Il giovane omosessuale

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È probabile che, da piccolo, avesse subito un trauma. Ma è altrettanto probabile il contrario. Be’! Occorre farsi valere con le parole e cercare la via della linearità e della precisione. Pertanto, è doveroso dire che, in queste circostanze, cioè in tutti i casi in cui si può asserire che un adolescente ha un certo disagio, corriamo subito alle definizioni da manuale diagnostico, come se ne avessimo sempre appresso una copia tascabile. Quando, invece, capita che lo specialista della mente consultato ci dica con estrema disinvoltura “Mi ascolti! Suo figlio sta benone, non ha alcuna patologia”, sembra quasi che la scoperta ci deluda. Insomma, la paura costante di remotissimi traumi, il bisogno di trovare plausibilissime giustificazioni ai nostri possibili errori e gl’insani tentativi di trasformare i nostri figli nel prodotto dei nostri desideri diventano presto le cause d’un malessere ignoto e che confonde i ragazzi. Fin qui, nulla di nuovo. E, di fatto, neppure la storia che ci accingiamo a raccontare dovrebbe essere considerata originale. Ce ne sono tante simili; anzi, è certo che quelle taciute sono più numerose di quelle urlate. Tuttavia, resta la necessità, autentica e insopprimibile, d’informare il lettore che alcune vite si svolgono nel segno della confusione, che, in quanto tale, è, per lo più, priva di segni.

L’adolescente del quale vogliamo parlare, all’epoca, aveva all’incirca sedici o diciassette anni, frequentava un liceo classico di provincia con buoni risultati, aveva una normalissima vita sociale e, al pari di molti coetanei, era un po’ incostante e capriccioso: per esempio, aveva iniziato la pratica di diverse discipline sportive, senza mai superare un solo semestre di attività; aveva avuto tre o quattro fidanzatine e, sulle prime, s’era detto follemente innamorato di ciascuna di loro, ma, in seguito, aveva perduto rapidamente interesse; aveva avviato la lettura di più libri, senza riuscire a completarne neppure una; era stato attratto fortemente da un certo cammino religioso, ma se n’era presto stancato; insomma, come s’è detto, era un adolescente e la mutevolezza, il più delle volte, prevaleva sulla stabilità. In quanto al resto, era magro, ma non troppo, d’altezza media e preferiva il panino con hamburger e salsine alla frutta e alla verdura. Nulla di scandaloso. Anzi, il pieno compimento della natura adolescenziale. Cos’altro chiedere ad un adolescente, se non la brillante e produttiva frenesia dell’incoerenza? Però, si badi bene al potere delle parole! Se noi introduciamo il caso con termini come “trauma”, “disagio”, “patologia”, ecco che, improvvisamente, una personalità regolare diventa controversa e preoccupante.

La madre, in ultimo (ovviamente, rispetto all’arco di tempo scelto per la narrazione), era solita ripetere che il figlio aveva ora un disturbo alimentare ora un disturbo di personalità ora chissà quale altra patologia; il che pesava parecchio sulla serenità del ragazzo: è evidente. Il quadro comportamentale che abbiamo descritto sopra, in pratica, veniva vissuto dalla signora come un insieme di allarmi. Il ragazzo non riusciva a praticare uno sport per più di sei mesi? Ci voleva il parere del medico per rassicurarla circa le sue condizioni di salute. Chissà, forse era affetto da qualche problema respiratorio, aveva un difetto agli arti inferiori, una cattiva motilità intestinale e così via. Si separava da una fidanzata per correre subito tra le braccia di un’altra? In questo caso, il timore riguardava la sfera affettiva, che poteva essere seriamente compromessa. Non voleva più andare in chiesa? Non si poteva escludere l’azione del demonio. Sì, in effetti, c’era un certo retroterra medievale; non lo si può negare. Ma ciò che risultava ancora più diabolico era l’uso che la signora faceva del medium digitale: internet, nel cui contenitore cercava tutte le risposte ai propri quesiti clinico-esistenziali. Un semplice articolo, purché recasse una firma autorevole, era sufficiente a procurarle delle convinzioni che si mutavano presto in dogmi inviolabili e incrollabili. Dentro di lei, il confine tra scienza, opinione e divulgazione sembrava non esistere, benché avesse conseguito una laurea in lettere e insegnasse in un liceo. Da ultimo, cioè dopo avere raccattato nozioni alla bell’e meglio, si persuadeva pure di poter giudicare l’operato di un medico o di uno psicoterapeuta. Se il parere del professionista non corrispondeva a quello da lei sviluppato durante le divagazioni digitali, ella lo squalificava immediatamente, gli revocava il mandato, per così dire, e ne cercava un altro.

Qualcuno, a questo punto, potrebbe chiedersi quale fosse il ruolo del padre e che cosa facesse. Nell’economia di una storia e della sua trama, è sempre opportuno riferire e documentare tutto ciò che è essenziale allo sviluppo sia dell’intreccio sia del processo di comprensione dell’intreccio stesso. Di conseguenza, è inutile parlare del padre, la cui figura, adesso, non modificherebbe il corso dell’esposizione. Occupiamoci piuttosto del ragazzo e del suo stato d’animo! Egli mostrava, anzitutto, una forza inspiegabile e insolita nel sopportare continuamente certe pressioni. Talora, le eludeva, talaltra, invece, le contrastava con rabbia, ma, col passare del tempo, andava convincendosi del fatto che un radicale cambiamento della madre era impossibile. Amava molto la propria madre; anzi, possiamo dire che il suo amore era tanto più forte quanto più complicato e disagevole era amare una persona così problematica. Intendiamoci: è molto facile amare una persona sempre placida e amorevole! Tutt’altra fatica comporta, invece, il legame con qualcuno che sia sempre turbato.

Un mattino in cui la scuola era chiusa per uno degli svariati motivi per i quali facilmente si chiude una scuola durante la stagione scolastica, il ragazzo, verso le 9, dopo aver fatto una modestissima colazione, disse alla madre:

“Mamma, io esco. Ci vediamo per pranzo.”
La madre, anziché ricambiare il saluto, rimase in silenzio e, dopo una pausa talmente lunga da trattenere sulla soglia il ragazzo, rispose: “Non puoi restare a casa per oggi?”
“Perché dovrei restare a casa?” ribatté prontamente il ragazzo, che, naturalmente, non vedeva l’ora di uscire.
La donna fece ancora fatica a rispondere, ma non poté farne a meno: “Non voglio restare da sola. E poi è bello che facciamo qualcosa insieme ogni tanto. No?”
“Sì, certo… però, dai, ma…” balbettò il ragazzo, nel tentativo di riappropriarsi dei propri spazi.

Di fatto, mentre la tensione saliva, lo schema dei ruoli stava per invertirsi: il ragazzo avrebbe dovuto rinunciare alla propria autonomia per il genitore e si sarebbe dovuto disporre ad assisterlo nel momento in cui il genitore ne avesse avuto bisogno. Non che i genitori non possano avere bisogno dei figli, per carità, ma per lo meno fino a quando i figli non sono adulti bell’e fatti, la logica egocentrica appartiene a loro, non a mamma e papà.

“No, io voglio uscire, mamma… e poi ho un appuntamento con un mio amico” insisté il giovane.
“Sempre lo stesso, ti comporti malissimo e non hai rispetto per la famiglia. Ieri sera, ti ho chiesto di vedere un film con me e tu te ne sei fregato. Sempre rinchiuso nella tua camera col telefonino!” urlò tutto d’un fiato la signora, senza neppure badare alle smorfie di dolore che, a poco a poco, prendevano forma sul viso del figlio.
“Mamma… ma io ieri ho studiato tutto il giorno” replicò il ragazzo, cominciando a mordersi le labbra.
“Tu mi farai morire. Non meriti tutto quello che ho fatto per te. Sai quanto ho sofferto per metterti al mondo? No, non lo sai. Che puoi saperne tu? Non capisci niente. Tu pensi solo a te stesso.”

Il figlio, a quel punto, non ebbe la capacità di aggiungere altro. Iniziò a piangere sommessamente, scosso da un dolore innominabile e da una rabbia altrettanto oscura, ma che egli si sforzava invano di capire.

“Va bene. Adesso, metto in vendita il motorino perché non se ne può più. Ti devo raddrizzare. Tu mi vuoi rovinare la vita. Non ti rendi conto che così non si può andare avanti. Quando sarai grande, lo capirai e forse dirai che tua madre aveva ragione” continuò la madre in un crescendo di irruenza e ostilità.

L’adolescente, però, non fu in grado di sopportare quella tempesta di parole, messe in fila, tra le altre cose, in modo caotico, ingeneroso e con un tono del tutto ingiustificato, e scappò via verso le scale sbattendo la porta di casa con violenza. Il ragazzo non riusciva a capire perché la madre avesse spesso queste uscite così aggressive e, apparentemente, deliranti, anche se, adesso, ciò che più lo turbava era un segreto che da tempo portava con sé e che, stando così le cose, non sapeva proprio come confessare alla madre. Una cosa era certa: prima o poi, avrebbe dovuto metterla a parte di ciò che stava accadendo; altrimenti, sarebbe stato impossibile vivere. Pianse molto, senza controllarsi, e il pianto, per fortuna, fu liberatorio. Annullò immediatamente l’appuntamento con l’amico, non perché non volesse più vederlo, ma perché aveva bisogno di stare da solo e recuperare un po’ di forza. Lo scontro l’aveva indebolito alquanto. Girò a zonzo per le vie della città. Il freddo venticello invernale, che di solito ostacolava pure la guida, questa volta, era benefico; lo ritemprava di chilometro in chilometro e, come si suol dire, gli schiariva le idee. La sua mente echeggiava delle frasi minacciose che la madre aveva proferito, a tal punto che ogni immagine sembrava assumere un suono. “Non pagherò più le tue sedute dalla psicoterapeuta” aveva osato dirgli la madre. E ora egli non riusciva a darsi pace. “Come ha potuto attaccarmi in questo modo?” si chiedeva sempre più sconcertato e nauseato. Sì, da un po’ andava in terapia a causa di alcuni attacchi di panico che lo paralizzavano prima di ogni compito in classe, ma la madre aveva accettato controvoglia questa soluzione, poiché la psicoterapeuta non s’era mostrata accondiscendente e l’aveva esortata, in un paio di occasioni, a intraprendere un cammino psicoterapeutico; la qual cosa, per lei, risultava, a dir poco, inaccettabile, oltre che ingiuriosa. Il tumulto dei pensieri, come si può immaginare, era incontrollabile, ma, nello stesso tempo, si faceva sempre più pressante il timore di rientrare a casa e, con esso, diventava sempre più pesante il segreto, ormai custodito da mesi.

Trascorse due ore dall’inizio, dacché era uscito e non poté fare a meno di tornare sui propri passi. Esitò un bel po’ prima d’infilare la chiave nella toppa. Diede un’occhiata al telefono e si accorse che la madre gli aveva inviato almeno una ventina di messaggi, molti dei quali, purtroppo, avevano un contenuto non proprio dissimile da quelle frasi che tanta inquietudine avevano già generato in lui. Fece del proprio meglio per ignorarli e aperse la porta. S’avviò verso la propria stanza abbassando lo sguardo, nella speranza di non incrociare quello della madre. Ma la speranza fu presto e miseramente schiacciata dalla realtà.

“Quando eri piccolo, almeno mi abbracciavi e mi baciavi” esordì la donna.
“Questa è malata” mormorò tra sé il ragazzo, molto attento a non farsi sentire.

In quell’istante, in lui, maturò una specie di desiderio di vendetta. Sapeva di dover fare qualcosa: le avrebbe rivelato il segreto non più allo scopo di renderla partecipe e alla ricerca di un minimo di armonia, ma al solo scopo di farla soffrire, giacché era sicuro che la madre non avrebbe accettato neppure lontanamente la condizione che lo riguardava. Aveva desiderato a lungo e con tutto l’amore di cui era capace che la madre potesse essere, in qualche modo, una sua complice, un’alleata o anche solo un grembo sul quale si potesse poggiare la testa, versare qualche lacrima e sentirsi protetto. Ma adesso aveva una certezza: tutto ciò era materialmente impossibile; la madre aveva bisogno di cure, di cure che, comunque, rifiutava.

“Io sono gay” le urlò a squarciagola sulla faccia, continuando a ripeterlo con tutte le proprie forze: “Io sono gay io sono gay io sono gay io sono gay”

Il silenzio calò luttuoso su di loro. Il ragazzo, però, ne approfittò per ribadire ancora la propria dichiarazione: “IO… SONO… GAY…” separando con precisione le parole le une dalle altre, così da conferire a esse il giusto valore.

Il silenzio tornò a dominare la scena e la stanza sembrò rabbuiarsi, come se una densissima nube avesse avvolto ogni cosa. Il ragazzo, molto lentamente, cominciò a riprendere fiato. Curvo su sé stesso, guardava di sottecchi la madre, la quale, diversamente, cominciava a mostrare segni d’agitazione psicomotoria. “No… non è possibile, no… no” balbettava sottovoce, quasi salmodiando: “Tu non sei gay. Dove ho sbagliato? Perché? Che schifo! Non posso accettarlo…”. Mentre recitava queste formulette del disprezzo e della disperazione, aveva lo sguardo spento e smarrito, sebbene dal tremore che percorreva il suo corpo si potesse scorgere la collera che stava per esplodere.

“Stasera, verrai con me al cammino neocatecumenale. Non si discute! Dobbiamo chiedere aiuto al signore.” sentenziò la donna.
“No, io non vengo da nessuna parte. Non sono malato e non sono posseduto” rispose il ragazzo piangendo.
“Chi è?” chiese la madre ignorando il rifiuto del figlio.

Il ragazzo avrebbe potuto mentire, come aveva fatto tante altre volte, ma non era più disposto a nascondersi, non voleva più calpestare i propri sentimenti, in specie davanti a colei dalla quale si aspettava accoglienza, amore e protezione.

“È… lo conosci molto bene. Era qui ieri, abbiamo studiato insieme.” disse, senza avere il coraggio di pronunciare il suo nome.
“Che schifo! Questo ragazzo non metterà più piede nella mia casa. Mi ha ingannata in modo vergognoso!”
“Mamma… per favore, smettila!”

Ma la donna era inarrestabile; continuava a borbottare e a lamentarsi di tutto, non preoccupandosi della resistenza psicologica del figlio, attaccandolo in ogni modo possibile e, non di rado, oltraggiandolo esplicitamente, convinta – chissà perché – che gl’insulti avrebbero fatto cambiare orientamento sessuale al figlio.

Accadde, però, qualcosa d’inaspettato. Il ragazzo, di colpo, si rasserenò. La madre continuava nel proprio incredibile e disgustoso vaniloquio, ma egli cominciò ad osservarla con un certo distacco, sordo agl’improperi che da lei gli giungevano in gran quantità. Anzi, la sua bocca si slargò in un sorriso di superiorità che sarebbe potuto sembrare anche un ghigno. Forse, a dire il vero, era un po’ l’uno e un po’ l’altro. Il ragazzo aveva trovato dentro di sé una strana pace, qualcosa che lo faceva sentire superiore. Non era mai stato uno sgobbone a scuola, pur avendo buoni voti, ma aveva già sentito parlare dei primi filosofi e dei primi poeti della Grecia antica e, in quei frammenti del pensiero, adesso, senza comprenderne appieno il motivo, trovava grande conforto. Forse, non gli avrebbero fatto vincere alcuna battaglia, ma di certo l’avrebbero reso libero di amare e, soprattutto, di pensare l’amore.

Così, richiamando alla memoria versi e aforismi, rivolse uno sguardo di compatimento alla madre, la salutò con pacatezza e lasciò nuovamente la casa. Era giunto il momento d’andare ad riabbracciare il fidanzato.

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