Sguardi di sventura: il trauma nelle ‘parole sussurrate’

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col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Premessa

Il nucleo di significazione di una parola, ovverosia quel processo di trasformazione degli elementi del discorso grazie al quale un parlante – o uno scrivente – può rivolgersi a un destinatario, reale o ideale, immaginando di generare un qualche legame, occasionale o stabile, è spesso rappresentato dall’azione primitiva dei popoli, dal loro modo d’interpretare gli eventi o, diversamente, dalla loro capacità di costruire determinate relazioni. La parola, in sé, costituisce uno storico insieme di senso, è un patrimonio che ereditiamo inconsapevolmente, molto da lontano. È opportuno, a tal proposito, far notare che, il più delle volte, rassicurati, come siamo, dalla convenzione e dalle abitudini, ne utilizziamo unicamente una parte superficiale, esterna, per così dire. Sono pochi, talora rarissimi, i casi in cui facciamo degli sforzi metalinguistici, che consistono nell’utilizzare la lingua proprio per capire la lingua: “un che di cervellotico” potrebbe obiettare qualcuno. Certo, la quotidianità non è fatta perché ciascuno s’impegni a spiegare ciò che si dice: noi parliamo e scriviamo; null’altro; come se la comprensione fosse un’entità autonoma, super partes e della cui validità siamo sempre persuasi. Possiamo aggiungere, addirittura, che il linguaggio quotidiano-famigliare è del tutto inidoneo a che qualcuno sovrapponga ad esso la pratica dell’esame metalinguistico.

Nonostante la superficialità con cui trattiamo la questione, superficialità della quale non siamo affatto colpevoli, essendo essa un modo filogenetico del nostro comunicare, sono numerose le indicazioni scientifiche che ci vengono date in materia di metalinguaggio. Una delle più importanti e sulla quale richiamiamo l’attenzione è sicuramente quella di Watzlawick et al. (1967), documentata in Pragmatica della comunicazione umana, in cui gli studiosi dimostrano che, talora, per uscire dal circolo vizioso di alcuni disagi è necessario l’intervento dello specialista, il quale, naturalmente, induce i protagonisti a riflettere proprio sulle parole usate o, diversamente, riformula e rielabora la loro narrazione.

Se si nota che il comportamento a sollecita il comportamento b, c, d oppure e nell’altro, mentre è evidente che esclude i comportamenti x, y e z, allora si può postulare un teorema della metacomunicazione (WATZLAWICK, P., HELMICK BEAVIN, J., JACKSON, DON D., 1967, Pragmatics of human communication A study of interactional patterns, pathologies and paradoxes, trad. it. di M. Ferretti, 1971, Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma, p. 35).

Acquisito il contributo di Watzlawick et al., proviamo a riflettere sulla funzione delle implicature conversazionali (GRICE, H. P., 1989), che, nella nostra analisi preliminare, diventano una sorta di spartiacque. Non entreremo nel merito esplicativo dell’intera lezione griceana; ci limiteremo a proporre un solo esempio. Anzitutto, è il caso di dire che le implicature conversazionali sono delle proposizioni con cui siamo soliti creare delle relazioni indirette tra le parti del discorso. Qualcosa di simile può dirsi per le implicature convezionali, che qui, tuttavia, non tratteremo. Queste ultime sono: “ma”, “quindi”, “insomma”, “infatti”, “persino”, “non ancora” et similia.

TIZIO: Usciamo?

CAIO: Ho mal di pancia!

Di fatto, CAIO non si rifiuta di uscire, ma lascia che TIZIO intenda il rifiuto, avvalendosi proprio della convenzione linguistica, la cui efficacia, quantunque implicita, consente a entrambi di mantenersi sul piano della comprensione. Tale meccanismo – si badi bene! – è una garanzia relazionale, ma costituisce, comunque, una forma di approssimazione conoscitiva ed emotiva, qualcosa che tolleriamo fino a un certo punto, finché tutto va bene, come si suol dire. In questa scrittura preparatoria o introduttiva, non abbiamo dimenticato, infatti, che il nostro tema è trauma. Di conseguenza, prima di procedere oltre e interpellare i cosiddetti ‘antichi’, dobbiamo capire come possa ricostruirsi la pragmatica dell’insieme linguistico {Usciamo, Ho mal di pancia}. Ci rendiamo conto subito che il nostro focus è dato da “Ho mal di pancia”.

  1. CAIO non ha mal di pancia, non vuole uscire con TIZIO (rifiuto indiretto, implicato)
  2. CAIO ha mal di pancia (rifiuto indiretto, implicato).

Non si fa fatica a notare che, sia in caso di dichiarazione mendace, per così dire, sia nel caso contrario, ciò che manca al dialogo è la verità linguistico-fattuale.

  1. CAIO ha mal di pancia, ma vorrebbe uscire con TIZIO (rifiuto indiretto, implicato)
  2. CAIO non ha mal di pancia, vorrebbe uscire con TIZIO, ma nasconde la motivazione reale (rifiuto indiretto, implicato).

Anche 3 e 4 ci conducono allo stesso riesame di 1 e 2. Quali che siano le motivazioni o le precondizioni, lo scambio tra TIZIO E CAIO manca semplicemente di un “no”, un avverbio che non comporterebbe particolari competenze, ma che spesso non riusciamo a pronunciare, tanto da dare vita a queste scene paradossali. Apparentemente, non sono paradossali: è evidente. Il è fatto che bisogna chiedersi sempre cosa si possa nascondere dietro di esse. “No”, tra le altre cose, può avere un valore olofrastico, può sostituire cioè un’intera proposizione; la qual cosa ridurrebbe di molto il nostro impegno; eppure, spesso, preferiamo perderci in ampie perifrasi che delimitare chiaramente e immediatamente l’argomento. Siamo talmente viziati da queste ‘manie’ linguistiche da avere spesso bisogno del metalinguaggio per emanciparcene.

Ferita

Ci rivolgiamo ai summenzionati ‘antichi’ anche e soprattutto per questo: affinché la parola sia ricondotta alla propria manifestazione originaria, in cui e per cui il dire sia, in qualche modo, un presupposto dell’essere e dell’agire.

Il sostantivo trauma appartiene nettamente al greco: τραῦμα (tràuma); significa ferita, ma, se riferito alle navi, danno, avaria, mentre, se riferito all’esercito, disfatta, sconfitta (ROCCI, L., 1998). Di fatto, la semantica di ciascuna delle referenze non si discosta molto da quella delle altre. Precondizione d’una ferita è qualcosa che possa esserne causa, dev’esserci, per l’appunto, un danno. Già da qui siamo in grado di rilevare la trasformazione metonimica avvenuta nella nostra lingua: per noi, oggi, il trauma è prevalentemente la causa d’una ferita, interiore od organica che sia. In principio, invece, trauma era già l’effetto, come si può vedere. L’analisi della sua radice, a ogni modo, non è affatto complessa: *tro-, che è la forma generalizzata di *teru- / *treu- (POKORNY, J., 2007), si rende sempre con ferire. Interessante, in merito, l’aggiunta di Chantraine (1968), secondo le cui indagini la radice in questione, adottata con riguardo all’amore di una persona, si muta in colpire, far soffrire. Sembra che l’etimo (ἔτυμος, ètymos, vero), a poco a poco, ci restituisca le precondizioni di verità fattuale che spesso sono assenti nel dialogo ordinario.

Ἐνθαῦτα μάχη ξύλοισι καρτερὴ γίνεται, κεφαλάς τε συναράσσονται καί, ὡς ἐγὼ δοκέω, πολλοὶ καὶ ἀποθνῄσκουσι ἐκ τῶν τρωμάτων: Enthàuta màche xỳloisi karterè ghìnetai, kephalàs te synaràssontai kai, hos egò dokèo, pollòi kai apothnèskousi ek ton tromàton [Allora s’accende una violenta battaglia a colpi di bastone, si fracassano le teste e, a quanto io credo, molti muoiono anche in seguito alle ferite (ERODOTO, Storie, II, 63, 3, a cura di A. Izzo D’ Accinni e D. Fausti, 2001, Fabbri, Milano)]

Quasi tutti i lessicografi, nel descrivere la voce trauma, parlano effettivamente di una dialettica tra una causa e un effetto: un polo di questa dialettica è rappresentato dall’agente esterno (GDLI) o causa, laddove l’altro polo è una ripresa del lemma delle origini, cioè la lesione o ferita (Treccani; GDLI). Se consultiamo il DSM V, invece, non troviamo una definizione tecnica di trauma, fuorché associamo la parola trauma con un disturbo, il più pertinente e noto dei quali è sicuramente il disturbo da stress post-traumatico (F 43.10). I redattori del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali si concentrano molto di più, com’è naturale, sull’eziologia e sulla sintomatologia. In quanto all’eziologia, è sufficiente riportare solo un piccolo frammento di ciò che scrivono: “Esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione oppure violenza sessuale (…)”. Trascuriamo la sintomatologia perché questo nostro lavoro ha come finalità l’esame dell’aspetto semantico e filologico, non già quello psichiatrico. L’estratto del DSM dev’essere quindi inteso come vero e proprio arricchimento in termini di occorrenze.

Il punto d’osservazione che adesso dobbiamo conquistare è quello della persona comune. In poche parole: che cosa accade alla persona traumatizzata a causa di un incidente automobilistico, d’una violenza subita et cetera? Attenzione! Nel caso in specie, non rispondiamo da esperti; assumiamo, tuttavia, la prospettiva di chi, soffrendo, denuncia una certa condizione, cosicché possiamo tentare di far luce sul legame tra il dire e l’essere, cui abbiamo fatto cenno in precedenza. Questo essere deve, dunque, apparire del tutto svincolato, almeno per il momento, dai protocolli scientifici, fermo restando che dalla consultazione del DSM V otteniamo, comunque, delle conferme.

Chiunque soffra a causa d’un trauma:

  1. rivive spesso l’evento traumatico (sindrome di Io);
  2. teme che possa accadere qualcosa di terribile (sindrome di Andromaca);
  3. fa fatica a riconoscere la propria condizione (sindrome di Josef K).

Semplificando questi stati traumatici, possiamo constatare alcune caratteristiche: in a, il soggetto è assillato dalla ripetizione, figura dell’esistenza che, nella mitologia greca, diventa Ἀνάγκη (anànke), nota come dea del destino, ma che sul vocabolario è presente pure come necessità, costrizione, violenza, pena, miseria et similia; in b, ha, semplicemente (per così dire), paura (non è poco), conscio del fatto che qualcosa, da un momento all’altro, potrebbe stravolgere la sua esistenza; da ultimo, in c, domina l’incapacità di dare un nome alle cose, una sorta di smarrimento a causa del quale persone e cose diventano ignote. Elias Canetti, in apertura di Massa e potere, scrive: “Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto” (CANETTI, E., 1960, Masse und Macht, trad. it di F. Jesi, 1981, Massa e potere, Adelphi, Milano, p. 17).

In pratica, stiamo tentando di circoscrivere la semantica di trauma con un metodo un po’ diverso da quello che di solito si sceglie in simili circostanze di studio. Di là dalle occorrenze, che di certo non intendiamo trascurare, vogliamo anzitutto capire in che modo i parlanti raccontino l’esperienza traumatica, giacché la lingua esiste nell’uso, prim’ancora che nella norma o nelle categorie espositive. In questo senso – e solo in questo – la letteratura, quella della tradizione classica più di qualsiasi altra, ci è oltremodo utile. Alla fine dei punti a, b e c, infatti, abbiamo riportato delle presunte sindromi, da noi ipotizzate e coniate con discreta libertà d’azione, al fine di inquadrare il presupposto archetipico delle parole che usiamo per parlare d’un trauma. Quando si parla di συνδρομή (syndromè, sindrome), d’altronde, ci si riferisce a un’affluenza di elementi che caratterizzano il disagio o la malattia: il sostantivo nasce dall’unione di σύν (syn, con) e δρόμος (dròmos, corsa).

Sindrome di Io

(…) Oὐκ οἶδ’ ὅπως ὑμῖν ἀπιστῆσαί με χρή, σαφεῖ δὲ μύθῳ πᾶν ὅπερ προσχρῄζετε πεύσεσθε· καίτοι καὶ λέγουσ’ αἰσχύνομαι θεόσσυτον χειμῶνα καὶ διαφθορὰν μορφῆς, ὅθεν μοι σχετλίᾳ προσέπτατο. αἰεὶ γὰρ ὄψεις ἔννυχοι πωλεύμεναι ἐς παρθενῶνας τοὺς ἐμοὺς παρηγόρουν λείοισι μύθοις ‘Ὦ μέγ’ εὔδαιμον κόρη, τί παρθενεύῃ δαρόν, ἐξόν σοι γάμου τυχεῖν μεγίστου; Ζεὺς γὰρ ἱμέρου βέλει πρὸς σοῦ τέθαλπται καὶ συναίρεσθαι Κύπριν θέλει· σὺ δ’, ὦ παῖ, μὴ ‘πολακτίσῃς λέχος τὸ Ζηνός, ἀλλ’ ἔξελθε πρὸς Λέρνης βαθὺν λειμῶνα, ποίμνας βουστάσεις τε πρὸς πατρός, ὡς ἂν τὸ Δῖον ὄμμα λωφήσῃ πόθου.’ τοιοῖσδε πάσας εὐφρόνας ὀνείρασι ξυνειχόμην δύστηνος, ἔστε δὴ πατρὶ ἔτλην γεγωνεῖν νυκτίφοιτ’ ὀνείρατα: Ouk òid’hòpos hymìn apistesài me chre, saphèi de mỳtho pan hòper proschrèzete pèusesthe; kàitoi kai lègous’aischỳnomai theòssyton cheimòna kai diaphthoràn morphès, hòthen moi schetlìa prosèptato. Aièi gar òpseis ènnychoi polèumenai es parthenònas tous emoùs paregòroun lèioisi mỳthois “O mèg’èudaimon kòre, ti parthenèue daròn, exòn soi gàmou tychèin meghìstou? Zèus gar himèrou bèlei pros sou tèthalptai kai synàiresthai Kỳprin thèlei; sy d’, o pai, me ‘polaktìses lèchos to Zenòs, all’exèlthe pros Lèrnes bathỳn leimòna, pòimnas boustàseis te pros patròs, hos an to Dìon òmma lophèse pòthou”. Toiòisde pàsas euphrònas onèirasi xyneichòmen dỳstenos, èste de patrì ètlen ghegonèin nyktìphoit’onèirata [Non vedo come potrei deludervi. Saprete da un discorso chiaro tutto ciò che volete. Eppure mi vergogno a rivelare da dove si sia abbattuta addosso a me sventurata, la tempesta inviata dagli dei per stravolgere il mio aspetto. Sempre, nel cuore della notte, visioni si aggiravano nelle mie stanze di vergine e mi esortavano con morbide parole: “O fanciulla davvero fortunata, perché conservi così a lungo la tua verginità, quando ti è possibile stringere le nozze più grandiose? Zeus fu acceso di te dalla freccia del desiderio, e con te vuole cogliere Afrodite. E tu, figlia mia, non disdegnare il talamo di Zeus, esci ai prati concavi di Lerna, ai pascoli e alle stalle di tuo padre, affinché l’occhio di Zeus plachi il suo desiderio”. O me infelice, tutta la notte mi circondavano queste visioni, finché non trovai la forza di rivelare al mio genitore i sogni che frequentavano le mie notti… (EURIPIDE, Prometeo incatenato, 640-657, in Eschilo Sofocle Euripide, Tutte le tragedie, a cura di A. Tonelli, 2011-2013, Bompiani, Milano, pp. 494-495).

La vicenda di Io, figlia di Inaco e sacerdotessa di Era argiva, ampiamente drammatizzata nel Prometeo, è paradigmatica; lo è a tal punto da precedere e sovrastare il primato d’una definizione, quella del DSM, in cui si indica la violenza sessuale quale causa del disturbo. Io è oggetto della passione morbosa e maniacale di Zeus, cui è impossibile opporre un rifiuto: ἐξ ἀνάγκης (ex anànkes, per forza), la fanciulla deve cedere alle profferte del più spietato e mefistofelico tra i corteggiatori, è incalzata a sottomettersi, pur non volendo rinunciare al proprio stato virginale. Dovunque tenti di fuggire, ella è sempre perseguitata. Il suo supplizio è incessante, cosicché, di notte, è sopraffatta da terribili visioni oniriche che rivela al padre non senza vergogna. Questi, nella speranza di ottenere la salvezza per la figlia, si rivolge all’oracolo, ma ne ricava, ancora una volta, una sentenza d’ineluttabilità: la ragazza dev’essere consegnata come vittima sacrificale, tranne che si accetti di andare incontro all’ira di Zeus. Qui, ha inizio pure un irreversibile processo di alienazione e metamorfosi per Io, che viene trasformata in una giovenca, forse per intervento della stessa Era, gelosa, come sempre, del divino e incontrollabile compagno. Io è destinata a subire violenza, ad essere tormentata, privata della propria femminilità o, in altre circostanze, a rivivere ininterrottamente il δρᾶμα (dràma, fatto, azione).

