Occhi chiusi, labbra serrate: iniziazione e semantica del mistero

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col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

1. Dev’essere così e non altrimenti: l’elmo di Ade o la raccolta dei fiori

Δήμητερ ἡ θρέψασα τὴν ἐμὴν φρένα, / εἶναί με τῶν σῶν ἄξιον μυστηρίων: Dèmeter he thrèpsasaten emèn phrèna, / èinaì me ton son àxion mysterìon [Demetra che hai nutrito il mio spirito, / possa io essere degno dei tuoi misteri! (ARISTOFANE, Le rane, 886-887, a cura di D. Del Corno, 1985, Lorenzo Valla, Milano, pp. 92-93)]

Echeggiano, nella piana di Nysa, le grida di dolore della dea: Demetra, sorella di Zeus, abitante dell’Olimpo, superiore per ontogenesi e mitopoiesi agli uomini e, in apparenza, estranea alle loro sventure, eppure privata improvvisamente della figlia, tradita dai propri pari e, per certi aspetti, dai membri del supremo consesso di cui è parte. Persefone stava candidamente raccogliendo dei fiori, quando Ade la fece sprofondare in una voragine. La donna-madre si contorce dal dolore, vaga per giorni alla ricerca della figlia, ma, per imperscrutabile paradosso, ignora la trama e le circostanze della disgrazia, non conosce la causa e il fine della tragedia, non è in grado di rivelare l’identità del sommo sequestratore. È una dea dimidiata oppure, sta sperimentando, per la prima volta, l’annientamento della propria natura originaria. Avvolta nell’oscurità, è soggetta al tempo dell’angoscia e della frustrazione, che rende tutto ciò che accade diverso da ciò che è sempre stato: nella diversità estrema, forma di separazione da ciò che vedono come rassicurante, gli uomini rischiano di soccombere. Ma che dire degli dei? Anche gli dei devono misurarsi con la privazione, scossi da lutti, lacrime e strazio? Forse, la stessa tentazione di esistere, cui nessuna forma d’essere può sottrarsi, si fonda semplicemente sul momento nullo della libertà. Ade domina il regno dell’invisibile, è l’imminenza d’una perdita sempre possibile, è ‘condizionatezza’ dell’essere, signore dei καταχθόνιοι (katachthònioi, morti), di coloro che sono caduti, che non ci sono più e, in virtù di quest’ultima attestazione di potere, ogni sua manifestazione non può che mutarsi in assenza di qualcuno o qualcosa. Secondo una ricostruzione etimologica molto ricca e convincente, ma che – bisogna dirlo – non mette d’accordo tutti gli studiosi, il suo nome pretto,  Ἅιδης (Hàides), è composto da un alfa privativo, dalla radice del verbo vedere -ιδ (-id) e dalla desinenza -ης (-es) degli aggettivi della seconda classe con tema, per l’appunto, in -ες (-es). Dunque, Ade è colui che rende invisibile: il suo elmo, la κυνῆ (kynè), non a caso, per dettato mitologico, rende invisibili coloro che lo indossano: un copricapo magico che troverebbe ampio spazio in una morfologia della fiaba ante litteram quale oggetto ineliminabile lungo il continuum di riconquista dell’eroe-protagonista. Demetra non sa e non può sapere, non vede e non può vedere. Chi le dà le prime informazioni sulla scomparsa di Persefone, Ecate, le dice solo di avere udito delle urla, ma ammette di non aver visto il rapitore. A una sola divinità è concessa la violazione, ovverosia a Ἥλιος (Hèlios) che, opportunamente, nell’Iliade (III, 277), è presentato come Ἠέλιός θ’, ὃς πάντ’ ἐφορᾷς καὶ πάντ’ ἐπακούεις (Eèliòs th’,hos pànt’ephoràs kai pànt’epakoùeis, Sole, che tutti vedi e tutti ascolti). Ai mortali resterebbe unicamente la gestione del proprio stato d’animo, esposti ora al pericolo del delirio ora a quello d’una follia senza remissione. Alla dea delle messi, invece, compete l’ufficio d’un potere alieno, che non tarda ad esercitare: abbandona l’Olimpo e si rifiuta di concedere il raccolto agli uomini. Da ultimo, assume le sembianze d’una vecchia e si reca ad Eleusi, dove viene accolta dal re Celeo. Tuttavia, ciò che, sulle prime, si configura come una vendetta della dea e che ci viene narrato come tale, in realtà, lascia intravedere i prodromi dell’annientamento dell’assoluto, di quelle entità somme che sono costrette – anch’esse – ad esistere, a superare una prova e volgere lo sguardo al male e alla sofferenza per riaffermarsi.

“Se ci si chiede da dove provenga il male, la risposta è questa: dalla natura ideale della creatura, in quanto essa dipende dalle verità eterne, che sono contenute nell’intelletto divino, ma non dalla volontà di Dio”[1]

Il buio e l’assenza di suoni e immagini sono la prima vera prova che colui che accetta d’esistere, non potendo, d’altronde, agire in altro modo, deve affrontare e, in questa epifania del puro essere, unico contatto possibile, trova compimento la dialettica tra umano e divino, manifestandosi non già come evento spettacolare, bensì come esperienza elementare, semplice, incontaminata: ‘mentre si raccolgono fiori’, ovverosia sul limite del non-fare, del distacco dalle cose del mondo. A un dio può riuscire di godere dell’assenza delle cose. Molto di rado, all’uomo! Ma la stessa Demetra rinuncia finanche al proprio nome, presentandosi come Doso e mentendo sulla propria storia. Il suo dolore non viene fatto esistere, è taciuto a lungo. La πότνια (pòtnia, signora, padrona) dei frutti della terra, che riproponiamo così in virtù delle origini indoeuropee (*pòt-n-ih) [BEEKS, 2010] che, nonostante tutto, ne connotano il potere, stenta parecchio ad accettare la propria sorte e, a un certo punto, viene pure scoperta, beffata da sé stessa e dalla propria imperizia, non rendendosi conto che nessun artificio e nessuna menzogna sono efficaci contro il buio e l’assenza. Si può mentire solo a chi ci guarda negli occhi. Metanira, la madre di Demofonte, di cui Doso-Demetra diventa nutrice, vede ciò che la dea nasconde. La disfatta è così reduplicata e la signora non può fare altro che infuriarsi, mostrando appieno il lato oscuro del potere divino: oltre a insistere nel mantenere gli uomini nello stato di carestia, pretende che le erigano un tempio sul monte Callicoro. L’interpretazione dell’ira divina, in questo caso, è, ancora una volta, paradossale: gli uomini non vengono puniti per qualche inadempienza, per oltraggio o per qualche gesto prometeico; anzi, riceveranno pure gl’insegnamenti essenziali allo svolgimento d’un sacro rito; vengono puniti, tuttavia, per il semplice fatto d’avere agito, perché dev’essere così e non altrimenti e la loro azione si compie sempre per necessità, giammai quale azione in sé e per sé. La dea, al contrario, pur subendo la prova, afferma la propria volontà, può far sì che la propria collera e la propria angoscia si espandano e ricadano su qualcuno, che deve rendergliene conto. Naturalmente, non le basta, cosicché si ritira in isolamento sul monte Callicoro, dove il dolore per la perdita si fa ingovernabile. Ancora una volta, è costretta ad essere ed esistere, a vivere di privazione e in separazione. A nulla valgono gli sforzi degli dei e le relative ambasciate, almeno fino a quando Zeus, costretto anche lui a piegarsi, cioè ad ascoltare le invocazioni degli uomini, invia Ermes presso Ade per intimargli di restituire Persefone alla madre. L’intimazione di Zeus va a buon fine, per così dire, ma il signore dell’invisibile non può ammettere lo sguardo-per-l’altro: tutto ciò che passa da lui – e da lui, giocoforza, deve passare, a lui torna. La prova del buio non ha fine, cosicché Persefone, incauta, si ciba dei frutti inferi ed è costretta a trascorrere un terzo dell’anno nel cosiddetto oltretomba. Demetra, da ultimo, la riabbraccia e la gioia che ne scaturisce fa rifiorire la terra, ma la libertà dell’essere e della vita, umana o divina che sia, resta intrappolata nel μυστήριον (mystèrion, mistero), cioè in una pratica rituale inesausta e la cui realizzazione migliora di perdita in perdita. Nello stesso tempo, il μυστήριον non è altro dall’e(n)-m-pèira, ossia dall’esser nella prova, è la raccolta dei fiori.        

2. Oltre il dolore degli dei: il mistero, il rito

Il μύστης (mỳstes, iniziato) eleusino prendeva parte al rito con sofferenza e paura; in qualche modo, pur approssimandosi a incontrare la morte, doveva trionfare su di essa, lasciarsi attraversare dall’εὐσέβεια (eusèbeia), cioè da pietà, timore e venerazione, al tempo stesso. Ogni suo gesto e ogni sua parola ricreavano lo stato di prostrazione della dea in cerca della figlia. Un qualsivoglia errore, tuttavia, avrebbe comportato l’esclusione dai misteri e l’infertilità della terra, disdoro e danno incommensurabili. Così, egli, nel mese di Antesterione (febbraio-marzo), faceva un bagno purificatore in mare, recando con sé un maialino da sacrificare, come se la morte dell’animale rappresentasse quella di Persefone. Uscendo dall’acqua, si vestiva d’una pelle di montone e, con una torcia spenta tra le mani, s’inginocchiava davanti a una sacerdotessa. A questo punto, cominciava per lui, molto probabilmente, il più duro dei cimenti: l’attesa, l’obbligo del silenzio, che lo separavano dai non iniziati e lo privavano sempre di più della possibilità di agire per riconquistare sé stesso e il proprio ruolo rispetto alla terra: l’uomo che sta per perdere qualcosa, in genere, avverte come sovrastante e opprimente l’imminenza dell’annientamento; l’uomo che non può fare alcunché per evitare la perdita teme di non poter più essere un uomo; l’uomo purificato e in attesa dei grandi misteri, invece, non può fare altro che camminare sull’orlo d’un precipizio fino al raggiungimento d’un luogo sicuro, senza la certezza di poterne trovare uno. Qui, si esplica il vero significato di εὐσέβεια (eusèbeia) e il mistero si completa in senso e significato: εὐσέβεια è un sostantivo composto da ευ- (eu-, bene) e σέβω (sèbo, venero), ma la sua vera forza semantica proviene dalla radice σεβ- (seb-), che è collegata proprio con timore e, insieme, con rispetto. Di conseguenza, l’iniziando sperimentava il timore della perdita e quello dell’ira degli dei, verso i quali manteneva religioso rispetto.

Nell’Inno a Demetra, il messaggio è perentorio e inequivocabile: “In nessun modo è lecito profanare, indagare o palesare la sacra norma”.

ἡ δὲ κιοῦσα θεμιστοπόλοις βασιλεῦσι / δ[εῖξε,] Τριπτολέμῳ τε Διοκλεῖ τε πληξίππῳ, / Εὐμόλπου τε βίῃ Κελεῷ θ’ ἡγήτορι λαῶν, / δρησμοσύνην θ’ ἱερῶν καὶ ἐπέφραδεν ὄργια πᾶσι, / Τριπτολέμῳ τε Πολυξείνῳ τ’, ἐπὶ τοῖς δὲ Διοκλεῖ, / σεμνά, τά τ’ οὔ πως ἔστι παρεξ[ίμ]εν [οὔτε πυθέσθαι,] / οὔτ’ ἀχέειν· μέγα γάρ τι θεῶν σέβας ἰσχάνει αὐδήν: He de kioùsa themistopòlois basilèusi d[èixe,] Triptolèmo te Dioklèi te plexìppo, Eumòlpou te bìe Keleò th’heghètori laòn, dresmosỳnen th’hieròn kai epèphraden òrgia pàsi, Triptolèmo te Polyxèino t’, epì tois de Dioklèi, semnà, ta t’ou pos èsti parex[ìm]en [oùte pythèsthai], oùt’achèein. Mèga gar ti theòn sèbas ischànei audèn [Ella poi si mise in cammino e insegnò ai re che rendono giustizia / –  a Trittolemo a Diocle agitatore di cavalli, al forte Eumolpo, a Celeo signore di eserciti – / la norma del sacro rito e rivelò i misteri solenni / a Trittolemo, a Polisseno e inoltre a Diocle, / venerandi, che in nessun modo è lecito profanare, indagare / o palesare, poiché la profonda reverenza per gli dei frena la voce [(OMERO, Inno a Demetra, FHM 114, Colli 3 /A 1/, in Le religioni dei misteri, vol. 1, a cura di P. Scarpi, 2002, Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, pp. 44-45)]

In una testimonianza più tarda, quella del filologo bizantino Giovanni Tzetzes, risalente al XII secolo, leggiamo:

Eτελέσθημεν τὰ μυστήρια τῆς ἑορτῆς. τουτέστιν ἐπέγνωμεν τὰ μυστικὰ καὶ ἀπόρρητα καὶ πρὸς ἀμυήτους ἀνέκφορα. μυστέρια γαρ λέγεται διὰ τοῦτο. διὰ τὸ μύειν καὶ κλείεν τὸ στόμα τοὺς μεμυημένους καὶ μηδενὶ τῶν ἀμυήτων λέγειν αὐτά: Etelèsthemen ta mystèria tes heortès, toutèstin epègnomen ta mystikà kai apòrreta kai pros amuètous anèkphora. Mystèria gar lègetai dia toùto. Dià to mỳein kai klèien to stòma tous memyemènous kai medenì ton amyèton lèghein autà [Siamo stati iniziati ai misteri della festa, cioè abbiamo avuto conoscenza degli indicibili oggetti dei misteri, che non si possono rivelare a chi non è iniziato. Sono infatti detti misteri perché si stringono le labbra, cioè gli iniziati chiudono la bocca e non ne parlano con nessuno dei non iniziati [(GIOVANNI TZETZES, Commento ad Aristofane, Le rane, v. 456a Koster, in Le religioni dei misteri, vol. 1, a cura di P. Scarpi, 2002, Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, pp. 172-173)]

Sacrifici, abluzioni e digiuni erano inoltre i modi in cui i mỳstai accettavano di riconfigurare la propria esistenza: erano, dunque, visti come iniziati, ma non potevano raccontare il proprio essere iniziati. Giungendo il mese di Boedromione, a circa cinque mesi dal primo atto di purificazione, essi venivano convocati, si purificavano ancora una volta e, solo dopo tre giorni di digiuno, potevano recarsi ad Eleusi, ma non senza la cesta (κίστη, kìste) contenente gli ἀπόρρητα (aporrèta), gli oggetti sacri, anch’essi inaccessibili ai profani. L’edificio in cui si svolgeva la vera e propria cerimonia d’iniziazione era il τεληστήριον (telestèrion); il che non dev’essere inteso come nota di rilievo storico-architettonico che non porti alcunché di misterico al fenomeno di cui ci stiamo occupando. A ben vedere, la designazione dei luoghi, oltre a rappresentare le fasi del rito, si traduceva nella fatica di riproduzione dell’evento originario, in cui e per cui la dea-pòtnia aveva patito e fatto patire, imponendo, da ultimo, il segreto. Ogni passaggio rituale riproponeva la separazione e la perdita, era un andare a morire; cosicché lo ierofante attendeva il mỳstes nell’ἀνάκτορον (anàktoron), cioè in uno spazio sacro al centro del quale ardeva il fuoco iniziatico. Ciò che vi accadeva non è dato sapersi. Il mistero non è un segreto, pur essendolo diventato sulla bocca dei più; è, invece, qualcosa d’incomunicabile.  

3. Labbra serrate: il mistero in una radice

Nell’avvicinarsi al Maestro, i discepoli, quantunque ricchi d’esperienze e segni, mostrano sempre tanta esitazione; talora revocano in dubbio pure le sue scelte, come, per esempio, nel caso dell’episodio dell’olio di nardo che la donna versa, in casa di Simone il lebbroso, versa sul capo di Yeshùa: “Perché tutto questo spreco di olio profumato?” (Mc 14, 4). Molto di frequente, gli pongono delle domande addirittura su obiettivi e metodi. In particolare, in Mt 13, 10-11, leggiamo: Διὰ τί ἐν παραβολαῖς λαλεῖς αὐτοῖς;  ὁ δὲ ἀποκριθεὶς εἶπεν αὐτοῖς· Ὅτι ὑμῖν δέδοται γνῶναι τὰ μυστήρια τῆς βασιλείας τῶν οὐρανῶν, ἐκείνοις δὲ οὐ δέδοται: Dia ti en parabolàis lalèis autòis; ho de apokrithèis èipen autòis: hòti hymìn dèdotai ta mystèria tes basilèias ton ouranòn, ekèinois de ou dèdotai [Perché parli loro in parabole? Egli rispose: – Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato – (NESTLE-ALAND (27), 1996, Nuovo Testamento greco-italiano, a cura di B. Corsani e C. Buzzetti, testo italiano della Conferenza Episcopale Italiana, testo delle note italiane tratto dall’edizione italiana della Traduction Oecuménique de la Bible, in collaborazione con l’Istituto per la ricerca testuale del Nuovo Testamento, Müster, Westfalia, Società Biblica Britannica & Forestiera, Roma)]

La pericope matteana, resa in italiano, pur mantenendo bellezza e forza evocativa, resta sempre lacunosa, incompleta e, per certi aspetti irregolare: “Perché parli loro in parabole?” (Διὰ τί ἐν παραβολαῖς λαλεῖς αὐτοῖς; Dia ti en parabolàis lalèis autòis; chiedono i discepoli; “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato” (Ὅτι ὑμῖν δέδοται γνῶναι τὰ μυστήρια τῆς βασιλείας τῶν οὐρανῶν, ἐκείνοις δὲ οὐ δέδοται: hòti ymìn dèdotai ta mystèria tes basilèias ton ouranòn, ekèinois de ou dèdotai). L’irregolarità delle nostre traduzioni è costituita una difficile corrispondenza tra la semantica del verbo greco e quella del verbo italiano. Anzitutto, è bene mantenere l’attenzione sui μυστήρια (mystèria, misteri), che, sulle prime, sembrerebbero dei semplici segreti, accezione, questa, che, com’è noto, in epoca moderna, s’è fatta prevalente sia nella parlata medio-popolare sia in quella colta. Il Maestro afferma “a voi è dato di conoscere”, “a loro non è dato”. Battaglia, nel GDLI (1961-2002), opportunamente, scrive che uno dei significati possibili di mistero è proprio la verità di fede, ovverosia una sorta di anselmiano “credo ut intelligam” (credo per capire: S. ANSELMO D’AOSTA, Proslogion, a cura di M. J. Charlesworth, 1978, Notre Dame University Press, London, p. 114). Di conseguenza, se il mistero trascende le comuni facoltà del conoscere e, nell’immediatezza, è inspiegabile, allora esso non può essere un semplice segreto, giacché un segreto può transitare da un uomo all’altro, senz’alcun impedimento: nella sostanza, non è incomunicabile o inenarrabile. Filologi e lessicografi, però, vanno molto oltre nello studio dell’occorrenza e della sua storia, tanto da aggiungere, tra gli altri, il significato di “cerimonia religiosa”; la qual cosa ci fa tornare, ancora una volta, alla pratica, alle formule e ai modi del rito voluto e imposto dalla dea. Se adesso riflettiamo sul ruolo degli interroganti descritti da Matteo, non possiamo fare a meno di qualificarli come ‘iniziati’, come coloro che hanno, per lo meno, aderito a un culto, che, nella vicenda cristica, è, anzitutto, una missione: Δεῦτε ὀπίσω μου (dèute opìso mou), tradotto molto generosamente con “seguitemi”, ma che correttamente dovrebbe essere reso con “qui, dietro di me” (Mt 4, 19). L’iniziazione cristica è perentoria, brusca, priva di preamboli e, per certi aspetti, terribile e lacerante: “Chi non è con me è contro di me” (Mt 12, 30). Esser contro, qui, vuol dire non conoscere, sprofondare nella voragine di Ade, nel buio eterno. A tal proposito, in precedenza, abbiamo fatto riferimento a una certa incongruenza semantica. È arrivato il momento di darne conto. Quando leggiamo “perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli”, non pensiamo minimamente alla presenza dell’infinito aoristo γνῶναι (gnònai, conoscere) e a quella del perfetto indicativo medio-passivo δέδοται (dedòtai, è dato), cioè a due tempi mediante i quali l’azione si fa ora assoluta (aoristo) ora resultativa (perfetto). Una verità di fede non potrebbe essere espressa altrimenti: ciò che è dato e che, di conseguenza, ci giunge come un normale presente passivo dev’essere, giocoforza, il risultato d’un processo iniziatico. A nostro avviso, pertanto, quella parte della scuola inglese che traduce δέδοται  con “it has been granted” commette un errore grave e imperdonabile. Sullo stesso piano ermeneutico è da collocare il valore dell’infinito aoristo, pur se con le dovute differenze gnoseologico-linguistiche: il conoscere cui si riferisce Yeshùa Christòs è un conoscere puro e incondizionato, può essere oggetto unicamente della separazione estrema dal mondo: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.” (Mt 10, 34-36).

Greci, prima, e cristiani, dopo, in materia di misteri, hanno ricevuto una pesante eredità linguistica, una radice complessa e assai feconda e che, già nell’indoeuropeo, conteneva quei suoni e quelle immagini che avrebbero istruito ampiamente non solo l’intera mitopoiesi a venire, ma anche la storia della fede e delle religioni. Può apparire sbalorditivo e incredibile che si tratti d’un monosillabo occlusivo-labiale e, per giunta, con vocale chiusa: *mu-, il cui significato in origine era quello di mormorare, muggire (POKORNY, I., 2007) e che, passando al greco μυ- (my-), ha assunto, anzitutto, il valore di “onomatopea che si rende con la bocca chiusa e tono lamentoso” (CHANTRAINE, P., 1968). Μυστέριον (mystèrion, mistero) n’è un genuino derivato, pur essendo un deverbale e formandosi da μύω (mỳo, sono chiuso, serro gli occhi o chiudo la bocca). In questa elementare ridefinizione semantica, rileviamo già molte indicazioni funzionali e decisive: si passa dal parlare sommessamente o dal sussurro al serrare le labbra, attraverso un suono emesso con tono lamentoso. L’uso stesso del verbo determina l’impossibilità del dire. Nella lingua latina, il termine mystērĭum viene presentato dai lessicografi prevalentemente coi significati di rito religioso segreto, segreto, mistero et cetera, segno evidente, questo, della trasformazione e dell’adattamento del lemma. Tuttavia, la successione semantica *mu- > μύω > μυστέριον > mystērĭum non ha mai perduto la propria forza e la propria incisività: basta pensare alla celebrazione dei santi misteri nella liturgia cattolica oppure ai rituali delle scuole iniziatiche per attestarne il valore d’uso.

Giova al discorso fatto finora ricordare e documentare che Cicerone ne fa uso in due modi differenti, dei quali riportiamo l’occorrenza.

(…) tantumque eos admoneamus, ut illud, etiam si est verissimum, tacitum tamen tamquam mysterium teneant, quod negant versari in re publica sapientis.[(…) e soltanto esortiamoli a tenere nascosto come un segreto, anche se è verissimo, il fatto che essi ritengono che non sia proprio del sapiente partecipare alla vita politica (CICERONE, De Oratore, I, 17, trad. nostra, a cura di G. Sorov, 1875, Weidmannsche Buchhandlung, Berlino, p. 47)]

Sed ut tibi placebit, faciesque me in quem diem romana incidant mysteria certiorem et quo modo hiemaris. Cura ut valeas. [E tu mi informerai del giorno in cui cade la celebrazione dei misteri a Roma e mi farai sapere come hai passato l’inverno. Procura di star bene in salute. (CICERONE, Epistole ad Attico, vol. 1, I-VIII, a cura di C. Di Spigno, 1998, UTET, Torino, pp. 532-533)]

Se, alla luce di queste acquisizioni letterarie d’un Cicerone che non smette mai di stupirci per la quantità e la qualità di nozioni che ci offre, prestiamo attenzione alla nostra fraseologia, a quella che produciamo anche inconsapevolmente a proposito di mistero, ci rendiamo conto, in effetti, che la pragmatica del linguaggio è lontana dal rendere il concetto di segreto, benché la nostra percezione, al contrario, da esso sembri essere istruita. È molto probabile, allora, che “segreto” costituisca una sorta di metafora concettuale di cui ci serviamo inconsapevolmente per sviluppare i nostri enunciati di riferimento. “Quell’uomo è un mistero”, per esempio, non è sostituibile con “Quell’uomo è un segreto”, frase, quest’ultima, accettabile, ma non sinonimica. “Non fare il misterioso” impedisce addirittura la sostituzione strumentale e fittizia. “Fare mistero di qualcosa” vuol dire creare delle condizioni d’inaccessibilità per gli altri, tener qualcosa celato. E così via. Insomma, riflettendo sulle intenzioni del parlante che formula queste frasi, comprendiamo che ci si riferisce continuamente a uno stato di cose, a dei modi che caratterizzano il destinatario o l’oggetto dell’atto linguistico; in altri termini, mistero reca sempre in sé un che di rituale e rinvia la conoscenza a un numero molto limitato di persone che potrebbero condividere parole, formule e gesti, non già il racconto definito di qualcosa. Riprendendo la voce di pertinenza del GDLI (op. cit.), ne abbiamo conferma: “Ciò che si tiene segreto nella propria mente o nel proprio animo  o  che  è  conosciuto  da  un preciso  numero  di  persone,  per  lo  più  limitato, e  non  si  deve  e  non  si  vuole  rivelare  ad  altri”.

In una predica di Fra’ Giordano da Pisa, composta tra la seconda metà del XIII secolo e il primo decennio del del XIV, la referenza del mistero è quella dell’annunciazione, cioè una predizione, che, in quanto tale, ci riporta alla verità di fede, a una conoscenza per pochi. 

La  seconda  ragione  si  è  ‘propter instructionem ’,  cioè  per  ammaestrare  la  donna,  che  le fosse  stato  annunziato.  Ella  era  vergine,  e  sapea  se essere  vergine:  sarebbe  quasi  ismemorata,  se  si  fosse sentita  gravida,  cionciossiach’ella  non  conoscea  uomo, avrebbe  dubitato.  Onde  acciocché  non  si  maravigliasse, l’angelo  le  predisse  tutto  ’l  misterio. (Prediche del beato Fra’ Giordano da Rivalto, IXL, a cura di G. Silvestri, 1839, Milano, p. 452)

4. Forme della derivazione

“Mistico” è un aggettivo che, per lo più e non a torto, contrapponiamo a “razionale”, ma, nello stesso tempo, se sostantivato, designa l’uomo che dedica la propria esistenza a un’entità superiore, negando i predicati relazionali e le forme della mediazione rituale. In entrambi i casi, il presupposto è quello apofatico, secondo il quale l’uomo si riferisce a Dio dicendo ciò che Dio non è e null’altro. In greco, l’aggettivo ἀποϕατικός (apophatikòs) vuol dire, per l’appunto, negativo, è un deverbale e proviene da ἀπόϕημι (apòphemi, dire di no, rifiutare). Tale riscontro semantico potrebbe farci dubitare del legame tra mistero e mistico, anche se, com’è ovvio, la somiglianza armonica tra i due termini non può di certo sfuggire. La radice indoeuropea di cui abbiamo parlato in precedenza, *mu-, qui si sviluppa nell’accezione di qualcosa di nascosto, che non si può dire e che, come ci fanno notare CORTELAZZO e ZOLLI (1988), è sempre relativo a dei misteri. La ricostruzione etimologica non è faticosa: accertata la componente radicale, documentiamo facilmente che il latino mystĭcus proviene nitidamentedal greco μυστικός (mystikòs) e non è affatto lontano dall’afferire a quelle cerimonie o a quei rituali durante i quali l’iniziando si prova a raggiungere un superiore livello di conoscenza, almeno nelle origini greche e nell’evoluzione latino-romanza.

Clemente Alessandrino, nel parlare d’un perfetto senso mistico, descrive una tenda che impedisce l’accesso agli infedeli, cioè a coloro che non godono del privilegio iniziatico e, di conseguenza, non sono ammessi a una certa conoscenza.

Τὸ μὲν οὖν κάλυμμα κώλυμα λαικῆς ἀπιστίας ἐπίπροσθε τῶν πέντε τετάνυστο κιόνων, εἶργον τοὺς ἐν τῷ περιβόλῳ. ταύτῃ τοι μυστικώτατα πέντε ἄρτοι πρὸς τοῦ σωτῆρος κατακλῶνται καὶ πληθύνουσι τῷ ὄχλῳ τῶν ἀκροωμένων: To men oun kàlymma kòlyma laikès apistìas epìprosthe ton pènte tetànysto kiònon, èirgon tous en to peribòlo. Tàute toi mystikòtata pènte àrtoi pròs tou sotèros kataklòntai kai plethỳnousi to òchlo ton akromènon [La tenda, protezione dalla gente infedele, era tenuta distesa davanti a cinque colonne e teneva lontano coloro che si trovavano nel vestibolo. Così in modo prettamente mistico i cinque pani sono spezzati dal Salvatore e si moltiplicano per la folla di coloro che ascoltano. (CLEMENTE ALESSANDRINO, Stròmata, 5, 6, 33.4, in Opere, vol. III, trad. nostra, a cura di G. Dindorf, 1869, A. Mac Millan, Londra, p. 27)]

A supporto dell’affinità semantica, riportiamo adesso un’occorrenza delle Georgiche in cui Virgilio fa un limpido riferimento a una parte del rito d’iniziazione ai misteri eleusini. La sacerdotessa, che riceveva il candidato che aveva appena fatto il bagno purificatore in mare, agitava su di lui un vaglio per ventilare il grano.

Dicendum et, quae sint duris agrestibus arma, / quis sine nec potuere seri, nec surgere messes: / vomis et inflexi primum grave robur aratri (…) / virgea praeterea Celei vilisque supellex, / arbuteae crates et mystica vannus Iacchi. [Ora bisogna dire quali siano le armi dei rudi agricoltori:/senza di essi non si potrebbe seminare né la messe crescerebbe;/ il vomere per primo e il pesante legno del ricurvo aratro/… e inoltre gli umili utensili che Celeo intrecciava di vimini,/ i graticci di corbezzolo e il mistico vaglio di Iacco. (VIRGILIO, Georgiche, L. I, 160-163, 165-166, a cura di L. Canali e R. Scarcia, 1994, Fabbri, Milano, pp. 148-148)]

Il vaglio viene definito mistico, di là dal contesto semantico dell’agricoltura.

Il legame tra mistero e mistico, adesso, appare bell’e spiegato, oltre ad essere sostenuto e facilitato, come abbiamo detto, dalla somiglianza armonica. Il parlante, dunque, non può dirsene sorpreso. Diverso, è, invece, l’approccio che si può avere con due termini che non s’immagina provengano dalla stessa radice e il cui significato è fedelissimo a quello emerso dall’indagine sul silenzio, l’invisibile e il rito. Muto e miope, oggi, rappresentano principalmente delle circostanze patologiche, benché, per metafora, molto spesso, adottiamo i termini per indicare altro: se, per esempio, diamo del miope a qualcuno, potremmo anche voler dire che costui è una persona mediocre o priva di perspicacia.

Il latino mūtus, però, si è sviluppato proprio da una voce onomatopeica *mu-, come imitazione del verso di chi non è in grado di emettere suoni e, in ciò, s’è consolidato come voce panromanza (NOCENTINI, A., PARENTI, A., 2010). È interessante, oltre che straordinario, constatare come la ‘saga’ delle parole governi i nostri comportamenti e agisca nell’inconscio collettivo come archetipo dell’atto linguistico e, in particolare, della perlocuzione. È muto per dovere l’iniziato, come, purtroppo, lo è chi è affetto da mutismo. Abbiamo visto, a tal proposito, che il verbo greco μύειν si può tradurre con chiudere la bocca. Labbra e occhi sono strettamente connessi nel primordio della significazione e costituiscono la connotazione essenziale dell’uomo al quale si possono conferire i misteri. In origine, il miope era colui che socchiudeva gli occhi per aguzzare la vista, tant’è che miope deriva dal greco μύωψ (mỳops), sostantivo composto da μύω (mỳo, sono chiuso) e ὤψ (ops). Già in greco antico il termine indica la patologia, anche se, chiaramente, come si coglie dall’unica occorrenza proposta dai dizionari, Aristotele usa miope anche volendo intendere la condizione di chi contrae l’occhio, socchiudendolo, per vederci meglio. Stupisce che il termine, in italiano, sia registrato dal 1679 in poi, grazie a Daniello Bartoli, almeno sulla base delle fonti da noi consultate (GDLI, op. cit.).

“Come il mostrano i miopi, ancorché i lor occhi pecchino solamente nella figura del cristallino, eccessivamente globosa” (Delle opere del padre Daniello Bartoli, vol. XXXIII, 1844, Tip. G. Marietti Torino, p. 267)

Oὕτω μὲν οὖν λέγουσιν οὐχ ἁπλοῦν, τὸ δ’ εἰπεῖν τὸ τόξον φόρμιγγα ἢ τὴν ἀσπίδα φιάλην ἁπλοῦν. καὶ εἰκάζουσιν δὲ οὕτως, οἷον πιθήκῳ αὐλητήν, λύχνῳ ψακαζομένῳ [εἰς] μύωπα: hoùto men lègousin ouch haploùn, to d’eipèin to tòxon phòrminga he ten aspìda phiàlen haploùn. Kai eikàzousin de hoùtos, hòion pithèko auletèn, lýchno psakazomèno [eis] mýopa [Comunque queste similitudini non esprimono in modo essenziale, mentre il chiamare direttamente l’arco “lira” o lo scudo “coppa” è essenziale. Si realizzano similitudini anche in questo modo, ad esempio il flautista paragonato a una scimmia, il miope a una lucerna bagnata   perché in entrambi i casi si ha una contrazione . (ARISTOTELE, Retorica, 1413a, 4, a cura di F. Cannavò, 2014, Bompiani, Milano, pp. 366-367)]

Nel concludere questo studio, che, con un po’ di estro, abbiamo definito saga della parola, e attenendoci alle suggestioni linguistiche di miope e muto, vogliamo dedicarci all’esame di motto, che, come apprendiamo dal Devoto-Oli (1971), è “battuta scherzosa e arguta, generalmente piacevole, talvolta allusiva e pungente; parola e frase nella quale è compendiato, con valore esemplare e imperativo, l’assunto di una persona o di una comunità”. Ciò che ne deduciamo è la centralità di una sorta di funzione emotivo-discorsiva, un’affermazione mai priva di elementi di rottura delle aspettative del destinatario e che, in quanto tale, può rivelarsi sorprendente. Eppure, muttum, voce dotta del latino tardo, appartiene alla famiglia di mūtus, è anch’esso costruito interamente sulla radice *mu- e conserva sia il valore di mormorio, di suono indistinto, che quello del parlare sottovoce (NOCENTINI, A., PARENTI, A., 2010). Ancora una volta, i derivati di *mu- ci riconducono all’onomatopea e all’impossibilità del dire. Il vero motto, in altri termini, è quello che contiene un non-detto, un senso implicito o un codice che non tutti possono decifrare.

Quando hoc audivi a te, nec muttum tibi dixi, id est ne quidem verbum; neque cogitavi ex hoc tibi respondere” [Quando udii questo da te, non ti dissi nulla, cioè alcuna parola; né pensai perciò di risponderti (Annales Ordinis S. Benedicti, tomus secundus, L. XXXI, 74, trad. nostra, a cura di J. Mabillon, 1739, L. Venturini, Lucca, p. 555)]

Ma chi  orratamente / fina  suo  cominciato, / dalla  gente  è  laudato, / sì  come  dice  un  motto: / La  fine loda  tutto. (BRUNETTO LATINI, Tesoretto, VII, vv. 147-152, a cura di G. B. Zannoi, 1824, G. Molini, Firenze, p. 58)

5. L’inconveniente d’un epilogo inopportuno

La lingua, in specie quella comunitaria o del dialogo, è caratterizzata da fenomeni di enfatizzazione. Tutti noi, in pratica, parliamo e scriviamo per convergenza su punti di comunicazione sicura. Ciò accade, in particolare, quando i termini che usiamo determinano delle contrapposizioni, semantiche o ideologiche, cosicché chi osasse ammettere gli opposti sarebbe bollato come parlante agrammaticale o, addirittura, come pazzo. Enfatizzazione e convergenza sono fasi di un processo utile a che gli uomini s’intendano, ma l’intesa, di fatto e per lo più, è sottesa, preceduta e garantita dalla potenza archetipica delle radici verbali. Il suono, così, è anche qualcosa di prossimo al silenzio non perché i lessicografi cadano in contraddizione o sbaglino, ma perché il non dire dei misteri, verosimilmente,  in questa direttrice d’analisi, è l’unica premessa valida al buon dire, del dire che si forma dalla conoscenza di qualcosa di autentico e che non a tutti è dato. L’epilogo, naturalmente, è sempre inopportuno; lo è perché, pur sforzandoci di colmare certe lacune ontogenetiche che limitano il lògos contemporaneo, restiamo sempre molto lontani dal rispondere ai bisogni linguistici della comunità alla quale ci rivolgiamo.      

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