Ecco perché è difficile ‘amare’! Una spiegazione filologica

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col contributo di ricerca di Vittoria Cavallaro

Eros non cresceva bene. Difficile a concepirsi, eppure quello che nella fantasia comune è l’intoccabile dietto alato dell’amore, a quanto pare, aveva un difetto di sviluppo psicofisico. Afrodite, come tutte le madri, n’era molto preoccupata, tanto da rivolgersi a Themi, madre delle Moire, prima moglie di Zeus e figlia di Urano e Gea, per intenderci, che non ebbe perplessità di sorta: occorreva che lo sventurato figliolo avesse accanto un fratello; in caso contrario, non sarebbe cresciuto affatto. Afrodite non se lo fece ripetere due volte e generò Antèros. La genesi, in effetti, si rivelò la più efficace delle soluzioni, ma recò in sé una condizione: i due, Eros e Antèros, dovevano stare sempre insieme. Ogni qual volta in cui Antèros si allontanava, infatti, Eros ridiventava piccolo e debole; viceversa, in presenza del benefico fratello, riacquisiva forma e vigore (Vincentii Cartarii, Imagines deorum, a cura di Ludovico Bourgcat, 1687, J. M. Stann, Francoforte, p. 206)

Messo in questa forma pseudo-narrativa, il mito sembra alleggerire l’intreccio della sua struttura proteiforme, dando luogo unicamente a un’ermeneutica condizionale: in amore, non è pensabile che l’amato, a propria volta, non riami, a meno di voler attirare su di sé vendetta o pena. Così, pur se sbrigativamente, possiamo offrire delle figurazioni circa le conseguenze dell’allontanamento di Antèros, ovverosia l’altro, che, tuttavia, nasce per consiglio e necessità. Eros, allora, è anzitutto, in questa fase esordiale, di elaborazione delle premesse, συμβολικὴ διάλεκτος (symbolikè diàlektos), ontologia del bisogno, apertura inevitabile dell’esistente, segno di ciò che, da sé, non ha sussistenza.

È probabile che, molto di frequente, nel dire “ti amo”, si sia troppo frettolosi, giacché la dichiarazione ci sembra facile e comprensibile, ma le parole ‘provengono’ dai parlanti in modo anomalo e coprente. Esse esistono nell’uso e nello scambio, che, nella maggior parte dei casi, non rivelano il puro fatto della lingua, quell’antecedente geolinguistico che ne ha reso e ne rende possibile il significato convenzionale, nonostante gli adattamenti e i grossolani errori di ‘tanta scuola’. Di conseguenza, quando si dice che amare vuol dire provare un sentimento per qualcuno, in realtà, non s’è detto tutto, anzi, s’è detto molto poco e, in parte, s’è pure commesso un erroruccio di sostanza.

De Vaan (2008), facendo risalire la derivazione del latino ămāre al protoitalico *ama e al protoindoeuropeo *h3mh3, ci propone opportunamente i significati arcaici di prendere e trattenere. Di qui si giunge, principalmente per metamorfosi diacronica e diafasica, all’espressione prendere la mano di e al valore di un’altra espressione: legarsi a qualcuno. Il legame è perfettamente determinato dal prendere e dal trattenere, che creano l’inseparabilità tra Eros e Antèros.

Bisogna ricordare, a tal proposito, che, prim’ancora d’essere concepito fanciullesco, alato, arciere e così via, Eros, quantunque bello, era affatto aniconico; le sue origini d’altronde sono infere e cosmogoniche, almeno secondo la visione teogonica di Esiodo.

– ἤτοι μὲν πρώτιστα Χάος γένετ’· αὐτὰρ ἔπειτα / Γαῖ’ εὐρύστερνος, πάντων ἕδος ἀσφαλὲς αἰεὶ / ἀθανάτων οἳ ἔχουσι κάρη νιφόεντος Ὀλύμπου, / Τάρταρά τ’ ἠερόεντα μυχῷ χθονὸς εὐρυοδείης, / ἠδ’ Ἔρος, ὃς κάλλιστος ἐν ἀθανάτοισι θεοῖσι, / λυσιμελής, πάντων τε θεῶν πάντων τ’ ἀνθρώπων / δάμναται ἐν στήθεσσι νόον καὶ ἐπίφρονα βουλήν: – ètoi men pròtista Chàos ghènet’; autàr èpeita / Gai’ eurỳsternos, pànton hèdos asphalès aièi / athanàton hoi èchousi kàre niphòentos Olỳmpou, / Tàrtarà t’ eeròenta mychò chthonòs euryodèies, / ed’ Èros, hos kàllistos en athanàtoisi theòisi, / lysimelès, pànton te theòn pànton t’ anthròpon / dàmnatai en stèthessi nòon kai epìphrona boulèn [Dunque, per primo fu Caos, e poi / Gaia dall’ampio petto, sede sicura per sempre di tutti / gli immortali che tengono la vetta nevosa d’Olimpo, / e Tartaro nebbioso nei recessi della terra dalle ampie strade / poi Eros, il più bello fra gli immortali, / che romper le membra e di tutti gli dei e di tutti gli uomini / doma nel petto il cuore e il saggio consiglio (ESIODO, Teogonia, 116-122, a cura di G. Arrighetti, 2012, BUR, Milano, pp. 8-9)

Piacere e dolore, possesso e privazione sono dunque dialetticamente sempre presenti nella pratica d’amore; anzi sono gli unici φαινόμενα (phainòmena, fenomeni) e, nel contempo, gli unici στοιχεία (stoichèia, elementi) della narrazione o, diversamente, del fatto linguistico alla cui esposizione ciascun essere umano attende, il più delle volte non senza fatica. Nelle lettere che Jacopo Ortis, lo studente foscoliano animato e tormentato da cocenti ideali repubblicani, scrive all’amico Lorenzo Alderani, se ne legge e scopre la dura e lacrimosa pienezza. Jacopo è costretto a ritirarsi sui Colli Euganei, dove trascorre le proprie giornate per lo più in solitudine, pur dolendosi della propria condizione: il suo nome è nelle liste di proscrizione. Quivi, conosce Teresa, figlia del signor T., e se ne innamora perdutamente, sebbene la donna sia già promessa a tale Odoardo. Ama a tal punto Teresa da credere che questo amore possa essere, per lui, l’unico riscatto possibile. Un giorno, riesce pure a baciarla e ne dà notizia a Lorenzo.

Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia. Il mio ingegno è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la Beltà, io sdegnando ogni modello terreno la troverei nella mia immaginazione. O Amore! (FOSCOLO, U., Ultime lettere di Jacopo Ortis, in Opere, tomo I, a cura di F. Gavazzeni, 2004, Ricciardi, Milano – Napoli, p. 619)

L’appagamento, però, dura molto poco e Jacopo decide di uccidersi conficcandosi un pugnale nel petto. La dialettica tra piacere e dolore, propria d’ogni forma d’amore, è ancora più lacerante nei versi della Gerusalemme liberata e, in particolare, in quelli che riguardano lo scontro fra Tancredi e Clorinda. Tancredi è il campione cristiano, il più bello e valente assieme a Rinaldo; Clorinda, invece, è una pagana, di cui egli s’innamora al primo sguardo: un giorno, dopo aver messo in fuga i Persiani, Tancredi trova ristoro presso una fonte, sotto le mura di Antiochia; gli compare innanzi Clorinda priva dell’elmo; gli basta fissarla in viso per essere certo d’amarla. La sorte della guerra, tuttavia, è terribilmente avversa ai due. Successivamente, infatti, il campione cristiano ritrova la donna amata sul campo di battaglia, ma, questa volta, non la riconosce perché la sua armatura è completa. Il duello è lungo e intenso e Tancredi ha la meglio. Dopo avere infilzato Clorinda con la propria spada, fa l’insopportabile e straziante scoperta.

Ma ecco omai l’ora fatale è giunta / che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve. / Spinge egli il ferro nel bel sen di punta / che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve; / e la veste, che d’or vago trapunta / le mammelle stringea tenera e leve, / l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente / morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente (…) Poco quindi lontan nel sen del monte / scaturia mormorando un picciol rio. / Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte, / e tornò mesto al grande ufficio e pio. / Tremar sentí la man, mentre la fronte / non conosciuta ancor sciolse e scoprio. / La vide, la conobbe, e restò senza / e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza! (TASSO, T., Gerusalemme liberata, XII, 64-67, in Poesie, a cura di F. Flora, 2004, Ricciardi, Milano – Napoli, pp. 309-310)

Platone, nel Fedro, ci offre una splendida opportunità di comprensione: Antèros rappresenta la necessità d’un amore corrisposto.

Δὲ ἐν κατόπτρῳ ἐν τῷ ἐρῶντι ἑαυτὸν ὁρῶν λέληθεν. Kαὶ ὅταν μὲν ἐκεῖνος παρῇ, λήγει κατὰ ταὐτὰ ἐκείνῳ τῆς ὀδύνης, ὅταν δὲ ἀπῇ, κατὰ ταὐτὰ αὖ ποθεῖ καὶ ποθεῖται, εἴδωλον ἔρωτος ἀντέρωτα ἔχων: De en katòptro en to erònti heautòn horòn lèlethen. Kai hòtan men ekèinos parè, lèghei katà tautà ekèino tes odỳnes, hòtan de apè, katà tautà au pothèi kai pothèitai, eìdolon èrotos antèrota èchon [Egli non si accorge di vedere sé stesso nell’amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una sembianza d’amore che dell’amore è sostituto (PLATONE, Fedro, 255d, in Tutte le opere, vol. 2 a cura di E. Maltese, 1997, Newton, Roma, pp. 472-473)].

La lingua, a ben vedere e appropriandoci del linguaggio heideggeriano, è il nostro modo d’essere nel mondo, è l’incessante fenomenologia delle nostre relazioni, determina continuamente quell’ente che noi sempre siamo, cosicché l’amore, manifestandosi anzitutto in essa, si compie come funzione ottativo-assertiva. Tale compimento è verificabile nella semantica del verbo greco μάω (mào, bramo, agogno, cerco), la cui radice apofonica, μαν-/μεν- (man- / men-), come ci fa notare Rocci (1998), trae origine dall’indoeuropeo *men e giunge anche alle forme latine mens e memini: il bramare è nella mente e nel ricordo; è, sì, la ricerca di qualcosa, ma la ricerca si basa sulle conoscenze che sono già in nostro possesso.

Quest’ultima manifestazione dell’amore c’induce a rivelare l’identità di un altro dei figli di Afrodite e Ares, Ἵμερος (Hìmeros), il quale, pur essendo gemello di Eros, si caratterizza precipuamente per impeto e, spesso, per incapacità di controllo. Saffo, le cui contorsioni amorose sono state riportate nelle antologie d’ogni generazione, ne dà notizia lirica così esplicitamente da non lasciare spazio alcuno all’equivoco.

πόλλα δὲ ζαφοίταισ᾿ ἀγάνας ἐπι- / μνάσθεισ᾿ Ἄτθιδος ἰμέρωι / λέπταν ποι φρένα κ[α]ρχ̣ά̣ρ̣ω̣ι̣ βόρηται·: pòlla de zaphòitais’agànas epi- / mnàstheis’Atthidos imèroi / lèptan poi phrèna k[a]rchàroi bòretai [Spesso si aggira, / memore della delicata Attide / e nel fragile animo per il desiderio mordace quasi si divora (SAFFO, fr. 96, 15-17, Frammenti, a cura di G. Tedeschi, 2015, EUT, Trieste, p. 64)].

Nel terzo libro dell’Iliade, il più rappresentativo dell’opera con riferimento al linguaggio amoroso, durante lo scontro decisivo tra Paride e Menelao per le note ragioni legate al possesso di Elena, Menelao sta per vincere e Afrodite per sottrarre il proprio protetto alla vergogna della sconfitta o, addirittura, alla morte, lo trasferisce presso il talamo. Successivamente, nelle sembianze d’una vecchia, comanda ad Elena di recarsi da Paride. Dopo un primo rifiuto, Elena si sottopone al destino di quell’incontro concedendosi a Paride, che le si rivolge con queste parole:

Ἀλλ’ ἄγε δὴ φιλότητι τραπείομεν εὐνηθέντε· / οὐ γάρ πώ ποτέ μ’ ὧδέ γ’ ἔρως φρένας ἀμφεκάλυψεν, / οὐδ’ ὅτε σε πρῶτον Λακεδαίμονος ἐξ ἐρατεινῆς / ἔπλεον ἁρπάξας ἐν ποντοπόροισι νέεσσι, / νήσῳ δ’ ἐν Κραναῇ ἐμίγην φιλότητι καὶ εὐνῇ, / ὥς σεο νῦν ἔραμαι καί με γλυκὺς ἵμερος αἱρεῖ: All’àghe de philòteti trapèiomen eunethènte; / ou gar po potè m’ hòdè gh’ èros phrènas amphekàlypsen, / oud’hòte se pròton Lakedàimonos ex erateinès / èpleon harpàxas en pontopòroisi nèessi, / nèso d’en Kranaè emìghen philòteti kai eunè, / hos seo nyn èramai kai me glykỳs hìmeros hairèi. [Ma ora andiamo e facciamo l’amore: / non mi ha mai preso il cuore un desiderio tanto possente, / neanche quando un tempo ti rapii e navigavamo / insieme dalla bella Lacedemone sopra le navi, / e nell’isola Cranae ci unimmo per la prima volta nel letto, / come ora ti desidero, e mi prende la dolce passione (OMERO, Iliade, III, 441-446, a cura di G. Paduano, 1997, Mondadori, Milano, pp. 98-99)]

Sulla base di queste acquisizioni, è davvero avvincente notare con quale cura la sapienza greco-arcaica abbia trattato l’amore, distinguendone forme e manifestazioni. L’ Ἀγάπη (agàpe), assai cara alla tradizione cristiana anche e soprattutto per lo studio delle occorrenze neotestamentarie, rappresenta l’amore fraterno; la φιλία (philìa) è, sì, l’amicizia, ma non dobbiamo trascurare il fatto che l’amicizia giunta fino a noi è la latina amicitia, che contiene la stessa radice del verbo amare: am-. La temutissima e bistrattata fornicazione, invece, è data dal sostantivo πορνεῖα (pornèia), laddove l’ἔρος (èros) è concepito, in generale, come amore passionale. Se ne può avere un’idea leggendo, ancora una volta, i versi di Saffo:

Ἔρος δ’ ἐτὶναξέ μοι φρέναϛ, / ὠϛ ἄνεμοϛ κὰτ ὄρος δρύσιν ἐμπέτων: Èros d’etìnaxè moi phrènas, os ànemos kat òros drỳsin empètov [Eros mi ha sconvolto la mente, / come vento che irrompe contro le querce sul monte (SAFFO, fr. 47, in Frammenti, a cura di G. Tedeschi, 2015, EUT, Trieste, p. 44)].

Qui, ora, Saffo è solo un segno, come avrebbero potuto essercene tanti; tuttavia, il florilegio non è l’obiettivo di questo lavoro. È da tenere in considerazione altresì il fatto che l’essenza d’ogni lingua e, di conseguenza, d’ogni nostro atto linguistico non può mai essere causale o meramente lemmatica. Talora, anche una consonante o una vocale, come si può intuire osservando le radici, può essere epifanica.

Insomma, per amare non è sufficiente rifarsi a un buon vocabolario.

Il verbo latino che c’interessa seguire nella sua evoluzione è ămo: anche chi non ha mai aperto una grammatica latina può intuirne la traduzione. Il sostantivo latino di riferimento, invece, è ămŏr (non solo amore, affetto, ma anche persona amata, oggetto d’amore) che, nel greco ἵμερος (hìmeros) trova un corrispondente essenziale. Come abbiamo visto, Imero è figlio di Afrodite e rappresenta il desiderio irrefrenabile. L’etimo di ămo, però, come ci suggerisce Giovanni Semerano (1994) descrivendo le basi semitiche della lingua latina, ci rinvia all’accadico ḥamū, ovverosia confidare; il che potrebbe farci pensare che amare significhi costruire un’alleanza, avere fiducia in qualcuno. È

Insomma: già così, qualcosa di più complesso rispetto a un sentimento da dichiarare. A tal proposito, occorre aggiungere che l’area semantica di ămo non può essere limitata al calco semitico summenzionato. Essa, infatti, si sviluppa dall’aramaico ema, che si traduce con guardare. Dunque, bisogna guardare, fare esperienza, intuire, capire per aver fiducia in qualcuno. Amare diventa, adesso, un guardare per aver fiducia in qualcuno. Nella sua origine semitica, attestiamo, invece, amāru, cioè conoscere. Sebbene l’evoluzione di amor appaia indipendente da ămo, la ricostruzione dei significati ci conduce a una certa trasparenza: l’atto del guardare ci permette di conoscere, così da poter dare fiducia.

Lungo un itinerario pittoresco e fantasioso si muove Franco Rendich (2013), per la lettura del quale esortiamo il lettore ad avere un po’ di cautela. Ne riportiamo la riflessione perché ci sembra, comunque, affascinante. Rendich, risalendo ai morfemi funzionali dell’indoeuropeo, propone il termine kām come una sorta di corrispondente archetipico del noto sostantivo amore. Kām nascerebbe dall’unione della luce divina (ka) e della dimensione finita dell’uomo (m), che dà limite e misura all’amore. In linea col concetto di luce suesposto, qui, la traduzione di è proprio splendere, per quanto splendere sia anche desiderare. Rendich, oltre a proporre (k)amo quale glossa latina primeva, aggiunge:

Si noti che la realtà finita e mortale è creata da mātṛ́, “madre”, termine che deriva dalla radice , “misurare”, “delimitare”. L’amore è il limite, la misura [m] della gioia [ka] delle Acque luminose [ka] create da eka. Ovvero l’incontro tra ciò che è eterno [ka] e ciò che è limitato [m]”. “avvolge [k] completamente [ā]”, “desiderio”, “piacere”. Il verbo aveva lo stesso significato di kan e kam e in origine essi erano la stessa radice. Kāma, in altre parole, è la “misura [m] umana della luce [ka] divina”. (RENDICH, F., 2013, p. 122)

È necessario, a questo punto, rientrare in una dimensione di pretta scientificità e ricordare, con Nocentini (2010), che le origini del verbo amare, essendo legate all’indoeuropeo *amma, potrebbero essere state determinate da una voce onomatopeica propria di quel linguaggio infantile che, nel designare la madre, si esplica nella lallazione reduplicata. Pokorny (2007), pur con qualche perplessità, fa derivare amare dall’indoeuropeo *am-, che ritroviamo nel summenzionato *amma, mamma, e da *ami, madre. Tuttavia, egli, al contempo, riporta la posizione di Paul Kretschmer, secondo cui il lemma potrebbe derivare dall’etrusco. Gli autorevoli studi di Massimo Pittau (2015) hanno fatto luce sui molti rapporti tra latino ed etrusco. Gli Etruschi, sotto il profilo sessuale, erano molto più liberi dei Romani e hanno trasferito loro parecchi termini legati all’ambito della sessualità (vulva, cunnus < cuneus, fessura, organo sessuale femminile, obscaenus, coleus, testicolo, glans, glande). È quindi possibile, nonostante non ci sia nel vocabolario etrusco un corrispettivo che ne giustifichi il prestito, che anche amare giunga ai romani dagli Etruschi. A tal proposito, è possibile riscontrare un collegamento con l’onomastica etrusca, dove il termine Aminth designa la divinità di Amore (Eros). Altri nomi romani, di orgine estrusca, come Amicius, Amintius, Amanius, sono forse connessi con la radice am- di amare.

Di certo, nulla, in filologia, è vasto quanto le voci amore e amare, non già per le corrispondenze e le metamorfosi semantiche, che indubbiamente, per altri termini, potrebbero essere altrettanto estese e impegnative, bensì per gli effetti psicologico-esistenziali e filosofici che esse generano in autori e lettori. In tal senso, avremmo potuto seguire, per esempio, il sentiero tracciato dagli evangelisti, lasciarci affascinare dalle proposizioni ‘magiche’ di Giordano Bruno o dalle revisioni etico-spirituali di Spinoza; nello stesso tempo, ci saremmo potuti affidare alle lezioni della sacerdotessa socratico-platonica Diotima; avremmo potuto riproporre l’empito faustiano per Margherita o le affinità elettive costruite dallo stesso autore del Faust; nello stesso tempo, avremmo potuto e, forse, dovuto contemplare l’arcinota devozione di Dante per Beatrice, ma avremmo corso il rischio di produrre un’altra tra le numerose crestomazie amorose già esistenti. Preferiamo, dunque, congedarci dal lettore in modo simbolico-climatico, ovverosia con un frammento de Il nome della rosa.

Cos’è l’amore? Non v’è nulla al mondo né uomo né diavolo, né alcuna cosa, che io non consideri così sospetto come l’amore, ché questo penetra l’anima più di qualunque altra cosa. Non esiste nulla che tanto occupi e leghi il cuore come l’amore. Perciò, a meno di non avere quelle armi che la governano, l’anima precipita per l’amore in una immensa rovina. E io credo che senza le seduzioni di Margherita, Dolcino non si sarebbe dannato, né senza la vita proterva e promiscua della Parete Calva, tanti avrebbero sentito il fascino della sua ribellione. Bada, queste cose io non te le dico solo dell’amore cattivo, che naturalmente deve essere sfuggito da tutti come cosa diabolica, io dico questo e con grande paura anche dell’amore buono che corre tra Dio e l’uomo, tra prossimo e prossimo. Sovente avviene che due o tre, uomini o donne, si amino assai cordialmente e nutrano a vicenda singolare affezione, e desiderino vivere sempre vicini, e quando l’una parte desidera, l’altra vuole. E ti confesso che un sentimento del genere io lo provai per donne virtuose come Angela e Chiara. Ebbene, anche ciò è assai riprovevole, per quanto si faccia spiritualmente e per Dio… Perché anche l’amore sentito dall’anima, se non è armato ma viene preso con calore, viene poi a cadere, oppure opera disordinatamente. Oh, l’amore ha diverse proprietà, dapprima l’anima per lui si intenerisce, poi cade inferma… Ma poi avverte il calore vero dell’amore divino e grida, e si lamenta, si fa pietra messa nella fornace per disfarsi in calce, e crepita lambita dalla fiamma. (ECO, U., 1980, Il nome della rosa, Bompiani, pp. 233-234)

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