Sindrome di Andromaca

Ἀνδρομάχη δέ οἱ ἄγχι παρίστατο δάκρυ χέουσα, / ἔν τ᾽ ἄρα οἱ φῦ χειρὶ ἔπος τ᾽ ἔφατ᾽ ἔκ τ᾽ ὀνόμαζε· / δαιμόνιε φθίσει σε τὸ σὸν μένος, οὐδ᾽ ἐλεαίρεις / παῖδά τε νηπίαχον καὶ ἔμ᾽ ἄμμορον, ἣ τάχα χήρη / σεῦ ἔσομαι· τάχα γάρ σε κατακτανέουσιν Ἀχαιοὶ / πάντες ἐφορμηθέντες· ἐμοὶ δέ κε κέρδιον εἴη / σεῦ ἀφαμαρτούσῃ χθόνα δύμεναι· οὐ γὰρ ἔτ᾽ ἄλλη / ἔσται θαλπωρὴ ἐπεὶ ἂν σύ γε πότμον ἐπίσπῃς / ἀλλ᾽ ἄχε᾽ (…) Ἕκτορ ἀτὰρ σύ μοί ἐσσι πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ / ἠδὲ κασίγνητος, σὺ δέ μοι θαλερὸς παρακοίτης· / ἀλλ᾽ ἄγε νῦν ἐλέαιρε καὶ αὐτοῦ μίμν᾽ ἐπὶ πύργῳ, / μὴ παῖδ᾽ ὀρφανικὸν θήῃς χήρην τε γυναῖκα: Andromàche de hoi ànchi parìstato dàkry chèousa, / en t’àra hoi fy cheirì èpos t’èphat’ ek t’onòmaze; / daimònie phthìsei se to son mènos, oud’eleàireis / paidà te nepìachon kai em’àmmoron, he tàcha chère / seu èsomai; tàcha gar se kataktanèousin Achaiòi / pàntes ephormethèntes; emòi de ke kèrdion èie / seu aphamartoùse chthòna dỳmenai; ou gar et’àlle / èstai thalporè epèi an sy ghe pòtmon epìspes / all’àche’ (…) Hèktor atàr sy mòi essi patèr kai pòtnia mèter / edè kasìgnetos, sy de moi thaleròs parakòites; / all’àghe nyn elèaire kai autoù mìmn’epì pỳrgo, / me pàid’orphanikòn thèes chèren te gynàika [Andromaca a lui venne vicino, bagnando il viso di lacrime, / lo sfiorò con la mano, articolò la voce e disse: / “Sventurato, il tuo ardore sarà la tua rovina, e tu non hai pietà / di tuo figlio che ancora non parla e di me disgraziata, / che vedova presto sarò di te: t’uccideranno presto gli Achei / tutti insieme saltandoti addosso; sarebbe meglio per me / scendere sottoterra, se restassi senza di te; perché non avrò / alcun altro conforto, quando tu abbia seguito il destino, / ma solo dolori (OMERO, Iliade, 405-432, vol. 1, a cura di G. Cerri e A. Gostoli, 2000, Fabbri, Milano, pp. 404-407)].

La trama riguardante le ultime ore di vita di Ettore è nota ai più soprattutto grazie alla trasposizione cinematografica che, quantunque infedele al testo d’origine, riproduce in modo efficace la disperazione della moglie. Qui, naturalmente, ricorriamo al frammento letterario di pertinenza. Andromaca si misura con la prematura e imminente perdita dell’uomo che ama. Di questa sorte è più che consapevole, sebbene la consapevolezza, nel suo caso, sia un sovrappiù d’impotenza. De Chirico, con sapienziale abilità, li raffigura l’uno di fronte all’altra, ma privi di braccia, schiacciati da un desiderio inesaudibile e lacerante. Achille deve vendicare la morte dell’amato cugino Patroclo; in ciò stesso, rappresenta una forza superiore, incontrastabile e innominabile, ciò di cui si può solo aver paura, ma che l’eroe troiano, per contro, ha il dovere di fronteggiare. Ettore stesso non manca di consapevolezza, anche se l’ἦϑος (èthos, consuetudine, uso, costume) omerico-iliadico gl’impedisce di fuggire. Qui, il disagio prende forma da un fenomeno quasi opposto a quello di Io, la quale, come abbiamo visto, tenta la fuga. In entrambi i casi, però, con o senza un tentativo di fuga, il trauma resta imperscrutabile, alienante; è generato da un agente esterno, come scrivono i lessicografi.

Sindrome di Josef K.

Josef K (…) senza che avesse fatto nulla di male, una mattina viene arrestato (KAFKA, F., 1925, Der Prozess, trad. it. di G. Landolfi Petrone e M. Martorelli, 1991, Il processo, in Kafka Tutti i romanzi e i racconti, Newton, Roma, p. 179)

Si cercano invano nelle pagine kafkiane de Il processo le ragioni di qualcosa di determinato: il fatto, la cosa e le conseguenze del formarsi degli stati di cose (in realtà, più le conseguenze che il resto) bastano da sé a istruire una lacerante requisitoria esistenziale che non approda mai ad alcunché di specifico. Sulle prime, Josef  K. è costretto ad assistere ad uno sconclusionato andirivieni di sconosciuti che sanno solo di dover compiere un arresto e null’altro. Le dinamiche dell’evento, di qualcosa che accade, ci giungono già sovrapposte all’identità del protagonista. I volti dell’Io narrante non hanno nome né significato o scopo, ma restano essenziali al fatto. Essi si pongono dionisiacamente e s’identificano con lo scarto che sussiste tra il bisogno di affermarsi, che il protagonista potrebbe sentire come dirompente, e la sua incapacità di raccontarsi, di accettare le metamorfosi della realtà, di dare un nome alle cose. Josef K. viene isolato ed è rappresentato dal fatto stesso. Il gioco di differimento e sospensione tra i volti continua ininterrottamente: alle guardie giunte sul posto ad arrestarlo, senza tuttavia esibire alcun mandato di cattura, si sostituiscono gli impiegati di banca pronti ad accompagnarlo al posto di lavoro, mentre Josef K. persiste nell’isolamento e nell’inconsapevolezza, forse indolente nel doversi commisurare al principio di realtà. C’è da fare una riflessione decisiva in quanto alla fenomenologia dell’arresto. Se, per certi versi, non si legge mai in queste pagine un che di descrittivo, d’altro canto, è vero che il δρᾶμα (dràma, fatto, azione) si svolge e si compie sempre ed esclusivamente in vere e proprie dimensioni domestiche, manifestando così lo spossante e lacerante legame con una sorta di trauma originario, ma non alterando mai lo scorrere ordinario della consuetudine socio-simbolica. Anche i susseguenti incontri con l’autorità deputata a giudicarlo avvengono in anguste casupole. Ciò sta ad indicare che l’arresto di Josef K. è il crollo dell’Io, dell’Io tormentato d’un protagonista che non si riconosce, fuorché in questo inaspettato non essere-più-libero con l’habitus linguistico dell’essere-così-e-non-altrimenti (Cfr. G. Raio, Antinomia e allegoria, introduzione de Il processo, op. cit., p. 177).

Si legga a proposito un frammento della conversazione tra Josef K. e la signora Grubach!

Lei di certo è in arresto, ma non come si arresta un ladro. Se si è arrestati come un ladro, allora è grave, ma questo arresto… Mi pare una cosa dotta, mi scusi se dico qualcosa di stupido, che certo non capisco ma che per altro non si deve capire.

Quello che ha detto non è affatto stupido (…) Sono stato colto di sorpresa, ecco tutto. Se subito dopo essermi svegliato, senza farmi confondere dall’assenza di Anna, mi fossi alzato e (…) fossi venuto da lei (…) in breve se avessi agito ragionevolmente, allora non sarebbe accaduto niente (…) (KAFKA, F., 1925, op. cit., p. 188).

Il protagonista tenta di trattare l’evento straordinario come un errore di valutazione e non mai come evento causale importante o che si configuri come tale da mettere in discussione l’equilibrio consolidato nel tempo. Il registro linguistico-stilistico adoperato, non a caso, è fitto di figure retoriche e del significato: dall’allegoria alla litote per sconfinare nelle perifrasi, di cui il testo abbonda a segnare dei confini semantici entro cui si tenta di esperire il trauma stesso come un fatto tra i fatti. L’arresto è una cosa dotta e Josef K., pur non considerandolo cosa dotta (lo afferma chiaramente nel testo), racconta a sé stesso che avrebbe potuto agire diversamente: nasconde la verità e, nel contempo, dice la verità. L’Io catturato de Il processo è anche l’identità narrante della Lettera al padre, dove Franz Kafka, ben lungi dal concepire la colpa come statuto ontologico dell’esser-ci alla maniera heideggeriana, per cui il fatto stesso d’essere gettato-progettante impone all’individuo vivente d’accettare anche il non-potere-progettare (Cfr. HEIDEGGER, M., 1927, Sein und Zeit, trad. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, 1976, Longanesi, Milano) e, di conseguenza, la colpa esistenziale, dichiara fin dall’incipit d’avere paura del padre.

Carissimo padre,

di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente (KAFKA, F., 1919, Brief an den Vater, trad. it. di F. Ricci, 2004, Lettera al padre, Newton, Roma, p. 27).

Franz, confrontandosi col padre, che offre al figlio un modello d’uomo invulnerabile, inattaccabile, capace di garantire alla famiglia ogni forma di benessere, si sente sminuito e avvilito. A quanto pare, il piccolo Franz è l’esatto contrario del modello di uomo ‘valido’: a poco a poco, perde il possesso di sé. Di conseguenza, nell’accingersi ad assolvere l’ufficio di scrittore, Franz non trova più sé stesso, i propri volti nella metamorfosi della quotidianità. Franz viene incoraggiato, per converso, a fare il saluto militare: “ma io non ero un futuro soldato” scrive Kafka nella Lettera (ibid., p. 33); viene incoraggiato a fare delle cose che soddisfacciano l’orgoglio del padre, cose tese a educare una figura di maschio dominante cui Franz però non aspira.

Ricordo ad esempio come, frequentemente, ci spogliavamo in cabina. Già ero schiacciato dalla tua nuda fisicità. Io magro, debole, sottile, tu forte, alto, massiccio (Ibid., p. 33)

Sommessamente

La letteratura delle sindromi, cioè del concorrere di elementi traumatici, non è, come si potrebbe pensare sbrigativamente, il regno delle fantasticherie o dell’estro scritturale per il quale il pensiero logico si consolida di analogia in analogia; è, anzitutto e per lo più, il luogo della scoperta, entro i cui confini la semantica potrebbe diventare disfunzionale o, addirittura, del tutto inadeguata. La parola dell’esistenza kafkiana, cioè di colui che non è più in grado di nominare persone e cose, è una parola che possiamo, a malapena, pronunciare sommessamente, una sorta di mistero della lingua, il più temibile e pericoloso dei misteri, la cui più alta espressione si ha nella paura della morte, la paura di non potere più esserci, di non avere più una parola per significare adeguatamente e in modo rassicurante persone e cose. Il trauma, in questo senso, è nella parola stessa, quand’anche non sia detta.

Cesare Pavese ha dedicato buona parte della propria esistenza alla ricerca di questa parola, riportando ossessivamente in un diario ogni disperante tentativo di rendere sopportabile l’idea della morte, come in una sorta di tormentosissima autoterapia. L’attività diaristica de Il mestiere di vivere comincia nel 1935 e si conclude nel 1950, anno in cui l’autore si tolse la vita. Probabilmente, è molto più noto al grande pubblico per il componimento Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951, pubblicato postumo), per il quale occorre fare qualche rilievo d’analisi testuale. Prima di tutto, però, è bene dire che appare ridicola la pretesa di certi critici che vorrebbero trovare nella separazione da Costance Dowling la causa del suicidio. Pur non avendo titolo scientifico per esaminare una scelta siffatta, non possiamo trascurare la mole di testimonianze letterarie con le quali Pavese ha declinato il proprio malessere, ora dominandolo ora lasciandosi dominare da esso. Se, infatti, osserviamo alcuni fenomeni linguistici del testo poetico in questione, trattandoli proprio come fenomeni, vale a dire come manifestazioni d’una lingua esistenziale, e non solo come dati ermeneutici, ci rendiamo conto d’un messaggio interamente costruito sull’ontologia della fine, che, naturalmente, non può essere maturata solo in seguito a un episodio. Riportiamo il testo, così da poter mettere in evidenza gli elementi cui abbiamo fatto riferimento.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo. I tuoi occhi / saranno una vana parola, / un grido taciuto, un silenzio. / Così li vedi ogni mattina / quando su te sola ti pieghi / nello specchio. O cara speranza, / quel giorno sapremo anche noi / che sei la vita e sei il nulla. / Per tutti la morte ha uno sguardo. / Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. / Sarà come smettere un vizio, / come vedere nello specchio / riemergere un viso morto, / come ascoltare un labbro chiuso. / Scenderemo nel gorgo muti.

Le figure retoriche che si rivelano utili al nostro lavoro e, soprattutto, ci permettono di confermare la tesi dell’ontologia della fine sono tre:

  1. personificazione: “verrà”, “avrà i tuoi occhi”; il rapporto con la morte è diretto, quotidiano, non basato semplicemente su dei timori o delle ipotesi dottrinali;
  2. antitesi: “sei la vita e sei il nulla”; questo, molto probabilmente, è il più significativo degli elementi, giacché l’ontologia da noi indicata qui è nettamente marcata;
  3. chiasmo: “vana parola”, “grido taciuto”; qui, ci appropriamo definitivamente della ricerca pavesiana in merito alla parola che potesse rappresentare, in qualche modo, la morte; potremmo definirlo verso patente-documentale.

Fermo restando che un adeguato lavoro d’analisi testuale ci condurrebbe all’individuazione d’una struttura molto più complessa di quella apparsa in queste poche righe, siamo persuasi che, adesso, sia venuto alla luce, almeno in parte, il concetto di parola-trauma, qualcosa di equidistante sia dall’eziologia sia dalla sintomatologia. Il trauma, dunque, è anzitutto nelle parole; nelle parole, esso è ferita raccontata, è una storia. Poco meno di quindici anni prima, esattamente il 10 aprile del 1936, Pavese scriveva sul diario:

Quando un uomo è nel mio stato non gli resta che fare l’esame di coscienza. Non ho motivo di rifiutare la mia idea fissa che quanto accade a un uomo è condizionato da tutto il suo passato; insomma, è meritato. Evidentemente, le ho fatte grosse per trovarmi a questo punto (p. 31).

E il 30 ottobre del 1940:

Qualche volta viene il sospetto che la morte – l’inferno – consisterà ancora del fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più (p. 208).

(PAVESE, C., Il mestiere di vivere, 1935-1950, a cura di M. Guglielminetti e L. Nay, 1997, Einaudi, Torino)

In questa condizione, la parola non può essere altrimenti che sussurrata, come abbiamo scritto in precedenza, una sorta di grido taciuto, sempre sul punto d’essere vana, un silenzio; si manifesta tra la vita e il nulla. Cosa raccontiamo – a noi stessi o agli altri – quando l’angoscia prende il sopravvento e sentiamo venire meno lo slancio vitale? Di fatto, raccontiamo un mistero, qualcosa di oscuro; e lo facciamo sommessamente perché si tratta di qualcosa che non conosciamo e ci fa paura.

La risposta arcaica a questa paura è affidata al mito, patrimonio narrativo, simbolico-religioso ed esistenziale, a lungo e a fortiori, considerato fonte inesauribile dagli studiosi di psicologia del profondo. il μῦϑος (mỳthos), prim’ancora d’essere materiale archetipico, è essenzialmente parola, discorso, racconto, è esso stesso il lògos con cui l’uomo interpreta gli eventi. In ciò stesso e in virtù della radice indoeuropea da cui s’è formato, parola sussurrata: *mu- significa mormorare, muggire (POKORNY, J., 2007); in greco, come fa notare Chantraine (1968), ha assunto il valore di “onomatopea che si rende con la bocca chiusa e tono lamentoso”. Μυστέριον (mystèrion, mistero), derivato anch’esso da *mu-, a questo punto, è comprensibilmente quel segreto che solo a pochi può essere riferito; in altri termini, può essere sussurrato e ciò può accadere solo nell’ambito d’uno specifico rito.

L’intuizione degli psicologi del profondo, pertanto, cioè di coloro che, per primi, decisero di studiare la psiche attraverso la fenomenologia del mito, s’è rivelata più che valida, oltre che proficua. Non tutti, naturalmente, si sono mostrati consapevoli del fatto che la funzionalità semantica di alcune parole costituisce il fondamento dell’efficacia di alcune teorie, ma ciò non ne ha inficiato gli esiti. Anzi, tale dinamica rafforza la tesi saussuriana secondo la quale ereditiamo vere e proprie ‘immagini acustiche’ (1922) grazie alle quali coesistiamo nel sistema della lingua.

L’unico limite che, molto di frequente, si riscontri nella letteratura di settore (non in quella prodotta dai grandi autori, Freud, Jung, Rank, Neumann et al.) consiste nell’eccessiva riduzione dell’area d’indagine: in poche parole, si prende in esame il misfatto, l’episodio traumatico, il cimento dell’eroe-protagonista, ma si trascura la vicenda umana. Perseo decapita Medusa, la Gorgone il cui sguardo è in grado di pietrificare chiunque osi fissarla, ma il trauma è rappresentato più dalla storia, dalla narrazione dell’intera trama, in cui la madre dell’eroe, Danae, è la prima vera vittima di abusi e tracotanza. Tutto ebbe inizio quando Acrisio, non avendo figli maschi, si rivolse all’oracolo e si sentì dire “tuo nipote ti ucciderà”. Di conseguenza, egli, non avendo il coraggio di uccidere la propria figlia, Danae, la rinchiuse in una torre. Qui, si potrebbe già rilevare il primo evento traumatico. Zeus, comunque, non ebbe difficoltà a dare sfogo alle proprie passioni e discese su Danae come pioggia d’oro rendendola madre di Perseo. Non sappiamo se Danae gradisse o meno. Potremmo quindi essere in presenza del secondo evento traumatico. Quando Acrisio se ne fu reso conto, mise la figlia e il nipote su un’imbarcazione e li abbandonò alle correnti marine. Come non pensare al terzo evento traumatico? L’imbarcazione fu trasportata dalle onde fino all’isola di Serifo, dove i naufraghi vennero tratti in salvo da Ditti e affidati al re Polidette. Questi, col tempo, non nascose le proprie mire su Danae, giungendo a pretenderla in sposa, cosicché Perseo, ormai cresciuto, fu costretto a difendere la madre. Si ha così la chiara attestazione del quarto evento traumatico. Polidette tentò pure d’ingannare Perseo, dicendogli d’essere interessato a sposare Ippodamia e chiedendogli la testa di Medusa come dono di nozze. Di conseguenza, non possiamo fare a meno di aggiungere un altro evento traumatico all’elenco stilato finora. L’epilogo eroico è universalmente noto: Perseo ottiene l’aiuto di Atena, è munito di scudo, sandali alati, sacca magica e falcetto e decapita la Gorgone, senza guardarla negli occhi. Ma si comprende che sarebbe riduttivo tentare di far valere il mito solo per l’atto di decapitazione, che non renderebbe affatto il senso del trauma e del mistero della parola.

Πετόμενος εἰς τὸν Ὠκεανὸν ἧκε καὶ κατέλαβε τὰς Γοργόνας κοιμωμένας. ἦσαν δὲ αὗται Σθενὼ Εὐρυάλη Μέδουσα. μόνη δὲ ἦν θνητὴ Μέδουσα· διὰ τοῦτο ἐπὶ τὴν ταύτης κεφαλὴν Περσεὺς ἐπέμφθη. εἶχον δὲ αἱ Γοργόνες κεφαλὰς μὲν περιεσπειραμένας φολίσι δρακόντων, ὀδόντας δὲ μεγάλους ὡς συῶν, καὶ χεῖρας χαλκᾶς, καὶ πτέρυγας χρυσᾶς, δι’ ὧν ἐπέτοντο. τοὺς δὲ ἰδόντας λίθους ἐποίουν. ἐπιστὰς οὖν αὐταῖς ὁ Περσεὺς κοιμωμέναις, κατευθυνούσης τὴν χεῖρα Ἀθηνᾶς, ἀπεστραμμένος καὶ βλέπων εἰς ἀσπίδα χαλκῆν, δι’ ἧς τὴν εἰκόνα τῆς Γοργόνος ἔβλεπεν, ἐκαρατόμησεν αὐτήν: Petòmenos eis ton Okeanòn hèke kai katèlabe tas Gorgònas koimomènas. Èsan de hàutai Sthenò Euryàle Mèdousa. Mòne de en thnetè Mèdousa; dià toùto epì ten tàutes kephalèn Persèus epèmphthe. Èichon de hai Gorgònes kephalàs men periespeiramènas phòlisi drakònton, odòntas de megàlous hos syòn, kai chèiras chalkàs, kai ptèrygas chrysàs, di’hòn epètonto. Tous de idòntas lìthous epòioun. Epistàs oun autàis ho Persèus koimomènais, kateuthynoùses ten chèira Athenàs, apestrammènos kai blèpon eis aspìda chalkèn di’ès ten eikòna tes Gorgònos èblepen, ekaratòmesen autèn [Giunse volando sull’Oceano e trovò le Gorgoni che dormivano. Esse erano Steno, Euriale e Medusa. Solo Medusa era mortale: e perciò, per la sua testa Perseo fu mandato. Le Gorgoni avevano teste avvolte da scaglie di serpenti, zanne grosse come di cinghiali, mani di bronzo e ali d’oro, con cui volavano. Rendevano pietre coloro che le guardavano. Perseo avvicinandosi alle Gorgoni addormentate, mentre Atena gli guidava la mano, stando girato e guardando verso uno scudo di bronzo attraverso cui vedeva l’immagine di Medusa, gliela tagliò (PSEUDO-APOLLODORO, Biblioteca, II, 39-42, trad. nostra, a cura di E. Bekker, 1854, Teubner, Lipsia, p. 44)].

Un altro mito adottato da molti studiosi come presupposto speculare del disagio post-traumatico è quello di Orfeo ed Euridice. In questo caso, lo svolgimento è meno articolato e i passaggi narrativi sono più chiari e marcati di quelli messi in evidenza precedentemente. In sintesi, una storia d’amore finita in tragedia. Un giorno, Euridice, trovandosi nei pressi di Tempe, nella vallata del Peneo, fu costretta a fuggire da Aristeo, che voleva usarle violenza. Durante la fuga, s’imbatté in un serpente velenoso che, con un morso, la condannò all’oltretomba. Il marito Orfeo, impavido e coraggioso, discese nel Tartaro, dove la donna veniva custodita da temibilissimi personaggi. Egli, tuttavia, disponeva della potenza vitale della lira e non pose alcun indugio a produrre una melodia che addolcisse le presenze infere e determinasse il rilascio dell’agognata. Caronte, Cerbero, i giudici e perfino lo stesso Ade si lasciarono incantare: l’effondersi del suono cancellò, dunque, i confini tra i mondi. Il signore del regno invisibile, tuttavia, prima di restituire Euridice, dettò una condizione inderogabile: Orfeo, seguito da Euridice, non si sarebbe dovuto voltare, fintantoché non si fosse raggiunta la luce del sole. Orfeo, però, si voltò a controllare se la donna fosse alle sue spalle e la perdette per sempre.

Καλλιόπης μὲν οὖν καὶ Οἰάγρου, κατ’ ἐπίκλησιν δὲ Ἀπόλλωνος, Λίνος, ὃν Ἡρακλῆς ἀπέκτεινε, καὶ Ὀρφεὺς ὁ ἀσκήσας κιθαρῳδίαν, ὃς ᾄδων ἐκίνει λίθους τε καὶ δένδρα. ἀποθανούσης δὲ Εὐρυδίκης τῆς γυναικὸς αὐτοῦ, δηχθείσης ὑπὸ ὄφεως, κατῆλθεν εἰς Ἅιδου θέλων ἀνάγειν αὐτήν, καὶ Πλούτωνα ἔπεισεν ἀναπέμψαι. ὁ δὲ ὑπέσχετο τοῦτο ποιήσειν, ἂν μὴ πορευόμενος Ὀρφεὺς ἐπιστραφῇ πρὶν εἰς τὴν οἰκίαν αὑτοῦ παραγενέσθαι· ὁ δὲ ἀπιστῶν ἐπιστραφεὶς ἐθεάσατο τὴν γυναῖκα, ἡ δὲ πάλιν ὑπέστρεψεν: Kalliòpes men oun kai Oiàgrou, kat’epìklesin de Apòllonos, Lìnos, hon Heraklès apèkteine, kai Orphèus ho askèsas kitharodìan, hos àdon enìkei lìthous te kai dèndra. Apothanoùses de Eurydìkes tes gynaikòs autoù, dechthèises hypò òpheos, katèlthen eis Hàidou thèlon anàghein autèn, kai Ploùtona èpeisen anapèmpsai. Ho de hypèscheto toùto poièsein, an me poreuòmenos Orphèus epistraphè prin eis ten oikìan hautoù paraghenèsthai; ho de apistòn epistraphèis etheàsato ten gynàika, he de pàlin hypèstrepsen [Da Calliope ed Eagro (ma in realtà da Apollo), nacquero Lino che Eracle uccise, e Orfeo, colui che suonava la cetra e che cantando muoveva pietre e alberi. Essendo morta la (sua) sposa Euridice morsa da una serpe, egli scese nell’Ade desiderando riportarla sulla terra e persuase Plutone a rimandarla. Quello si impegnò a farlo a patto che Orfeo, durante il cammino, non si voltasse indietro prima di giungere alla sua casa; ma Orfeo non fidandosi si voltò a guardare la sposa, che discese di nuovo (nell’Ade) (APOLLODORO, Biblioteca, I, 14-15, trad. nostra, a cura di E. Bekker, 1854, Teubner, Lipsia, p. 6)].

Vien fatto di chiedersi: perché Perseo riesce a portare a termine l’impresa, ad affrontare e superare il trauma, mentre Orfeo crolla miseramente? Entrambi devono sopportare e acuire degli sguardi di sventura, l’uno verso Medusa, l’altro verso l’inconoscibile, entrambi sono muniti di strumenti di valore, l’uno lo scudo, l’altro la lira, entrambi hanno subito dei traumi: Perseo e Danae, addirittura, più d’uno; eppure Perseo ne esce vincitore, Orfeo sconfitto. Ciò accade perché Perseo non agisce da solo, chiede e ottiene aiuto: in suo soccorso, arriva Atena, la πότνια (pòtnia, signora) per eccellenza nata dalla testa di Zeus, la quale qui si riconfigura come metafora dell’intelligenza della relazione.

La parola-trauma, quantunque sussurrata, perché si rigeneri come salvifica dev’essere condivisa: questa è la grande lezione che possiamo imparare dal modo in cui gli uomini raccontano il proprio disagio. D’altronde, se risaliamo ancora una volta al concetto di mistero, la cui radice verbale si esplica, com’è stato documentato, nel sussurrare, mormorare, sappiamo di dover volgere lo sguardo a una scena iniziatica in cui ottenere un superiore livello di conoscenza e aggregazione significa essere pronti a mettere in comunione e, nello stesso tempo, custodire un segreto, qualcosa di nascosto e che non a tutti si può rivelare.

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