Complesso e complicato: un equivoco semantico

Se ti è piaciuto, condividi!
col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

La lingua, talora, si presenta come un’entità autonoma, ovverosia come una proprietà della specie che, paradossalmente, si conserva e si evolve, a dispetto della specie stessa, essendo fortemente indipendente dal singolo individuo e, in genere, anche dalla coesistenza di più individui. Allo scopo di precisare meglio e più limpidamente questa caratteristica possiamo dire che la lingua è, nello stesso tempo, uno di quei pochi sistemi che meno risponderebbero alla volontà di riforma d’un qualche legislatore che decidesse d’imporre l’uso di aggettivi, sostantivi, sintagmi et cetera. Di certo, nella storia, non sono mancati i tentativi di sopraffazione linguistica, in specie da parte dei regimi totalitari, la cui propaganda è stata spesso fondata su veri e propri moduli di persuasione. Orwell, in 1984, ce ne ha fornito la trasposizione narrativa, per quanto questa fosse parossistica.

Tu credi, immagino, che il nostro compito principale consista nell’inventare parole. Neanche per idea! Noi le parole le distruggiamo (…) Che bisogno c’è di una parola che è solo l’opposto di un’altra? Ogni parola già contiene in sé stessa il suo opposto. Prendiamo ‘buono’, per esempio. Se hai a disposizione una parola come ‘buono’, che bisogno c’è di avere anche ‘cattivo’? ‘Sbuono’ andrà altrettanto bene, anzi meglio perché, a differenza dell’altra, costituisce l’opposto esatto di ‘buono’. Ancora, se desideri un’accezione più forte di ‘buono’, che senso hanno tutte quelle varianti vaghe e inutili: ‘eccellente’, ‘splendido’ e via dicendo? ‘Plusbuono’ rende perfettamente il senso, e così ‘arciplusbuono’, se ti serve qualcosa di più intenso [ORWELL, G., 1949, nineteen eighty-four, trad. it. di F. Cavagnoli, 2021, 1984, Feltrinelli, Milano, p. 55].

La comunità dei parlanti, di fatto, riesce sempre a superare qualsiasi ingerenza e, insieme, a produrre pure un che d’imprevedibile. Se, tra le altre cose, assumiamo come campo d’indagine la lingua parlata, allora l’imprevedibilità, nel tempo, può anche farsi dominante. D’altronde, in quest’ultimo caso, la grammatica non è perfettamente normata e i tratti prosodici prevalgono su quelli segmentali. Ciò che si compie come atto linguistico appartiene unicamente al canale fonico-uditivo, cosicché non sempre è facile trarne un vero oggetto di studio a scopo analitico-previsionale. Qualcuno, a questo punto, potrebbe chiedersi: – “Perché? In linguistica, si fanno previsioni?” -. No, in genere, la linguistica è descrittiva e occorre sempre parecchio tempo, prima che uno studioso possa analizzare un certo comportamento linguistico e spiegarlo riccamente. È chiaro, tuttavia, che quanto è messo per iscritto diventa un documento valido agli effetti d’una qualsivoglia indagine scientifica. Non è un caso che molti manuali di storia della letteratura o di linguistica si aprano con la descrizione dei Placiti cassinesi, risalenti al X secolo e considerati i più antichi documenti in volgare. A ogni modo, il fatto è che il sistema di linguaggio entro il quale operiamo genera fenomeni la cui potenza non è affatto controllabile; alcuni di essi, indubbiamente e a posteriori, possono essere classificati mediante brillanti etichette, ma dobbiamo essere consapevoli del fatto che, di tanto in tanto, il nostro intervento è abusivo e improprio.

Questa premessa così elaborata e, per certi aspetti, cavillosa – lo ammettiamo spregiudicatamente – è giustificata dal caso che ci accingiamo a presentare, quello che riguarda due termini, complesso e complicato, che i parlanti utilizzano per sovrapposizione, scambiandoli molto di frequente per sinonimi. In realtà, la semantica di complesso non equivale affatto a quella di complicato ed è strano che alcuni lessicografi siano così generosi da ammetterne la sinonimia. Di certo, non si rileva alcunché d’innaturale nella summenzionata sovrapposizione o, diversamente e, forse, più correttamente, nell’equivoco semantico in questione, com’è naturale che gli autori dei vocabolari prendano atto delle scelte linguistiche d’una comunità. Tuttavia, resta inspiegabile, a tratti, come spesso accade nella storia della lingua, che dei sostantivi, che nella tradizione latino-romanza sono sempre stati nettamente distinti, abbiano subito, a un certo punto, una sorta di annullamento semantico. In parte, questo annullamento – si badi bene! – è un errore bell’e buono ed è probabile che sia causato dalla somiglianza morfologica. Complesso e complicato, in effetti, si formano dalla stessa radice indoeuropea, *plek-, che significa intrecciare; la qual cosa, unitamente alla loro morfologia, come s’è detto, può avere indotto i parlanti a sovrapporne i significati. Tuttavia, complesso deriva dal verbo latino plectĕre (intrecciare), da cui si ha il composto complēcti (abbracciare, cingere, legare) e, di conseguenza, il participio passato, complexus. In realtà, il significato originario del sostantivo complesso, vale a dire abbraccio, stretta, non è contemplato dall’italiano contemporaneo, che, invece, in senso proprio, come scrive Battaglia nel GDLI, è un insieme costituito da parti, da elementi più o meno strettamente legati tra di essi. Allo stesso modo, quando si usa l’aggettivo complesso, ci si riferisce a qualcosa che risulta dalla connessione di più parti o elementi [GDLI] Dire, perciò, ad esempio, che un argomento è complesso vuol dire ammettere che l’argomento presenta, magari, non una sola, ma più cause interdipendenti. Complesso insiste sull’idea della varietà degli elementi di qualcosa e, di conseguenza, sul fatto che la comprensione di esso implica una visione ‘a più livelli’. Ciò che è complesso non è un che di difficile, come comunemente si pensa.

Coriolanus prope ut amens consternatus ab sede sua cum ferret matri obviae complexum, mulier in iram ex precibus versa “sine, priusquam complexum accipio, sciam” inquit, “ad hostem an ad filium venerim, captiva materne in castris tuis sim (…)” [Coriolano, quasi fuori di sé, balzando dal seggio si slanciò incontro alla madre per abbracciarla, ma la donna passando dalle preghiere all’ira disse: “Fa’ che io sappia, prima di accettare l’abbraccio, se sono venuta dal figlio o dal nemico, se sono prigioniera o madre nelle tue tende (…)” (LIVIO, Storie, II, 40, 5, vol. I (libri I-V), a cura di L. Perelli, 1997, UTET Torino, pp. 371-372)].

Quae nata a primo satu, quod a procreatoribus nati diliguntur et tota domus coniugio et stirpe coniungitur, serpit sensim foras, cognationibus primum, tum affinitatibus, deinde amicitiis, post vicinitatibus, tum civibus et iis, qui publice socii atque amici sunt, deinde totius complexu gentis humanae [Esso (scil. il vincolo d’affetto del genere umano), sorto fin dalla nascita, poiché i figli sono amati (sott. dai genitori) e tutta la famiglia è unita dal matrimonio e dalla discendenza, si diffonde a poco a poco al di fuori, prima con le parentele dirette, poi con le parentele acquisite, poi con le amicizie, poi con i vicini, quindi con i cittadini e con coloro che sono alleati e amici in nome dello Stato, quindi con il complesso di tutto il genere umano (CICERONE, De finibus, V, XXIII, 65, trad. nostra, a cura di H. Alanus, 1856, Hodges, Smith et soc., Dublino, p. 259)].

Al partorire uscì prima uno in colore rosso, e molto complesso, al quale fu posto nome Esaù (…) [L’Ottimo commento della Divina Commedia Testo inedito d’un contemporaneo di Dante, XIV sec., tomo III (Paradiso), nota al verso 67, a cura di A. Torri, 1829, Niccolò Capurro, Pisa, p. 710 (rigo 16)].

Nelle tre occorrenze letterarie, possiamo rilevare, rispettivamente, il senso proprio, quello traslato e, da ultimo, il passaggio semantico che, in epoca romanza, poteva dirsi quasi compiuto, sebbene nell’ultimo frammento complesso assuma il valore di robusto. Diversa, invece, risulta la storia semantica di complicato, che trae origine non già da plectĕre, bensì da plĭcāre, piegare, avvolgere, ripiegare. Complicato, dunque, rimanda a qualcosa che potrebbe essere semplice, cioè senza pieghe, ma è così piegato, avviluppato, da risultare oscuro. Se diciamo che un libro affronta gli argomenti in maniera complicata, intendiamo dire che quel libro manca di chiarezza. Il ricorso al GDLI può aiutarci, ancora una volta, a definire più chiaramente la pragmatica della voce di cui ci stiamo occupando. Ciò che è complicato è aggrovigliato, confuso, difficile a risolversi, pieno di contrasti, di contraddizioni, tormentato da problemi, da incertezze (una persona, il suo carattere, i suoi sentimenti), qualcuno che si esprime in modo involuto, poco chiaro (un oratore, un artista). A tal proposito, è interessante notare che l’elemento suffissale -plex, in latino, è parte di aggettivi moltiplicativi come simplex, duplex, triplex, cioè piegato una volta, due volte, tre volte e così via. La metafora delle pieghe, quindi, si traduce, per traslazione, nella difficoltà o nell’oscurità di ciò che siamo soliti definire complicato. In italiano, i verbi implicare, complicare, applicare, moltiplicare et similia sono tutti esiti di plĭcāre e, in quanto tali, recano in sé l’idea del piegare o dell’avvolgere le cose in modo tale da generare un certo livello di difficoltà. Per contro, un vero come esplicare indica, evidentemente, l’atto del togliere le pieghe, cioè di semplificare le cose.

At vero, si qui voluerit animi sui complicatam notionem evolvere, iam se ipse doceat eum virum bonum esse, qui prosit, quibus possit, noceat nemini nisi lacessitus iniuria [Ma se qualcuno vorrà sviluppare il concetto oscuro del proprio animo, insegni a sé stesso che è uomo onesto colui che giova a quelli che può e a nessuno nuoce se non provocato da offesa (CICERONE, De officiis, III, 19, 76, trad. nostra, a cura di R. Sabbadini, 1911, Loescher, Torino, p. 167)].

Il discorso appena fatto, con riferimento al suffisso plex-, ci conduce direttamente all’aggettivo complex, complice, compagno, ma anche tortuoso, intricato. Complex è composto da cum e plico, valendo, di conseguenza, come colui che è coinvolto e assumendo per lo più accezione negativa, com’è attestato anche nel frammento di Isidoro di Siviglia che riportiamo di seguito.

Conplex, quia uno peccato vel crimine alteri est adplicatus ad malum; ad bonum vero numquam dicimus conplicem [Complice, in quanto si è unito ad altri nel compimento di un peccato o crimine: si usa unicamente in senso cattivo, perché non parliamo mai di complice con riferimento ad una buona azione (ISIDORO DI SIVIGLIA, Etimologie o Origini, X (De vocabulis), a cura di A. Valastro Canale, 2013, UTET, Torino, pp. 865-898)].

Analizzando sia l’aspetto sociolinguistico sia quello storico-filologico di complesso e complicato, abbiamo osservato che dalla radice *plek- si sono generati due domini semantici ben distinti l’uno dall’altro, quello che si struttura su plĭcāre e quello che si struttura su plectĕre. La loro solidità, in teoria, non dovrebbe dare adito a fraintendimenti, anche se ci rendiamo conto che questa considerazione può ritenersi valida unicamente sulla base di una valutazione prevalentemente diastratica e, in parte, diamesica. Non stiamo di certo affermando che certi equivoci sono scandalosi, in specie negli ambiti di medio-bassa scolarità. In tal senso, è sempre opportuno ribadire che, in linguistica, si studiano i fenomeni, senza trarne un giudizio morale.

A questo punto, cioè dopo che abbiamo illustrato le caratteristiche di due insiemi e ne abbiamo studiato derivazioni, slittamenti e possibili sovrapposizioni, vale la pena di dedicarsi a un sostantivo che ha subito una radicale trasformazione, lungo il continuum linguistico-evolutivo, sebbene questa trasformazione sia logica e, tutto sommato, conforme alla sua identità morfologica. Tra le altre cose, proprio l’osservazione della sua identità morfologica ci aiuta a comprendere come un termine possa essere inteso ed, eventualmente, nel tempo, modificato. Il sostantivo in questione è amplesso, che i più riconoscono come congiungimento carnale, coito. Si tratta di un altro membro della famiglia semantica di plectĕre, deriva da amplexŭs, participio passato di amplēcti, abbracciare, prendere possesso, impadronirsi, racchiudere, e, di fatto, si può rendere semplicemente con abbraccio. Se, come abbiamo anticipato, osserviamo attentamente la sua struttura, ci rendiamo conto che esso è composto da am(bi), intorno, e plectĕre [CORTELAZZO, M., ZOLLI, P., 1999], cosicché la sua naturale e letterale traduzione coincide con intrecciare intorno. Non è difficile intuire, di conseguenza, come dall’intrecciare intorno, dal cingere, si sia passati all’unione sessuale.

Nella letteratura latina, amplesso, come si può facilmente notare, ha il chiaro significato di abbraccio.

Tu faciem illius noctem non amplius unam / falle dolo et notos pueri puer indue voltus, / ut, cum te gremio accipiet laetissima Dido / regalis inter mensas laticemque Lyaeum, / cum dabit amplexus atque oscula dulcia figet, / occultum inspires ignem fallasque veneno [Tu il suo aspetto per la notte, non più d’una, / fingi e il noto sembiante del fanciullo, tu, fanciullo, rivesti. / E quando sulle ginocchia ti accoglierà troppo felice Didone / nel mezzo del regale banchetto e tra il liquido di Lieo, / quando, stringendoti fra le braccia, dolci baci ti stamperà sul volto, / occulto le ispirerai il tuo fuoco e senza parere l’intossicherai (VIRGILIO, Eneide, I, 683-688, in Opere, a cura di C. Carena, 1971, UTET pp. 330-331)].

Diversamente, nei versi di Carducci, troviamo già il senso dell’interpretazione amorosa.

E sentirai dal giovanile amplesso / nuovo sangue a le tue vene fluir [CARDUCCI, G., Giambi ed epodi, I, Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti (VI), II, 39-40 in Poesie di Giosuè Carducci, 1850-1900, Zanichelli, Bologna, p. 416].

Non possiamo di certo trascurare che l’amplesso-abbraccio, nella letteratura delle origini, ha assunto un valore quasi cosmogonico e, quando non è accaduto, è stato causa di grandi dissidi genetici; la qual cosa può aver costituito, innegabilmente, una sorta di archetipo linguistico, qualcosa di cui non siamo consapevoli, ma che incide profondamente sul nostro modo di raccontare il coito. Nella mitologia egizia, per esempio, prima ancora che la terra esistesse, Nut (Cielo) e Geb (Terra) erano talmente uniti da permanere in un amplesso che determinava il caos del mondo. Il dio Ra, però, disapprovando l’amore incestuoso di Nut e Geb, ordinò al dio Shu, loro padre, di separarli. Allora, Shu dovette sollevare Nut al di sopra di Geb ed ella, tenendo solo la punta dei piedi e delle mani sulla Terra, prese la forma di un grande arco stellato, da cui ebbe inizio il cosmo. Il desiderio di Nut di congiungersi in amplesso con il fratello Geb era così forte che Shu dovette rimanere per sempre a sostenere il ventre di Nut per tenerla separata da Geb. Ra aggiunse alla condanna di Nut una maledizione, a causa della quale ella non avrebbe potuto generare figli in alcun mese dell’anno. Il dio Toth, tuttavia, mosso a pietà dal dolore di Nut, aggirò il divieto sfidando a dadi la Luna e vincendo cinque giorni da aggiungere all’anno, in mesi diversi. Proprio in questi cinque giorni, Nut, che, pur separata dal fratello, portava già nel proprio corpo il suo seme, poté partorire cinque figli: Iside, Nefti, Osiride, Seth e Horus.

Se vuoi leggere le ultime pubblicazioni dell’autore, clicca sulle immagini!

Bibliografia minima essenziale

BEEKS, R., 2010, Etymological dictionary of Greek, A. Lubotsky, Leiden-Boston

BENVENISTE, E., 1969, Le vocabulaire des institutions indo-européens, trad. it. M. Liborio, 1976, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino

BERRUTO, G., Varietà diamesiche, diastratiche, diafasiche, in SOBRERO, A. A., 1993, Introduzione all’italiano contemporaneo La variazione e gli usi, Laterza, Roma-Bari

CALONGHI, F., 1898, Dizionario latino-italiano, secondo la sesta e ultima edizione tedesca di C. E. Georges, Rosenberg & Sellier, Torino

CAMPANINI, G., CARBONI, G., 1995, Vocabolario Latino Italiano – Italiano Latino, Paravia, Torino

CASTIGLIONI, L., MARIOTTI, S., 1966, Vocabolario della lingua latina, Loescher, Torino

CHIESA, P., 2019, La trasmissione dei testi latini Storia e metodo critico, Carocci, Roma

CONTE, G., PIANEZZOLA, E, RANUCCI, G., 2000, Il latino Vocabolario della lingua latina, Le Monnier, Firenze

CORTELAZZO, M., ZOLLI, P., 1999, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli, Bologna

D’ACHILLE, P., 2003, L’italiano contemporaneo, Bologna, il Mulino

DE MAURO, T., 1999, Come parlano gli italiani, La Nuova Italia, Firenze

DE MAURO, T., 1999-2000, Grande dizionario italiano dell’uso, 6 voll., UTET, Torino

DE VAAN, M., 2008, Etymological Dictionary of Latin and the other Italian Languages, in Indoeuropean etymological Dictionary series, vol. 7, (a cura di A. Lubotsky), Brill, Leiden

DEVOTO, G., 1966, Dizionario etimologico Avviamento alla etimologia italiana, Le Monnier, Firenze

DEVOTO, G., OLI, G. C., 1971, Dizionario della Lingua Italiana, Le Monnier, Firenze

DU CANGE, 1887, Glossarium mediae et infimae latinitatis, L. Favre, Niort

ERNOUT, A., MEILLET, A., 2001, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Klincksieck, Paris

FORCELLINI, E., 1761 (1771), Totius latinitatis lexicon, Seminario, Patavii Typis Seminarii MDCCCV apud Thomam Bettinelli

LA MAGNA, G., ANNARATONE, A., 1967, Vocabolario greco-italiano, Carlo Signorelli, Milano

LAUSBERG, H., 1969, Romanische Sprachwissenschaft, trad. it. di N. Pasero, 1976, Linguistica Romanza, Feltrinelli, Milano

MIGLIORINI, B., 1987, Storia della lingua italiana, Sansoni editore, Firenze

MONAGHAN, P., 2014, Encyclopedia of goddesses & heroines, New world library, Novato (California)

NOCENTINI, A., PARENTI, A., 2010, Vocabolario etimologico della lingua italiana, Le Monnier, Firenze

POKORNY, J., 2007, Proto-Indo-European Etymological Dictionary, ed. digitale a cura di Indo-European Language Revival Association, ed. Associazione Dnghu

VALPY, F. E. J., 1828, Etymological Dictionary of Latin Language, Baldwin, Longman, Whittaker & Co., London

VARVARO, A., 2001, Linguistica romanza Corso introduttivo, Liguori, Napoli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *