviluppo progressivo e come affermazione di vita tendente verso la luce, ma anche espulsione dalla beatitudine notturna del sonno nell’inconscio e – come in tutte le cosmologie di tonalità gnostica – perdita della patria originaria. (NEUMANN, E., 1956, p. 74)

Come la Grande Madre-Terra è fonte di vita e luce, così l’albero, che in essa si radica, è simbolo fallico dell’enorme capacità riproduttiva scaturita dalla liberazione. Quanto più l’uomo anela alla libertà e al distacco dal grembo – quindi: quanto più egli riconosce le differenze senza rispecchiarsi nell’identità originaria – tanto più essa lo trattiene, lo cattura e lo divora. L’autonomia della liberazione che trasmetta significati comporta che l’uomo abbandoni temporaneamente l’ambiente sicuro per farsi oggetto di attenzione e comprensione. L’Io che si comunica all’Altro è un Io che si presenta come non-Io perché, frattanto, è costretto a sottrarsi alla cattura, deve rinsaldare il legame appena costruito con una nuova terra. Ogni atto creativo dell’essere maschile è destinato a ricostituirsi nel ritorno all’essere femminile, fino a celebrare un’androginia filogenetica. Nella dimensione cristiana la Vergine-Madre è madre di colui che l’ha creata ed è, nello stesso tempo, luce in quanto luna, cioè sorgente di luce nella notte. Secondo la natura mitico-rituale dell’archetipo femminile, il maschile è capace di creazione solo perché dal grembo riceve la forza e la libertà. Così Dante scrive intorno alla contemplazione del femminino sacro:

Vergine Madre, figlia del tuo figlio / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio, / tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ‘l tuo fattore / non disdegnò di farsi tua fattura. / Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore. / Qui se’ a noi meridiana face / di caritate, e giuso, intra’ mortali, / se’ di speranza fontana vivace (DANTE ALIGHIERI, Paradiso, XXXIII, 1-12, op. cit., pp. 1183-1184)

Un esempio illuminante ci giunge dal mito di Perseo, che lo stesso Neumann ci offre ne Storia delle origini della coscienza (1949) e che qui viene reinterpretato.

L’eroe Perseo nacque, come nella migliore tradizione eroica, dal connubio tra l’umano e il divino. Danae, madre di Perseo, venne incarcerata dal padre Acrisio in una torre a guardia della quale erano stati posti ferocissimi cani perché la profezia dell’oracolo aveva avvertito lo stesso Acrisio che il nipote lo avrebbe ucciso. Ciò non bastò, tuttavia, ad impedire a Zeus di sedurre Danae posandosi su di lei come una pioggia d’oro. Di conseguenza, Acrisio, venutone a conoscenza, incarcerò per la seconda volta la donna, questa volta assieme al neonato e su un’arca di legno che venne poi gettata in mare. Presso l’isola di Serifo, il pescatore Ditti trovò l’arca e ne consegnò il contenuto, Danae e il piccolo Perseo, a Polidette, re dell’isola. Perseo, raggiunta la maturità, si vide immediatamente costretto a difendere la madre dalle pretese di Polidette, che chiedeva in sposa la donna. A un certo punto, l’eroe, lasciatosi ingannare dai loschi espedienti del re di Serifo, che finse di voler sposare un’altra donna, promise, in cambio della libertà della madre, la testa della Gorgone Medusa.

Si profilò per Perseo il primo grande cimento eroico: la Gorgone aveva per chioma un groviglio di serpenti e inoltre bastava guardarla in volto per esserne pietrificati. Gli giunsero in soccorso due divinità, Atena, che gli fornì un lucentissimo scudo, su cui, in seguito, Perseo vide il riflesso di Medusa, ed Ermes, che gli fornì la spada per decapitare la Gorgone. La conclusione del racconto è assai semplice: Perseo fece ritorno a Serifo, dove il perfido re stava banchettando del tutto dimentico della promessa e ignaro dell’inaspettato successo dell’eroe, e fu costretto a mutare tutti in pietre a causa dell’ostilità manifestatagli.

L’uomo non può guardare il volto della Gorgone, il volto dell’angoscia, non perché essa sia materia d’imperscrutabile opposizione, ma perché lo sguardo verso la materia che tutto include, se abbandonato alla totalità del principio e non significato da una presa di coscienza, segna un regresso incontrovertibile dell’Io, un suo spezzettamento.

Perseo affronta valorosamente la terribile Medusa, ma ne fissa il volto attraverso il riflesso dello scudo di Atena, la quale è simbolo della coscienza attiva dell’eroe, cui non sfugge il ricorso all’espediente. Non ingannino le presenze numinose! Esse sono solamente atti specifici della potenza  originaria di colui che rischia di ‘trarre qualcosa dalla materia’: Atena nasce dalla testa di Zeus e ciò equivale per l’eroe, così come per il parlante, a mettere in gioco il proprio Io-Sé. Tutto ciò determina anche il rischio di castrazione, cui va incontro il giovane-fallo. È bene notare che la testa è assimilabile al fallo nella valutazione del rischio: o si decapita l’angoscia-Medusa o si perde la propria testa.

La madre è l‘aspetto puramente pulsionale dell’agire e l’eroe ne assume la difesa. Perché ciò avviene? La difesa della madre non è altro che la difesa del Sé, della propria ὕβϱις (hỳbris, tracotanza, eccesso, superbia, orgoglio). Di conseguenza e per opposizione, difendere la ὕβϱις significa preservare la ragione dalla sventura dello spezzettamento. Vien fatto di chiedersi cosa possa rappresentare il perfido Polidette. Il re di Serifo è simbolo e segno del timore dell’altro. L’altro, allorché prende posto innanzi a noi, è il significante della sfida che l’agire sociale c’ingiunge di accettare.

Uno sguardo sinottico alla letteratura ci permette di elaborare una diversa chiosa conclusiva, sempre in risposta alla domanda elementare suesposta.

In talune opere, prende il nome di Gruschenka (I fratelli Karamazov), seducente ma perfida etera che sottrae all’uomo il senno con le proprie malie, o di Paolina (La pelle di Zigrino), semovente testimonianza letteraria di quell’amore che promette eternità con l’unicità della carezza; in talaltre, si chiama Beatrice, mutandosi in incrollabile sprone poetico; nella quotidianità, può manifestarsi come Vergine-Madre, interceditrice, presso l’Altissimo, dell’umano cammino di liberazione dal peccato, o può assumere l’identità di un’amante pronta ad accogliere o respingere sia la mano bisognosa del contatto sia lo sguardo manchevole del godimento della contemplazione. Chi prende nomi e si manifesta nella lingua è la Grande Madre, archetipo, originaria potenza inconscia che genera la tipicità dell’intelletto creativo contrassegnandola col simbolo dell’occorrenza sacrificale ed esigendo l’uso della lacerante parola uterina. Essa genera e nutre, ma, nello stesso tempo, affama e divora. L’individuo vivente, rispecchiandosi nel volto della Grande Madre, riconosce la propria anima e, parimenti, l’intricato inconveniente di liberarsi dalla congenita dipendenza, così da commettere il terribile omicidio, pur di sentirsi autonomo: sentirsi, non essere autonomo, nell’imprescindibile incompiutezza d’una lotta, quasi avviasse ogni giorno l’ufficio di commemorare l’inesausta necessità di percepire il dolore e la piacevole consuetudine di far fronte a esso.

Bibliografia minima

AUTRAN, C., 1937, La femme et la courtisane Suggestions pour une nouvelle étymologie du mot γυνή, Paul Geuthner, Parigi

BATTAGLIA, S., 1961-2002, GDLI (Grande Dizionario della Lingua Italiana), 21 voll., UTET, Torino

BEEKES, R., 2010, Etymological Dictionary of Greek, Ed. Brill, Leiden

BENVENISTE, E., 1969, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, trad. it. M. Liborio, 1976, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino

BOISACQ, E., 1916, Dictionnaire étymologique de la langue greque,  Librairie C. Klincksieck, Paris

CAMPANINI, G., CARBONI, G., 1995, Vocabolario Latino Italiano – Italiano Latino, Paravia, Torino

CATANI, 2017, Sugli antichi nomi per la donna, I e II, in Letteratura & Società, Pellegrini, Cosenza

CHANTRAINE, P., 1968, Dictionnaire étymologique de la langue greque, Ed. Klincksieck, Paris

CORTELAZZO, M., ZOLLI, P., 1999, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli, Bologna 

DE MAURO, T., 1999-2000, Grande dizionario italiano dell’uso, 6 voll., UTET, Torino

DE VAAN, M., 2008, Etymological Dictionary of Latin and the other Italian Languages, in Indoeuropean etymological Dictionary series, vol. 7, (a cura di A. Lubotsky), Brill, Leiden

DEVOTO, G., OLI, G. C., 1971, Dizionario della Lingua Italiana, Le Monnier, Firenze

ERNOUT, A., MEILLET, A., 2001, Dictionaire etymologique de la langue latine, Klincksieck, Paris

GRAVES, R., 1955, The Greek Myths, trad. it. di E. Morpurgo, 1963, I miti greci, Longanesi & C., Milano

GIMBUTAS, M., 1992, La ‘Venere mostruosa’ della preistoria, in I nomi della Dea Il femminile nella divinità, di J. Campbell, R. Eisler, M. Gimbutas, C. Musès, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma

LAUSBERG, H., 1969, Romanische Sprachwissenschaft, trad. it. di N. Pasero, 1976, Linguistica Romanza, Feltrinelli, Milano

LENTINI, S., 2016, La negazione del femminile al tempo delle streghe: il malleus maleficarum e la letteratura critica di Jules Michelet, in L’immaginario sociale nella tradizione della storia e della cultura europee di A. Criscenti Grassi e S. Lentini, Bonanno, Acireale-Roma

LIDDELL, H. G., SCOTT, R., 1940, A Greek-English Lexicon, a cura di Q. Cataudella, M. Manfredi, 1975 (1982), Dizionario illustrato greco-italiano, F. Di Benedetto, Le Monnier, Firenze

NEUMANN, E., 1948, Ursprungsgeschichte des Bevusstseins, trad. it di L. Agresti, 1978, Storia delle origini della coscienza, Astrolabio-Ubaldini, Roma

NEUMANN, E., 1956, Die Große Mutter, trad. it. di A. Vitolo, 1981, La Grande Madre, Astrolabio-Ubaldini editore, Roma

PRATI, A., 1951, VEI (Vocabolario Etimologico Italiano), Garzanti, Milano

POKORNY, J., 2007, Proto-Indo-European Etymological Dictionary, ed. digitale a cura di Indo-European Language Revival Association, ed. Associazione Dnghu

ROCCI, L., 1998, Vocabolario greco italiano, Società editrice Dante Alighieri, Roma

UGOLINI, G., 1992,  Lexis, Lessico della lingua greca per radici e famiglie di parole, Atlas, Bergamo

UNTERSTEINER, M., 1946, La fisiologia del mito, Bollati Boringhieri, Torino

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *