Memoria del martirio: apofonia e pragmatica della radice *(s)mer

Se ti è piaciuto, condividi!
col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae, agendo da scrupolosissimo lessicografo della fede, è talmente perentorio e intransigente da non concedere altra opportunità d’interpretazione da quella che si ottiene mediante il significato letterale:

“La nozione di martirio esige che uno per Cristo affronti la morte (…)” [TOMMASO d’AQUINO, Summa Theologiae, vol. 4, Q. 124, art. 4, R., p. 333, 6 voll., a cura delle ESD, 1996, PDUL]

Poco prima, cioè appena quattro pagine prima nell’edizione degli studi domenicani da noi consultata, il suo pensiero appare ancora più marcato ed energico, almeno sotto il profilo dello stile:

“Lo spargimento di sangue per Cristo sostituisce il battesimo (…)” [Ibid., art. 1, S 1, p. 329]

In questo modo, diverrebbe martire unicamente colui che vivesse secondo la rinuncia alla vita, una rinuncia che, tuttavia, dovrebbe essere considerata non già come privazione, bensì quale suprema affermazione della missione e della novella di Cristo. Sarebbe troppo sbrigativo, nello stesso tempo, far coincidere in modo superficiale i due termini, martirio e morte, non altrimenti che se l’uno traducesse l’altro e, naturalmente, viceversa. Parimenti, oltre che sbrigativo, sarebbe oltremodo inesatto e fuorviante. Quel Cristo in nome del quale, secondo il Doctor Angelicus, si deve affrontare la morte, è lo stesso che assegna compiti molto precisi ai propri apostoli: “Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” [Mt 10, 16]. Un invio che fosse anche una condanna a morte indiretta costituirebbe una sorta di invalidamento della funzione apostolica o, per lo meno, un suo indebolimento, una riduzione dogmatica dell’efficacia della predicazione a venire. Negli Atti degli Apostoli [2, 2-11], se ne ha la conferma: “Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi (…) Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: – Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio –“. L’effusione dello Spirito Santo e la glossolalia sono gli eventi senza i quali non si può neppure istituire il ruolo di ἀπόστολος (apòstolos, inviato, dal verbo ἀποστέλλω, inviare). Dunque, il martire, dev’essere, sì, pronto a versare il proprio sangue per Cristo, ma, per Cristo, è, anzitutto, un esecutore, un ποιητής (poietès) in quanto creatore o fabbricatore della fede, colui che induce in conversione e per la conversione rinuncia a sé stesso. Tra le beatitudini, non passa sotto silenzio, indubbiamente, quella secondo cui i perseguitati per causa della giustizia sono beati [Mt 5, 10], ma questa giustizia dev’essere compiuta. Diversamente, non avrebbe senso la pericope lucana in cui il Maestro istruisce i propri discepoli: ὑμεῖς ⸀ἐστε μάρτυρες τούτων [hymèis este màrtyres toùton, di queste cose voi siete testimoni (Lc 24, 48)]. Ed è risaputo che sono numerose le circostanze in cui Cristo dà istruzioni simili a chi lo ascolta. Ancora, negli Atti [1, 8], leggiamo la stessa formula che nel capitolo 2 è sancita dal prodigio: ἔσεσθέ ⸀μου μάρτυρες ἔν τε Ἰερουσαλὴμ [èsesthe mou màrtyres en te Ierousalèm, sarete testimoni per me a Gerusalemme]. Qui, è doveroso e interessante mettere in evidenza l’uso dell’indicativo in entrambi i frammenti, quello di Luca e quello degli Atti, e, in particolare, del presente, in occasione del solenne insegnamento, un che di certo e, di conseguenza, affidato alla durata, e del futuro, nel caso d’una specie d’annunciazione. Si noti, a quest’ultimo proposito, che il futuro greco, molto probabilmente, deriva da un congiuntivo aoristo, con valore desiderativo, non avendo una corrispondente forma indoeuropea. La componente desiderativa rappresenta una proiezione dell’azione verso qualcosa che va oltre il momento dell’enunciazione. Quindi, un redattore dell’epoca possedeva, in tal senso, un habitus linguistico diverso da quello cui noi, nel separare nettamente ciò che è da ciò che sarà, siamo abituati. Per lui, il “sarà” era, dunque, una manifestazione di ciò che “è”. Tale precisazione – si badi bene! – appartiene al piano della congettura, per quanto questa abbia una base scientifica. Il motivo è presto detto: non abbiamo un riscontro ermeneutico idoneo a giustificare le intenzioni dell’autore.

A ogni modo, oggi, la parola martire fa pensare immediatamente a quegli apostoli d’ogni tempo che sopportarono fieramente persecuzioni e torture e accettarono la morte, pur di testimoniare gl’insegnamenti di Cristo. Meno di frequente, si pensa ai protagonisti del cristianesimo primitivo, che ebbero come principi da testimoniare la passione e la resurrezione del Maestro. Dev’essere chiaro che non si tratta di dispute teologiche o filosofiche. Colui che rende una testimonianza è, originariamente, colui che possiede una conoscenza, ha appreso qualcosa, quali che ne siano la natura e la fonte. Nel frammento degli Atti summenzionato, abbiamo letto che ἤρξαντο λαλεῖν ἑτέραις γλώσσαις [èrxanto lalèin hetèrais glòssais, cominciarono a parlare in altre lingue (2, 4)]: ἤρξαντο (èrxanto, cominciarono) è l’aoristo di ἄρχεσθαι (àrchestai), un verbo che, al medio, assume il significato di cominciare, per l’appunto, ma che, nella diatesi attiva, significa esser primo, precedere. Non possiamo quindi escludere che il ricorso alla forma media, in luogo di quella attiva, ἦρξα (èrxa), indichi la forte dinamicità che il narratore intendeva esprimere nell’ambito della fenomenologia della designazione. Il μάρτυς (màrtys, testimone) ha un compito e conosce bene ciò che gli è stato insegnato; deve agire nel nome del Maestro, rievocandone gl’insegnamenti, facendo uso della memoria e avendo cura delle parole. Solo successivamente, nell’esercizio del proprio μαρτύριον (martỳrion, testimonianza), diverrà il martire che sparge il proprio sangue e, per ciò stesso, verrà ricordato e celebrato come eroe della cristianità. Già in greco, dunque, com’è attestato sia da Montanari [1995] sia da ROCCI [1998], μάρτυς ha i significati di testimone, colui che ha visto, testimone della fede, martire, martire sopravvissuto a torture (greco ecclesiastico).

καί τε κασιγνήτῳ γελάσας ἐπὶ μάρτυρα θέσθαι: kai te kasighnèto ghelàsas epì màrtyra thèsthai [anche scherzando con (tuo) fratello, abbi un testimone (ESIODO, Le opere e i giorni, 371, in Opere, a cura di A. Colonna, 1977, UTET, Torino, p. 270)].

οἱ δ’αὐτοὶ νεύματι βασιλέως καὶ μαρτύρων ἡμέρας ἐτίμων καιρούς θ’ ἑορτῶν ἐκκλεσίαις ἐδόξαζον: oi d’autòi nèumati basilèos kai martỳron hemèras etìmon kairoùs th’heortòn ekklesìais edòxazon [gli stessi, per volontà dell’imperatore erano anche tenuti a onorare le ricorrenze dei martiri e celebrare le festività della Chiesa (EUSEBIO DI CESAREA, Vita di Costantino, IV, 23, a cura di L. Franco, 2009, BUR, Milano, pp. 366-367)].

Gl’innumerevoli intrecci che si sono formati e si prospettano tra martire, conoscenza, apprendimento, memoria e, da ultimo, l’aver cura e il ricordare non sono affatto casuali né, diversamente, sono disposti artificiosamente. Sono, al contrario, l’inevitabile esito letterario-lessicale della radice indoeuropea da cui martire trae origine, *(s)mer, della quale radice si può intuire facilmente l’evoluzione apofonica. Anche se, nel ricostruire il legame tra alcune di queste voci, non siamo agevolati da forme omografe, per converso, non possiamo neppure ipotizzare che l’accostamento comporti una certa fatica di riconoscimento. Nel caso che riguarda memoria, per esempio, si potrebbe avere un po’ di esitazione nell’associare il morfema radicale di martire, mar-, con quello di memoria, mor-, da cui si giunge a memoria per effetto di ampliamento.  Se, tuttavia, si prende in considerazione il greco μέριμνα (mèrimna), il cui significato principale è proprio memoria, allora anche un lettore inesperto, molto probabilmente, può ricomporre l’insieme semantico. A ogni modo, di là dal riesame filologico, il nucleo di significazione mediante il quale si sostanzia il legame suesposto ci conduce direttamente a una questione noetica, ovverosia a quel processo conoscitivo grazie al quale un martire è in grado di testimoniare: avere memoria, secondo i lessicografi, significa attivare una “facoltà della mente, per cui apprendiamo e riteniamo le cose o per cui ricordiamo le cose da noi percepite e apprese, sebbene siano lontane” (FORCELLINI, E., 1761-1771; CONTE, G., PIANEZZOLA, E, RANUCCI, G., 2000); in altri termini, dev’esserci stato un momento di apprendimento, come abbiamo scritto più volte. Battaglia, nel GDLI, fa una differenza con cui possiamo dare maggiore risalto alla questione noetica cui abbiamo appena fatto cenno: “Memoria differisce da reminiscenza, ricordanza, rammemorazione. Benché questi nomi si so­gliono scambiare, non pertanto memoria è quella facoltà della mente umana con la quale agevolmente si apprendono le cognizioni e fermamente si ritengono; reminiscenza è la facoltà di richiamare alla mente nostra le cose che furono già precedentemente apprese dalla memoria”. Confidiamo, a questo punto, che si comprenda meglio l’utilità del lavoro svolto in merito alla funzione dell’insegnamento cristico, che, sulle prime, poteva apparire oggetto d’una divagazione, qualcosa di slegato dalle forme della testimonianza. In latino, è piuttosto noto il perfetto logico memini, che traduciamo con “io ricordo” proprio perché, letteralmente, significa “ho richiamato alla memoria”. In pratica, si tratta di un perfetto col significato di presente. L’azionalità di “io ricordo” è fondata, dunque, ancora una volta, su un vero e proprio processo conoscitivo. In quanto all’etimo, è molto agevole risalire all’aggettivo latino mĕmŏr, memore, colui che ricorda o ha buona memoria; ed è importante sottolineare che l’attestazione del sostantivo mĕmŏrĭa è successiva a quella dell’aggettivo.

Memoria est firma animi rerum et verborum et dispositionis perceptio [La memoria è la salda capacità della mente di ritenere le idee e l’ordine degli argomenti (scil. trovati) (CICERONE, Ad C. Herennium De ratione dicendi, trad. nostra, a cura di H. Caplan, 1964, W. Heinemann, Harvard University press, London-Cambridge, p. 6)].

Ingenii signum in parvis praecipuum memoria est: eius duplex virtus, facile percipere et fideliter continere [Il sintomo più importante di intelligenza nei bambini è la memoria; la cui duplice virtù consiste nel fare capire con facilità e nel fare ricordare fedelmente (QUINTILIANO, Institutio oratoria, I, 3, 1, a cura di R. Faranda e P. Pecchiura, vol. I, 2003, UTET, Torino, pp. 106-107)].

Ch’eo nom son fori di conoscimento, / né di memora mi sento sì scorso, / che del vostro e del meo coruciamento / nom senta che se danno o pro’ ne ’mborso [UBERTINO D’AREZZO, DCCCIX (Ai, mala donna, sì male tormento), 5-8, Le antiche rime volgari, secondo la lezione del Codice vaticano 3793, vol. V, a cura di A. D’Ancona e D. Comparetti, 1888, Romagnoli-Dall’Acqua, Bologna, p. 112].

Avvalendoci di queste occorrenze, non possiamo esimerci dal ricordare la dea della memoria, la greca Μνημοσύνη (Mnemosỳne): lo facciamo non già per far notare, ancora una volta, ‘somiglianze e sonorità’, bensì per documentare un fatto letterario dal quale si delineano il valore semantico-funzionale e la forza pragmatica delle parole. Dall’unione di Mnemosỳne con Zeus nascono le nove Muse, Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia, Urania, Calliope, le quali, in quanto figlie della memoria, hanno ciascuna una competenza-conoscenza: dalla poesia all’astronomia, dalla danza rituale alla storia.

I concetti che giungono a noi sempre più definiti sono, indubbiamente, due o almeno due: il ritenere a lungo qualcosa che si è imparato e il poterne fare uso. L’uno e l’altro paiono inscindibili, come se, materialmente, l’uno fosse quasi impronunciabile, senza che s’implicasse direttamente e immediatamente l’altro. Le parole hanno spesso questo potere: la sola semplice enunciazione di un sostantivo, di un verbo o di un aggettivo può rivelare, inaspettatamente, e può già costituire la narrazione di nessi e nodi esistenziali in seno alla vita delle civiltà o delle comunità in cui è sorta. In questo modo, l’aggiunta del sostantivo dimora alla nostra famiglia semantica non può che ampliare e consolidare la tesi fin qui sostenuta. Dimora è un deverbale e deriva dal verbo latino dēmŏrāri, trattenersi, indugiare, sebbene il verbo originario sia mŏrāri, ritardare, cui si antepone il preverbio de-. Come scrivono Ernout e Meillet (2001), mŏrāri, nelle lingue romanze, è poco rappresentato; i parlanti hanno sostituito la forma semplice con i composti, sentiti come più espressivi, dēmŏrāri e rĕmŏrāri (trattenersi, indugiare), ambedue già in Plauto.

Quid sacerdoti me dicam hic demoratam tam diu? [Ampelisca: Che cosa dirò alla sacerdotessa del fatto che mi sono attardata tanto a lungo? (PLAUTO, Rudens, II, IV, 440, trad. nostra, Comoediae, a cura di F. Leo, vol. II, 1896, apud Weidmannos, Berlino, p. 327)].

Il senso di questa aggiunta, oltre che come arricchimento della dimensione di ricerca lessicografica in cui operiamo, è da intendersi quale recupero ed estensione dei concetti da poco introdotti: ritenere a lungo qualcosa che si è imparato e poterne fare uso: la dimora è il luogo in cui si abita e, consultando il GDLI, definiamo il dimorare come il rimanere in un luogo per un certo periodo di tempo, ma la dimora è anche qualcosa di cui abbiamo cura. Pertanto, sembra che, nella radice, prevalga un significato di legame con la lunga durata, senza il quale non avremmo la testimonianza dei martiri, la reminiscenza e la permanenza in una casa.

Che ‘n tal maniera fui adesso priso / del vostro vis, quando se giroe / ver parte quella u’ mia era dimora / che mai di voi non partì ‘l mio deviso [PANUCCIO DEL BAGNO, Canzoni, XI, 34: (sign. 1), Raccolta di rime antiche toscane, a cura di P. Notarbartolo, vol. I, 1817, G. Assenzio, Palermo, p. 507].

A questo punto, ci sembra di peccare di ridondanza, nel proporre l’analisi del sostantivo mora, che, sul Treccani e con riferimento al diritto, è descritto come ritardo ingiustificato nell’adempimento di un’obbligazione di dare o di fare, ma che, in generale, è ritardo, indugio, esitazione, rallentamento, tanto più che, nel latino di Cicerone, si rende perfettamente con ritardo.

Sed propter tarditatem sententiarum moramque rerum cum ea quae consulebantur ad exitum non pervenirent, commodissimum mihi Plancoque fratri visum est uti eo 〈senatus consulto〉 [Ma poiché a causa della lentezza delle sentenze e del ritardo delle situazioni non venivano esaurite le cose che venivano stabilite, a me e a tuo fratello Planco sembrò che la cosa più conveniente fosse di adottare quel senatoconsulto (CICERONE, Epistulae ad familiares, X, 22, LL. I-XVI, trad. nostra, a cura di D. R. Shackleton Bailey, 1988, Teubner, Stoccarda, pp. 347-348)].

In pratica, nell’analisi di ogni occorrenza, non abbiamo potuto sottrarci al dominio del tempo, sforzandoci di ricercare quelle risorse dell’ingegno con le quali l’uomo, il discepolo, il testimone e, più in generale, il parlante, talora inconsapevolmente, tentano di mutare la quantità in qualità e, di conseguenza, la qualità in manifestazione autentica degli atti linguistici vitali, quelli senza i quali si cessa di esistere. Si narra – e noi lo apprendiamo, prima di tutto, dalla biografia che ne ha fatto il nipote, e, in seconda istanza, anche tramite il saggio di Lina Bolzoni (1997) – che Pico della Mirandola avesse una mirifica e impareggiabile capacità di studio e memorizzazione, tanto da riuscire a memorizzare l’intera Divina Commedia ed essere in grado di recitarla pure a ritroso. Molto probabilmente, fin da quando era un ragazzino, leggeva e compendiava intere biblioteche: insomma, per noi e per il nostro lavoro, l’incarnazione di un processo semantico millenario o, diversamente, senza incensamenti, l’esempio di come alcuni significati possano prendere vita facilmente.

Ultime opere dell’autore

 Bibliografia

AA. VV., 2003-2004, Enciclopedia delle antichità classiche, Garzanti, Milano

BATTAGLIA, S., 1961-2002, GDLI (Grande Dizionario della Lingua Italiana), 21 voll., UTET, Torino

BEEKS, R., 2010, Etymological dictionary of Greek, A. Lubotsky, Leiden-Boston

BOLZONI, L., 1997, Scrittura e arte della memoria. Pico, Camillo e l’esperienza cinquecentesca, in Giovanni Pico della Mirandola Convegno internazionale di studi nel cinquecentesimo anniversario della morte, a cura di G. C. Garfagnini, Leo S. Olschki editore, Firenze, pp. 360-362

CALONGHI, F., 1898, Dizionario latino-italiano, secondo la sesta e ultima edizione tedesca di C. E. Georges, Rosenberg & Sellier, Torino

CAMPANINI, G., CARBONI, G., 1995, Vocabolario Latino Italiano – Italiano Latino

CANTARELLA, E., 2007, L’amore è un dio Il sesso e la polis, Feltrinelli, Milano

CASTIGLIONI, L., MARIOTTI, S., 1966, Vocabolario della lingua latina, Loescher, Torino

CESERANI, R., DOMENICHELLI, M., FASANO, P., 2007, Dizionario dei temi letterari, UTET, Torino

CHANTRAINE, P., 1968, Dictionnaire étymologique de la langue greque, Ed. Klincksieck, Paris

CONTE, G., PIANEZZOLA, E, RANUCCI, G., 2000, Il latino Vocabolario della lingua latina, Le Monnier, Firenze

CORTELAZZO, M., ZOLLI, P., 1999, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli, Bologna

DE MAURO, T., 1999-2000, Grande dizionario italiano dell’uso, 6 voll., UTET, Torino

DE VAAN, M., 2008, Etymological Dictionary of Latin and the other Italian Languages, in Indoeuropean etymological Dictionary series, vol. 7, (a cura di A. Lubotsky), Brill, Leiden

DEVOTO, G., 1966, Dizionario etimologico Avviamento alla etimologia italiana, Le Monnier, Firenze

DEVOTO, G., OLI, G. C., 1971, Dizionario della Lingua Italiana, Le Monnier, Firenze

DU CANGE, 1887, Glossarium mediae et infimae latinitatis, L. Favre, Niort

ERNOUT, A., MEILLET, A., 2001, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Klincksieck, Paris

FERRARI, A., 1999, Dizionario di mitologia greca e latina, UTET, Torino

FORCELLINI, E., 1761 (1771), Totius latinitatis lexicon, Seminario, Patavii Typis Seminarii MDCCCV apud Thomam Bettinelli

GRAVES, R., 1955, The Greek Myths, trad. it. di E. Morpurgo, 1963, I miti greci, Longanesi & C., Milano

LIDDELL, H. G., SCOTT, R., 1940, A Greek-English Lexicon, a cura di Q. Cataudella, M. Manfredi, 1975 (1982), Dizionario illustrato greco-italiano, F. Di Benedetto, Le Monnier, Firenze

MIGLIORINI, B., 1987, Storia della lingua italiana, Sansoni editore, Firenze

MONTANARI, F., 1995, Vocabolario della lingua greca, Loescher, Torino

MORANI, M., 1993, Il latino tardo, in Nuova secondaria, Studium, Roma

NESTLE-ALAND (27), 1996, Nuovo Testamento greco-italiano, a cura di B. Corsani e C. Buzzetti, testo italiano della Conferenza Episcopale Italiana, testo delle note italiane tratto dall’edizione italiana della Traduction Oecuménique de la Bible, in collaborazione con l’Istituto per la ricerca testuale del Nuovo Testamento, Müster, Westfalia, Società Biblica Britannica & Forestiera, Roma

NOCENTINI, A., PARENTI, A., 2010, Vocabolario etimologico della lingua italiana, Le Monnier, Firenze

PFISTER, M., SCHWEICKARD, W., 1979-in corso, LEI (Lessico Etimologico Italiano), Reichert Verlag, Wiersbaden

PRATI, A., 1951, VEI (Vocabolario Etimologico Italiano), Garzanti, Milano

POKORNY, J., 2007, Proto-Indo-European Etymological Dictionary, ed. digitale a cura di Indo-European Language Revival Association, ed. Associazione Dnghu

ROCCI, L., 1998, Vocabolario greco italiano, Società editrice Dante Alighieri, Roma

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *